venerdì 14 febbraio 2025

Il mito, gli alberi e la «stranezza» di Socrate – Platone, Fedro

 

Socrate ne Fedro, 229c-230a non ha tempo per i miti. Siamo all'inizio del Fedro e l'omonimo personaggio si ritrova in un luogo incantevole che gli ricorda un mito. Parla di questo mito con Socrate e poi gli rivolge una domanda a cui segue la risposta di Socrate


Φαῖδρος

Ἀλλ᾽ εἰπὲ πρὸς Διός, ὦ Σώκρατες, σὺ τοῦτο τὸ μυθολόγημα πείθῃ ἀληθὲς εἶναι;

Σωκράτης

Ἀλλ' εἰ ἀπιστοίην, ὥσπερ οἱ σοφοί, οὐκ ἂν ἄτοπος εἴην, εἶτα σοφιζόμενος φαίην αὐτὴν πνεῦμα Βορέου κατὰ τῶν πλησίον πετρῶν σὺν Φαρμακείᾳ παίζουσαν ὦσαι, καὶ οὕτω δὴ τελευτήσασαν λεχθῆναι ὑπὸ τοῦ Βορέου ἀνάρπαστον [d] γεγονέναι ‑ ἢ ἐξ Ἀρείου πάγου· λέγεται γὰρ αὖ καὶ οὗτος ὁ λόγος, ὡς ἐκεῖθεν ἀλλ' οὐκ ἐνθένδε ἡρπάσθη. ἐγὼ δέ, ὦ Φαῖδρε, ἄλλως μὲν τὰ τοιαῦτα χαρίεντα ἡγοῦμαι, λίαν δὲ δεινοῦ καὶ ἐπιπόνου καὶ οὐ πάνυ εὐτυχοῦς ἀνδρός, κατ' ἄλλο μὲν οὐδέν, ὅτι δ' αὐτῷ ἀνάγκη μετὰ τοῦτο τὸ τῶν Ἱπποκενταύρων εἶδος ἐπανορθοῦσθαι, καὶ αὖθις τὸ τῆς Χιμαίρας, καὶ ἐπιρρεῖ δὲ ὄχλος τοιούτων Γοργόνων καὶ Πηγάσων καὶ [e] ἄλλων ἀμηχάνων πλήθη τε καὶ ἀτοπίαι τερατολόγων τινῶν φύσεων· αἷς εἴ τις ἀπιστῶν προσβιβᾷ κατὰ τὸ εἰκὸς ἕκαστον, ἅτε ἀγροίκῳ τινὶ σοφίᾳ χρώμενος, πολλῆς αὐτῷ σχολῆς δεήσει. ἐμοὶ δὲ πρὸς αὐτὰ οὐδαμῶς ἐστι σχολή· τὸ δὲ αἴτιον, ὦ φίλε, τούτου τόδε. οὐ δύναμαί πω κατὰ τὸ Δελφικὸν γράμμα γνῶναι ἐμαυτόν· γελοῖον δή μοι φαίνεται [230] [a] τοῦτο ἔτι ἀγνοοῦντα τὰ ἀλλότρια σκοπεῖν. ὅθεν δὴ χαίρειν ἐάσας ταῦτα, πειθόμενος δὲ τῷ νομιζομένῳ περὶ αὐτῶν, ὃ νυνδὴ ἔλεγον, σκοπῶ οὐ ταῦτα ἀλλ' ἐμαυτόν, εἴτε τι θηρίον ὂν τυγχάνω Τυφῶνος πολυπλοκώτερον καὶ μᾶλλον ἐπιτεθυμμένον, εἴτε ἡμερώτερόν τε καὶ ἁπλούστερον ζῷον, θείας τινὸς καὶ ἀτύφου μοίρας φύσει μετέχον.


Fedro

Ma dimmi, per Zeus, Socrate, tu credi che sia vero questo racconto mitologico?

Socrate

Ma se non ci credessi, come i sapienti, non sarei strano, e poi, sottilizzando, potrei dire che lei, mentre giocava con Farmacea, la spinse giù dalle rupi vicine un soffio di Borea, e così una volta morta si disse che era stata rapita da Borea – o cadde dalla collina di Ares; si racconta infatti anche questa versione, che da là e non da qui fu rapita. Io però, o Fedro, considero tali disquisizioni per altri aspetti graziose, ma occupazione di un uomo troppo abile e sgobbone e niente affatto fortunato, se non altro perché dovrebbe dopo questo correggere la forma degli Ippocentauri, e ancora quella della Chimera, e lo inonderebbe una folla di tali Gorgoni e Pegasi e masse di altre assurdità e certe stranezze di nature portentose. e se uno non credendo a queste riducesse ogni cosa secondo verosimiglianza, utilizzando una sapienza per così dire rozza, gli servirà molto tempo. Io però per tali cose non ho proprio tempo: e la causa di ciò, mio caro, è questa. Non sono ancora capace, secondo l’iscrizione delfica, di conoscere me stesso; mi pare ridicolo pertanto, ignorando ancora questo, indaghi questioni estranee a ciò. Quindi lasciando perdere queste cose, credendo invece a ciò che si pensa comunemente su di esse, cosa che dicevo or ora, analizzo non queste ma me stesso, se per caso sono un mostro molto più complicato e infiammato di Tifone, o una creatura più mite e semplice, che partecipa per natura di un destino divino e privo di superbia.


Subito dopo vedono un bellissimo platano sotto cui riposarsi per discutere del discorso che la sera prima Fedro ha sentito pronunciare dall’oratore Lisia sull’amore. A questo punto Socrate si lancia in uno sperticato elogio del locus descritto come amoenus, come se non avesse mai visto niente di simile, suscitando lo stupore di Fedro.


Platone, Fedro, 230c-e.


Φαῖδρος

Σὺ δέ γε, ὦ θαυμάσιε, ἀτοπώτατός τις φαίνῃ. Ἀτεχνῶς γάρ, ὃ λέγεις, ξεναγουμένῳ τινὶ καὶ οὐκ ἐπιχωρίῳ ἔοικας· οὕτως ἐκ τοῦ ἄστεος οὔτ᾽ εἰς τὴν ὑπερορίαν ἀποδημεῖς, οὔτ᾽ ἔξω τείχους ἔμοιγε δοκεῖς τὸ παράπαν ἐξιέναι.

«Fedro. Tu, o o meraviglioso, sembri un tipo proprio strano. Infatti, come dici, assomigli del tutto a uno straniero che è portato in giro da una guida e non uno del posto; così non vai fuori città né per andare all’estero, né mi sembri affatto uscire fuori dalle mura».

Σωκράτης

Συγγίγνωσκέ μοι, ὦ ἄριστε. Φιλομαθὴς γάρ εἰμι· τὰ μὲν οὖν χωρία καὶ τὰ δένδρα οὐδέν μ᾽ ἐθέλει διδάσκειν, οἱ δ᾽ ἐν τῷ ἄστει ἄνθρωποι. Σὺ μέντοι δοκεῖς μοι τῆς ἐμῆς ἐξόδου τὸ φάρμακον ηὑρηκέναι. ῞Ωσπερ γὰρ οἱ τὰ πεινῶντα θρέμματα θαλλὸν ἤ τινα καρπὸν προσείοντες ἄγουσιν, σὺ ἐμοὶ λόγους οὕτω προτείνων ἐν βιβλίοις, τήν τε Ἀττικὴν φαίνῃ περιάξειν ἅπασαν καὶ ὅποι ἂν ἄλλοσε βούλῃ.

«Socrate. Perdonami, ottimo amico. Io infatti sono bramoso di apprendere: dunque i posticini e gli alberi non vogliono insegnarmi niente, mentre lo fanno gli uomini nella città. Tu certo sembri avermi trovato il farmaco per farmi uscire. Infatti come coloro che agitano davanti agli occhi del bestiame affamato un ramoscello o un frutto lo spingono avanti, tu protendendo in avanti così i discorsi dei libri, sembri portarmi in giro per tutta l’Attica e dove altro vuoi».

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