giovedì 28 novembre 2024

Dodds – Introduzione alle Baccanti di Euripide

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E.R. DODDS

BACCHAE – seconda edizione

pubblicata con introduzione e commento


INTRODUZIONE

Diversamente da molte tragedie greche le Baccanti sono un dramma che riguarda un evento storico – l’introduzione in Grecia di una nuova religione1. Quando Euripide scriveva, gli eventi si svolgevano in un lontano passato, e la memoria di ciò sopravviveva solo in forma mitica; la nuova religione già da tempo si era acclimatata ed era stata accettata come parte della vita greca. Ma era ancora l’espressione di una attitudine religiosa, e il ricordo di un’esperienza religiosa, diversa da qualunque cosa comportasse il culto dei tradizionali dèi olimpici; e le forze liberate e incarnate dal movimento originale erano attive in altre forme nell’Atene dei giorni di Euripide. Se vogliamo capire questo dramma, dobbiamo prima di tutto conoscere qualcosa sulla religione dionisiaca – lo scopo di alcuni dei suoi riti, il significato di alcuni dei suoi miti, e le forme che assunse al tempo di Euripide. Le opinioni discordanti dei critici del diciannovesimo secolo dovrebbero metterci in guardia sul fatto che se tentiamo di afferrare il pensiero del poeta con un attacco frontale, senza riguardo per il retroterra contemporaneo, saremo alla mercé dei pregiudizi nostri o altrui.


I. DIONISO

i. La natura della religione dionisiaca2

Per i Greci dell’età classica Dioniso non era solamente, o per lo meno principalmente, il dio del vino. Plutarco ci dice molto, confermando con una citazione da Pindaro3, e anche i titoli del culto del dio lo confermano: egli è Δενδρίτης o Ἔνδενδρος, il Potere nellalbero; è Ἄνθιος il portatore di fiori, Κάρπιος, il portatore di frutti, Φλεύς oppure Φλέως, l’abbondanza della vita. Il suo dominio è, nelle parole di Plutarco, il complesso della ὑγρὰ φύσις (la natura fluida, N.d.T.) – non solo il fuoco liquido del chicco duva, ma anche la linfa impetuosa in un giovane albero, il sangue che pulsa nelle vene di un giovane animale, tutte le misteriose e incontrollabili correnti che fluiscono e rifluiscono nella vita della natura. Il nostro testimone più antico, Omero, non si riferisce mai esplicitamente a lui come al dio del vino; e può ben essere che la sua associazione con certe piante selvatiche, come labete e ledera, e con certi animali selvaggi, sia in effetti più antica di quella con la vite. Furono gli Alessandrini e poi soprattutto i Romani – con il loro ordinato funzionalismo e la loro allegra ottusità in tutti i problemi dello spirito – che scomposero Dioniso riducendolo al ‘gaio Bacco’, il dio del vino con la sua sfrenata banda di ninfe e di satiri4. In questo modo fu fatto proprio prendendolo dai Romani, dai pittori e dai poeti del Rinascimento; e furono essi che di volta in volta plasmarono l’immagine con cui il mondo moderno lo raffigura. Se vogliamo capire le Baccanti, il nostro primo passo è togliersi dalla testa (unthink) tutto questo: dimenticare le raffigurazioni di Tiziano e Rubens, dimenticare Keats e il suo ‘dio delle bevute mozzafiato e della cinguettante gaiezza’, ricordare che ὄργια non sono orge, ma atti di devozione (cfr. v. 34 n.), e che βακχεύειν non significa ‘far baldoria ma avere un particolare tipo di esperienza religiosa - lesperienza della comunione con dio, che ha trasformato un essere umano in un βάκχος o una βάκχη (cfr. v. 115 n.).

Per questa esperienza i Greci, come molti altri popoli, credevano che il vino fosse in certe circostanze un aiuto. Lebbrezza, come William James ha osservato, ‘espande, unisce, e dice Sì: porta il suo devoto dalla superficie fredda delle cose al loro nucleo radioso; lo rende momentaneamente tuttuno con la verità.5 Così il vino acquista valore religioso: colui che lo beve diventa ἔνθεος6 – ha bevuto la divinità. Ma il vino non era lunico o il più importante dei mezzi di comunione. Le menadi, nel nostro dramma, non sono ebbre: Penteo pensava che lo fossero (vv. 260 ss.), ma ci viene espressamente detto che si sbagliava (vv. 686s.); alcune di loro preferivano bere acqua, o anche latte (vv. 704ss.). Qui Euripide è probabilmente corretto da un punto di vista del rito: per quanto riguarda le altre azioni delle sue menadi appartengono ad un rituale invernale che non sembra essere stato una festa del vino, e per sua natura non poteva esserlo. Il periodo giusto per lebbrezza sacra è la primavera, quando il vino nuovo è pronto per essere aperto; ed è allora che lo troviamo, per esempio ad Atene durante la ‘Festa delle Coppe’ che costituiva una parte delle Anthesterie.

Ma cerano altri modi di diventare ἔνθεος. La curiosa ὀρειβασία7 o danza sulla montagna, descritta nella πάροδος8 delle Baccanti e poi nel primo discorso del messaggero, non è fantasia del poeta, ma il riflesso di un rituale praticato da comunità femminili a Delfi fino al tempo di Plutarco, e ne abbiamo la testimonianza in iscrizioni provenienti da molti altri luoghi del mondo greco9. Il rito aveva luogo a metà dellinverno ad anni alterni (donde il nome di τριετηρίς, Baccanti, v. 133). Il fatto doveva comportare notevoli disagi ed persino un certo rischio: Pausania dice che a Delfi le donne andavano fin sulla vetta del Parnaso (alto circa 2500 m.) e Plutarco descrive un caso, apparentemente accaduto ai suoi tempi, quando le donne furono sorprese da una tempesta di neve e si dovette inviare una squadra di soccorso10.

Qual era lo scopo di questa pratica? Molte persone ballano fuori dalla porta per far crescere le messi, servendosi della magia simpatetica. Ma danze di questo tipo altrove sono annuali come le mietiture, non biennali come lὀρειβασία; la loro stagione è la primavera, non il pieno inverno e il loro scenario sono i campi di grano, non l’arida cima di una montagna. Gli scrittori greci tardi ritenevano che le danze di Delfi commemorative: ‘danzano’, dice Diodoro (4.3), ‘imitando le menadi che, si dice, nei tempi antichi fossero associate al dio. Probabilmente è nel giusto, per quanto riguarda il suo tempo (o quello della sua fonte); ma il rituale è di solito più antico del mito attraverso il quale il popolo lo spiega e ha radici psicologiche più profonde. Ci deve essere stato un tempo in cui le menadi, o tiadi, o βάκχαι diventavano veramente per poche ore o giorni ciò che il loro nome implica – donne selvagge la cui umana personalità era stata temporaneamente sostituita da unaltra. Se le cose stessero ancora così al tempo di Euripide non abbiamo mezzi sicuri per saperlo: una tradizione Delfica ricordata da Plutarco11 suggerisce che ancora nel quarto secolo a.C. il rito a volte provocasse un vero disturbo della personalità, ma la testimonianza è debole.

Ci sono, comunque, fenomeni paralleli in altre culture che possono aiutarci a capire la πάροδος delle Baccanti e la punizione di Agave. In molte società, forse in tutte le società, ci sono persone alle quali “le danze rituali procurano unesperienza religiosa che sembra più soddisfacente e convincente di qualsiasi altra […] È con i loro muscoli che ottengono nel modo più facile la cognizione del divino.12 Gli esempi meglio conosciuti sono i dervisci maomettani, gli Shakers americani, l’Hasidim ebraico e gli sciamani siberiani. Spesso la danza induce la sensazione di essere posseduti da una personalità estranea. La danza di questo genere è altamente contagiosa; si diffonde come un incendio” (Baccanti, v. 778), e facilmente diventa unossessione compulsiva, che si impossessa persino degli scettici (come Agave), senza il consenso di una mente consapevole. Questo accadeva nella straordinaria follia danzante che periodicamente invase l’Europa dal quattordicesimo al diciassettesimo secolo, quando la gente danzava finché non si accasciava e giaceva a terra priva di coscienza (cfr. Baccanti, 136 e n.): per esempio, a Liegi nel 1374 molte persone, apparentemente sane di mente e di corpo, furono improvvisamente possedute dal demonioe lasciarono casa e famiglia per vagare lontano con i danzatori; Cadmo e Tiresia trovarono i propri corrispondenti nellItalia del diciassettesimo secolo, dovepersino uomini vecchi di novant’anni mettevano da parte i loro bastoni al suono della tarantella e, come se qualche pozione magica, capace di ristabilire la loro giovinezza e il loro vigore, scorresse nelle loro vene, si univano a quei danzatori assai stravaganti”. Molti sostenevano che questa follia danzante potesse essere imposta alla gente, maledicendola con ciò, proprio come Dioniso aveva maledetto le figlie di Cadmo. In qualche caso lossessione riappariva a intervalli regolari, crescendo dintensità fino al giorno di San Giovanni o di San Vito, quando si verificava uno scoppio che era seguito da un ritorno alla normalità; da qui si svilupparono periodiche cure” per pazienti colpiti, mediante musica e danze estatiche, che in alcuni luoghi si sono cristallizzate in feste annuali.

Questultimo fatto suggerisce il modo in cui, in Grecia, la ὀρειβασία rituale a data fissa può in origine essersi sviluppata da accessi spontanei di isterismo collettivo. Canalizzando tale isterismo in un rito organizzato una volta ogni due anni, il culto dionisiaco lo mantenne dentro i limiti e gli consentì uno sfogo relativamente innocuo. Quello che la πάροδος delle Baccanti rappresenta è l’isterismo tenuto a freno e al servizio della religione; le gesta compiute sul Citerone sono manifestazioni di isterismo allo stato grezzo, la mania compulsiva che contagia la persona miscredente. Dioniso è all’opera su entrambi: come San Giovanni o San Vito, egli è al tempo stesso la causa della pazzia e il liberatore dalla pazzia, Βάκχος e Λύσιος13, θεὸς δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος14(Baccanti, v. 860). Dobbiamo tener a mente questa ambivalenza se vogliamo intendere correttamente il dramma. Resistere a Dioniso significa reprimere l’elemento primordiale insito nella natura di ciascuno; la punizione è l’improvviso e completo collasso degli argini interiori quando l’elemento primordiale giocoforza li sfonda e la civiltà svanisce.

L’atto culminante della danza dionisiaca invernale era fare a pezzi e mangiare la carne cruda di un animale, σπαραγμός15 e ὠμοφαγία16. Ciò è menzionato nelle norme del culto dionisiaco a Mileto (276 a.C.), ed è attestato da Plutarco e da altri. Nelle Baccanti lo σπαραγμός, prima del bestiame Tebano (vv. 734 sqq.) e poi di Penteo (vv. 1125 sqq.), è descritto con un compiacimento che il lettore moderno ha difficoltà a condividere. Una dettagliata descrizione della ὠμοφαγία sarebbe forse stata eccessiva per lo stomaco persino del pubblico ateniese; Euripide ne parla due volte, in Baccanti, v. 138 e Cretesi, fr. 472, ma in entrambi i passi sorvola di sfuggita e con discrezione. È difficile immaginare lo stato psicologico da lui descritto con le due parole ὠμοφάγον χάριν17, ma è notevole che i giorni stabiliti per la ὠμοφαγία fossero giorni neri e nefasti”;18 e pare che coloro che praticano un simile rito ai nostri giorni, sperimentino in esso un misto di esaltazione suprema e di repulsione suprema: è al tempo stesso cosa sacra e orribile, appagamento e impurità, sacramento e contaminazione – lo stesso violento conflitto di disposizioni emotive che corre per tutte le Baccanti e che si trova alle radici di tutte le religioni di tipo dionisiaco.

Gli scrittori tardi spiegarono la ὠμοφαγία come fecero per la danza: immaginarono che essa commemorasse il giorno in cui il Dioniso infante fu sbranato e divorato. Ma (a) possiamo difficilmente dissociare il rito dalla diffusa credenza in ciò che Frazer chiamògli effetti omeopatici di una dieta a base di carne: se tu fai a brandelli qualcosa e la mangi calda e sanguinante, aggiungi i suoi poteri vitali ai tuoi propri, perchéil sangue è vita”; (b) pare probabile che si ritenesse che la vittima incarnasse i poteri vitali del dio stesso, i quali, con latto della ὠμοφαγία, si trasferivano ai suoi devoti. La vittima più comune era un toro – ecco perché Aristofane parla di “riti bacchici di Cratino mangia-tori”.19 Sappiamo anche di ὠμοφαγίαι di capre selvatiche o di cerbiatti, e dilaniamenti di vipere; le donne invece che sbranarono Penteo lo credevano un leone. In parecchie di queste creature possiamo riconoscere le incarnazioni bestiali del dio: cfr. Baccanti, vv. 1017-1920, dove il fedele gli gridava di apparire come toro, serpente, o leone. Per gente dedita alla pastorizia come quella della Beozia o dellElide non c’è nessun altro simbolo più luminoso della potenza della natura che il toro. Ein forma di toro, infuriando con lo zoccolo bestiale, che Dioniso viene invocato nellantico inno delle donne dellElide21, così come è in forma di toro che egli si prende gioco del suo persecutore nelle Baccanti (v. 618); e gli scultori qualche volta lo mostrano, come Penteo lo vide in una visione (Baccanti, v. 922)22, come un uomo con le corna. Nellinno omerico (7, 44) si manifesta come leone, e questa può ben essere la più antica delle sue forme animali23.

Possiamo considerare la ὠμοφαγία, dunque, come un rito in cui il dio era in un certo senso presente nella sua trasposizione bestiale e in questa forma veniva fatto a pezzi e mangiato dalla sua gente. Ammetteva il culto una volta come la storia di Penteo suggerisce una ancor più potente, perché più terribile, forma di comunione – lo sbranamento, o persino lo sbranamento e il pasto del dio nelle sembianze di uomo? Non possiamo esserne sicuri, ed alcuni studiosi lo negano. Ci sono, tuttavia, sporadiche indicazioni che indicano questa direzione. Teofrasto, apud Porph. abst. 2, 8, parla di ἡ τῶν ἀνθρωποθυσιῶν βακχεία24, ed aggiunge che i Bassari pure praticano il cannibalismo. Pausania (9, 8, 2) ha sentito dire che a Potnie, presso Tebe, una volta veniva sacrificato un ragazzo a Dioniso, finché Delfi autorizzò una capra in sostituzione. Egli spiega il rito come espiatorio; ma ci sono altre testimonianze che possono indurci a dubitarne. Evelpide di Caristo, ap. Porph. abst. 2, 55, sa che su due isole dellEgeo, Chio e Tenedo, lo σπαραγμός di una vittima umana era un tempo praticato in onore di Dioniso Omadio, il dio della ὠμοφαγία; e Clemente (Protr. 3, 42) ha raccolto da una storia ellenistica di Creta una simile tradizione riguardo a Lesbo. Sembra che a Tenedo, come a Potnie, una vittima animale fu più tardi sostituita, ma il rituale mantenne aspetti curiosi e significativi: Eliano (N.A. 12, 34) ci dice che scelgono una mucca gravida e la trattano come se fosse una madre umana; dopo che il vitello è nato, gli mettono degli stivaletti e poi lo sacrificano a Dioniso Ἀνθρωπορραίστης, il massacratore di uomini”; ma colui che colpiva il vitello con la sua ascia era lapidato dalla gente finché non trovava scampo sulla spiaggia(cioè: lui era contaminato e doveva fare finta di lasciare il paese, come Agave fa alla fine delle Baccanti). A questa testimonianza possiamo aggiungere il ricorrente episodio delluccisione di un bambino e dello σπαραγμός umano nei miti dionisiaci (vedi sotto); il fatto che il sacrificio umano, che si sosteneva fosse stato compiuto prima della battaglia di Salamina, si dice fosse stato offerto a Dioniso Omeste25; e l’attestazione di un omicidio rituale in connessione con i movimenti dionisiaci italici repressi nel 186 a.C.26

Comunque sia, la ὠμοφαγία e lincarnazione bestiale rivelano Dioniso come qualcosa di molto più significativo e molto più pericoloso di un dio del vino. Egli è il principio della vita animale, ταῦρος e ταυροφάγος,27 il cacciato e il cacciatore – la sfrenata potenza che luomo invidia nelle bestie e cerca di assimilare. Il suo culto fu in origine un tentativo, da parte degli esseri umani, di raggiungere una comunione con questa potenza. Leffetto psicologico era di liberare listintiva vita delluomo dalla schiavitù impostale dalla ragione e dalle consuetudini sociali: il fedele diventava cosciente di una nuova, estranea vitalità, che egli attribuiva alla presenza del dio in sé (cfr. Baccanti, vv. 187 sqq., 194, 945-6)28. Euripide sembra allo stesso modo alludere ad un ulteriore effetto, al fondersi della coscienza individuale in una coscienza di gruppo: il fedele θιασεύεται ψυχὰν (Baccanti, v. 75)29, è tutt’uno non solo con il Signore della Vita, ma anche con i suoi seguaci di fede; ed è tutt’uno anche con la vita della terra (Baccanti, vv. 726-7 e nota)30.


ii. La religione dionisiaca ad Atene

I Greci sostenevano, senza dubbio correttamente, che questi singolari riti non erano originari dellEllade: Erodoto li chiama νεωστὶ ἐσηγμένα31 (II, 49, dove νεωστὶ sembra riferirsi ai tempi di Melampo, prima della guerra di Troia); ed Euripide rappresenta il culto dionisiaco come una sorta di religione universale”, diffusa da missionari (come nessun culto originario greco lo era mai stato) da un paese ad un altro. In accordo con Erodoto, suo luogo dorigine sono le montagne di Lidia e di Frigia (Baccanti, vv. 13, 55, 86, ecc.), unipotesi supportata dalla moderna scoperta che Βάκχος è l’equivalente lidio di Dioniso. Altrove Dioniso è spessissimo rappresentato come un tracio: Omero lo collega con il tracio Licurgo (Iliade, VI, 130 sqq., cfr. Sofocle, Antigone, v. 955), e nel V secolo viaggiatori greci vennero a conoscenza del culto dionisiaco sui monti Pangeo e Rodope. Possiamo accettare anche questo: le alture della Tracia e quelle dellAsia Minore ospitarono popolazioni di sangue e cultura affini (Erodoto, VIII, 73). I miti suggeriscono che la nuova divinità può di fatto aver raggiunto la Grecia continentale per due percorsi indipendenti – via mare, dalla costa asiatica attraverso Cos, Nasso, Delo e lEubea fino allAttica, e attraverso la terraferma, dalla Tracia alla Macedonia, Beozia e Delfi. Il suo arrivo non può essere datato con esattezza, ma io penso che debba essere parecchio prima di quanto supposto, ad esempio, da Wilamowitz (il quale era propenso a porlo in epoca tarda, cioè intorno al 700 a. C.): non solo Semele è già una principessa tebana per lautore della Διὸς ἀπάτη32 (Illiade, XIV, 323sqq.), ma i miti sull’introduzione sono associati a condizioni molto arcaiche – la monarchia ad Atene, il governo dei Minii ad Orcomeno e dei Pretidi e Perseidi ad Argo, il periodo cadmeo a Tebe.

Nel corso dei secoli che separano la prima comparsa del culto di Dioniso in Grecia dall’età di Euripide, esso fu posto sotto il controllo dello stato e, in ogni caso, perse molto del suo carattere originario in Attica. Gli Ateniesi del tempo di Euripide non avevano un rito invernale biennale, né danze sulle montagne, né ὠμοφαγία33; si accontentavano di inviare una delegazione di donne a rappresentarli alla τριετηρίς di Delfi. Per quanto ne sappiamo, i loro festival dionisiaci erano molto diversi: erano occasioni di allegria campagnola vecchio stile e un po anche di magia campagnola vecchio stile, come nelle “Dionisie rurali”; oppure per un’ebbrezza religiosa e allegra, come nella Festa delle Coppe; o per sfoggiare la grandezza civile e culturale di Atene, come nelle “Dionisie cittadine”. Soltanto le Lenee possono forse aver mantenuto qualcosa del fervore originario, che il loro stesso nome lascia intendere e che possiamo riconoscere su qualcuno dei cosiddetti “Vasi Lenei.

La funzione di questi geniali festival attici era, nelle parole di Pericle, procurare ἀνάπαυλαι τῶν πόνων34: il loro valore era più sociale che religioso. Questo aspetto del culto dionisiaco non è ignorato nelle Baccanti: Euripide lo ha espresso nel modo più bello nel primo stasimo, vv. 370 sqq. (vedi il commento). Ma cera poco o niente nel culto ufficiale ateniese che potesse ispirare le descrizioni della πάροδος e dei discorsi del messaggero, o che avesse qualche reale attinenza con la selvaggia e primitiva storia della punizione di Penteo.

Molto del colore religioso primitivo del dramma è senza dubbio tradizionale, come il tema stesso (vedi sotto). La sua straordinaria vitalità è forse dovuta in qualche misura a cose che il poeta ha visto o sentito dire in Macedonia – dove lopera fu scritta perché in Macedonia, se dobbiamo credere a Plutarco, il culto dionisiaco era ancora nel IV secolo abbastanza primitivo da includere alcuni riti come il maneggio dei serpenti35. Ma ho suggerito altrove36 che linteresse di Euripide per il soggetto può essere stato suscitato da fatti che accadevano più vicino a casa. Ad Atene Dioniso era stato addomesticato, ma non ne consegue che il carattere dionisiaco fosse svanito, e ci sono di fatto molte prove che durante la guerra peloponnesiaca probabilmente come risultato delle tensioni sociali che essa generòla religione di tipo orgiastico cominciò a riemergere sotto altri nomi. Atene fu invasa da una moltitudine di θεοὶ ξενικοί37: è in questo momento che la letteratura attica comincia ad essere piena di riferimenti a divinità misteriche orientali e settentrionali, Cibele, Bendis, Attis, Adone e Sabazio. In relazione alle Baccanti l’ultimo nominato è di speciale interesse. Egli è un corrispondente orientale di Dioniso un Dioniso non ellenizzato, il cui culto manteneva il fascino primitivo e molto del rituale originario che il Dioniso attico aveva da molto tempo perduto. Sabazio prometteva ancora ai suoi iniziati quanto Dioniso aveva una volta promesso – l’identificazione con la divinità. E a tal fine egli offriva loro i vecchi mezzi: un rito estatico notturno eseguito al suono del flauto e del timpano. Parecchi degli antichi elementi rituali menzionati nella πάροδος delle Baccanti – i καθαρμοί, i τύμπανα, il maneggio dei serpenti, le pelli di cerbiatto, l’appellativo cultuale ἔξαρχος sono attestati da Demostene per il culto di Sabazio in quanto praticati ad Atene nel IV secolo38.

Il passato era di fatto ritornato, o stava tentando di ritornare. E trascinava nella sua scia una controversia di contenuti simili alla disputa tra Penteo e Tiresia nelle Baccanti. Echi di questa controversia sopravvivono nei frammenti della Commedia Antica, negli oratori, e in Platone; o piuttosto, echi da una delle due parti; infatti capita che tutte le testimonianze in nostro possesso sono ostili al nuovo movimento religioso. Aristofane scrisse una commedia, le Horae, in cui Sabazio e certe altre divinità stranierefurono processate e condannate allesilio da Atene; la protesta sembra sia stata principalmente indirizzata, come la protesta di Penteo contro Dioniso, alla celebrazione di riti femminili coperti dalle tenebre, nocturnae pervigilationes39. Né fu questo un attacco isolato ai nuovi culti: i θεοὶ ξενικοί furono oggetto di satira da parte di Apollofane nei suoi Cretesi, di Eupoli nei suoi Baptae, di Platone comico nel suo Adone. Nel IV secolo, Demostene cerca di oscurare il buon nome del suo rivale Eschine con ripetute allusioni alla sua frequentazione con i mal reputati riti di Sabazio. Frine è accusata di introdurre una “nuova divinità” di tipo dionisiaco, Isodaites, e di costituire θίασοι illegali; mentre Platone prende così seriamente i pericoli morali del movimento che vorrebbe imporre severe pene su chiunque fosse stato colto a praticare riti orgiastici in privato40.

Lopinione pubblica ateniese è dunque, per quanto ci troviamo a conoscere, dalla parte della legge e dellordine. Quale sorta di forze emotive fossero impegnate sullaltra sponda lo possiamo in parte congetturare dai cori delle Baccanti, e il discorso di Tiresia può forse aiutarci a ricostruire le argomentazioni intellettuali per la difesa fatta in certi ambienti. Al contrario, possiamo comprendere meglio alcune parti del dramma se le rapportiamo a questo retroterra contemporaneo. Non suggerisco che il poeta trattò la venuta di Dioniso a Tebe come unallegoria dellarrivo ad Atene di Sabazio e cose simili: persino se avesse voluto fare così, i contorni della storia erano troppo solidamente fissati dalla tradizione per prestarsi ad un trattamento del genere. Sembra però probabile che la situazione contemporanea aiutasse a stimolare l’interesse di Euripide per quel mito in particolare; e che, nello scrivere certi passi delle Baccantisoprattutto la scena di Penteo e Tiresia egli avesse in mente, e si aspettasse che il suo pubblico avesse in mente, il parallelismo fra le due storie.


II. ELEMENTI TRADIZIONALI NELLE BACCANTI

i. Storia e rituale

La storia di Penteo e Agave è una di una serie di leggende di culto che descrivono la punizione di quegli sconsiderati mortali che rifiutano di accettare la religione di Dioniso. La prima di esse ad apparire in letteratura è la storia del Tracio Licurgo, del quale Omero riferisce (Iliade, VI, 130 sqq.) che sulla montagna sacra Nisa diede la caccia a Dioniso e alle sue “nutrici”, li spinse fino al mare, e fu accecato come punizione. Scrittori più tardi (e pitture vascolari) dicono che egli fu punito con la pazzia, e nella sua pazzia uccise il proprio figlio. La sua fine è variamente descritta: fu sepolto in una caverna (Sofocle, Antigone, 955 sqq.), patì lo σπαραγμός da parte di cavalli o pantere, o si mozzò le gambe. Una figura che si avvicina molto è il Tracio Bute, il quale inseguì le menadi di Ftiotide fino al mare, diventò pazzo, e annegò in un pozzo. Un altro gruppo di storie parla di donne che furono fatte impazzire dal dio – le tre figlie di Minia a Orcomeno, che uccisero e divorarono il bambino Ippaso; le tre figlie di Preto, che indussero le donne di Argo ad uccidere i propri figli e a darsi alle montagne; le figlie di Eleutere a Eleutere, la cui pazzia fu punita per aver disprezzato la vista del dio.

Queste leggente sono evidentemente collegate al mito tebano della pazzia delle tre figlie di Cadmo e della morte di Penteo tra le loro mani. Molti scrittori trovano in esse semplicemente un riflesso di eventi storici – una tradizione di conflitti locali successivi tra i fanatici seguaci della nuova religione e i rappresentanti di legge e ordine, i capi delle grandi famiglie. Che conflitti di questo genere si siano verificati è di per sé probabile; che il contagio delle danze della montagna dovesse improvvisamente impossessarsi di un miscredente è psicologicamente comprensibile e ha, come abbiamo visto, i suoi paralleli in altre culture; che il dio dovesse fare le sue prime conversioni fra le donne è naturale alla luce delle vite anguste e represse che le donne greche comunemente conducevano. Ma mentre abbiamo bisogno di non rifiutare questo punto di vista, esso non fornisce, io penso, di per sé una spiegazione esaustiva dei miti. (a) Non si adatta alla storia di Licurgo, che è ambientata nella patria tracia del dio. (b) Non rende conto della singolare fissità dello schema mostrato dall’altro gruppo: sempre ci sono tre donne (corrispondenti ai tre θίασοι di menadi che esistevano a Tebe e altrove in epoca storica, cfr. Baccanti, 680 n.); regolarmente esse uccidono i loro figli, o il figlio di una di loro, come Licurgo ha ucciso suo figlio, e come Procne ha ucciso Iti alla τριετηρίς sul monte Rodope (Ovidio, Metamorfosi, VI, vv. 658 sqq.). La storia indubbiamente ripete se stessa: ma è solo il rituale che ripete se stesso esattamente. (c) La storia delle Miniadi è collegata da Plutarco a un rituale inseguimento delle menadi da parte del sacerdote di Dioniso, rituale che era ancora eseguito a Orcomeno ai suoi giorni – un inseguimento che poteva finire (e finì occasionalmente) in una uccisione rituale. Se noi accettiamo la testimonianza di Plutarco, è difficile evitare la conclusione che l’inseguimento delle menadi argive da parte del sacerdote Melampo e quello delle “nutrici” del dio da parte di Licurgo e Bute, riflettano un rituale simile.

Queste considerazioni suggeriscono che Penteo possa essere una figura composta (come Guy Fawkes) di elementi storici e rituali – allo stesso tempo lo storico avversario del dio e la sua vittima rituale. Euripide gli ha conferito una fisionomia che si addice alla sua veste originaria: è l’aristocratico conservatore greco, che disprezza la nuova religione in quanto βάρβαρον, la odia per la sua cancellazione delle distinzioni di sesso e classe sociale, e la teme come una minaccia all’ordine sociale e alla pubblica morale. Ci sono però delle caratteristiche nella sua storia come il dramma la presenta che assomigliano a elementi tradizionali derivati dal rituale, e non si spiegano facilmente sulla base di qualsiasi altra ipotesi. Tali sono l’appostamento di Penteo sull’abete sacro (vv. 1058-1075 n.), il suo bersagliamento con rami d’abete e quercia (vv. 1096-1098 n.), e l’errata convinzione di Agave di trasportare la testa recisa di una delle incarnazioni ferine del dio, un vitello o un leone, su cui invita il coro a festeggiare (vv. 1184-1187 nn.). E se accettiamo questi come riflessi di un rituale sacrificale originario, possiamo ragionevolmente collegare al medesimo rituale – e di conseguenza riconoscere come sostanzialmente tradizionali – due fondamentali episodi della storia, quando Penteo viene incantato o stregato e quando viene vestito in paramenti rituali. Se Penteo deve essere la vittima del dio, bisogna che egli diventi il tramite del dio (questa è la teoria dionisiaca del sacrificio): Dioniso deve entrare in lui e farlo impazzire, non con pozioni o droghe o ipnosi, come il moderno razionalismo troppo disinvoltamente suppone, ma con una soprannaturale intromissione nella personalità dell’uomo (cfr. la nota introduttiva al terzo episodio c). Inoltre, prima che la vittima sia sbranata, deve essere consacrata da un rito di investitura: come il vitello a Tenedo indossava il coturno del dio, così Penteo deve indossare la μίτρα del dio (vv. 831-833 n., 854-855 n.). Possiamo dire con una certa sicurezza che né la scena in cui viene stregato né la scena della “toilette” sono, nei loro punti principali, l’invenzione del poeta (o di qualsiasi poeta) così come sono state esposte, sebbene a partire da questi elementi tradizionali egli abbia creato qualcosa che è unico nella sua stranezza e capacità di coinvolgimento. Lo stesso sembra essere vero di molti dei punti del discorso del primo messaggero (vedi commento).


ii. Testimonianze dai drammi dionisiaci precedenti

I πάθη41 di Dioniso, il dio patrono del dramma, possono a ragione essere il più antico di tutti i soggetti drammatici42. Per noi le Baccanti sono un esemplare unico di dramma sulla passione dionisiaca; per il suo primo pubblico invece era un rimaneggiamento di un tema ormai familiare alle generazioni che frequentavano il teatro ateniese. L’attribuzione di un Πενθεύς a Tespi43 è probabilmente un’invenzione; ma in aggiunta alle due tetralogie dionisiache di Eschilo, sappiamo di una tetralogia su Licurgo di Polifrasmone44, rappresentata nel 467; delle Βάκχαι di Senocle, che faceva parte del gruppo che vinse il primo premio nel 415; delle Βάκχαι ἢ Πενθεύς del figlio di Sofocle Iofonte; una Σεμέλη κεραυνομένη45 di Spintaro (tardo quinto secolo); delle Βάκχαι di Cleofonte (periodo incerto). Nessuna tragedia dionisiaca è attribuita a Sofocle, a meno che le sue Ὑδροφόροι non trattasse, come la Σεμέλη ἢ Ὑδροφόροι di Eschilo, della nascita di Dioniso (la quale noi sappiamo essere menzionata nella tragedia, fr. 674). Il Διόνυσος di Cheremone (dove pare che figurasse Penteo), la Σεμέλη di Carcino, e la Σεμέλη di Diogene probabilmente appartengono al quarto secolo; un passo piuttosto lungo rimasto da quest’ultima testimonia del persistente interesse del pubblico ateniese per gli esotici culti orgiastici.


Nel paragrafo che segue ho tagliato alcuni passaggi molto specifici senza tuttavia pregiudicare il succo del ragionamento.


Di nessuna di queste conosciamo molto oltre il titolo – la grande popolarità delle Baccanti nell’antichità più tarda le ha senza dubbio uccise. E persino dei drammi dionisiaci di Eschilo la nostra conoscenza è dolorosamente esigua. La sua Lycurgeia era composta da Ἠδωνοί, Βασσάραι (o Βασσαρίδες), Νεανίσκοι, e il dramma satiresco Λυκοῦργος (schol. Aristofane, Tesmoforiazuse, 134). Così come sui drammi che componevano la sua (presunta) tetralogia tebana c’è molta discussione. Il catalogo mediceo ci presenta Βάκχαι, Ξάντριαι, Πενθεύς, Σεμέλη ἢ Ὑδροφόροι, Τροφοί. Ce n’è una di troppo: l’ipotesi più verosimile è forse che Βάκχαι sia un titolo alternativo per Βασσάραι46. […] I frammenti della Lycurgeia di Eschilo presentano alcuni interessanti paralleli con le Baccanti. (a) Negli Ἠδωνοί, come nel nostro dramma, Dioniso veniva fatto prigioniero, interrogato sul luogo della sua nascita, evidentemente nell’ignoranza della sua identità (fr. 61, cfr. Baccanti, 460 sqq.), e schernito per il suo aspetto e abbigliamento effemminati (fr. 61 e probabilmente 59, 60, 62, cfr. Baccanti vv. 453-459 n., 831-833 n.). È come se la prima scena tra Penteo e Dioniso nelle Baccanti seguisse il modello dei poeti più antichi piuttosto da vicino. (b) Da qualche parte nella tetralogia c’era un’apparizione del dio nella sua vera natura, il cui effetto sul palazzo di Licurgo era descritto nei versi ἐνθουσιᾷ δὴ δῶμα, βακχεύει στέγη47 (fr. 58). Possiamo probabilmente dedurre che nel “prodigio del palazzo” delle Baccanti Euripide stesse seguendo la tradizione, anche se le parole conservate non implicano un effettivo terremoto. (c) Da due frammenti delle Βασσάραι possiamo dedurre che Eschilo – come Euripide – parlasse delle pericolose sembianze taurine del dio (fr. 23, cfr. Baccanti 618, 920, 1017) e lo rappresentasse come Signore del Fulmine (fr. 23a sul monte Pangeo, cfr. Baccanti 594-595 n., 1082-1083 n.).

Tre ulteriori congetture possono essere aggiunte. (i) Certi personaggi in Eschilo (?Licurgo o Penteo) applicano il termine offensivo χαλιμίαι o χαλιμάδες48 alle donne baccanti (fr. 448), il che suggerisce che le insinuazioni di immoralità messe da Euripide in bocca a Penteo erano accuse tradizionali. (ii) L’imprigionamento e la prodigiosa fuga delle baccanti, brevemente descritti nel nostro dramma (vv. 443-448), figurano nel sommario di “Apollodoro” della storia di Licurgo (Biblioteca, III, 34-35 Βάκχαι δὲ ἐγένοντο αἰχμάλωτοι αὖθις δὲ αἱ Βάκχαι ἐλύθησαν ἐξαίφνης49), e forse comparivano anche nel Lycurgus di Nevio50. “Apollodoro” non sta seguendo Euripide, dato che fa incarcerare a Licurgo anche i satiri. Dobbiamo supporre che egli ed Euripide (e Nevio?) stiano qui attingendo ad una fonte comune, con ogni probabilità la Lycurgeia di Eschilo. (iii) Nevio pure riproduce l’interrogatorio del dio prigioniero e la descrizione del suo abbigliamento effemminato, che certamente risale a Eschilo; e l’incendio del palazzo, che probabilmente attua. Quindi può ben essere che sia dalla medesima fonte che egli ed Euripide derivino la similitudine delle menadi con gli uccelli e il racconto del loro assalto alle fattorie della valle (frr. 7 e 3, basati su Baccanti 748-750). L’impressione lasciata dai frammenti del Lycurgus nel loro complesso è che Nevio non dipendesse dalle Baccanti, ma si avvalesse di un originale molto simile ad esse sia nella tonalità generale sia nello schema della sua trama. E la cosa probabile è che questo originale fosse gli Ἠδωνοί di Eschilo.

Delle tragedie romane sulla storia di Penteo, il Pentheus di Pacuvio51 era basata su Euripide, se dobbiamo credere a Servio su Eneide, IV, 496; ma certe altre fonti erano apparentemente utilizzate, dato che il prigioniero di Penteo è chiamato Acete, come anche in Ovidio, Metamorfosi, III, 474 sqq. (dove la narrazione si discosta ampiamente da Euripide in altri aspetti). Le Baccanti di Accio52 sembra dai frammenti che siano state un adattamento abbastanza vicino al dramma di Euripide.


iii. Testimonianze dalla pittura vascolare

La morte di Penteo era, come altri soggetti dionisiaci, fu tra i maggiormente prediletti dai pittori vascolari; e dal modo in cui l’hanno trattata sono stati fatti tentativi di trarre deduzioni su come Eschilo vi ha posto mano e sulle innovazioni a lui o a Euripide.

[…] È stato dedotto che nella forma più antica del mito gli uccisori non erano Agave e le sue sorelle ma i seguaci di Dioniso; e che o Eschilo o Euripide furono i primi a fare di Agave l’assassina. Non è impossibile, ma i miti paralleli delle Miniadi e delle Pretidi mi sembrano dire il contrario […] Quanto ai drammi contemporanei di Euripide […] non c’è nessuna indicazione nell’arte greca che Penteo si sia travestito. Ciò può essere dovuto semplicemente alla difficoltà di rappresentare un Penteo travestito facilmente riconoscibile. Ed è in ogni caso avventato concludere, come fanno alcuni, che Euripide ha inventato il travestimento: più di una versione della fine di Penteo può ben essere circolata prima che egli scrivesse […].

Speculazioni di questo tipo sono necessariamente azzardate. Ciò che, comunque, emerge da uno studio della rappresentazione pittorica del quinto secolo dei soggetti dionisiaci è che almeno alcuni dei pittori aveva visto donne in estasi religiosa (probabilmente alle Lenee. E ciò che essi potevano vedere anche Euripide aveva la possibilità di vederlo, senza andare in Macedonia a tal fine.


iv. Elementi formali

Abbiamo così considerato da lontano solo il contenuto delle Baccanti. Quando esaminiamo la forma, siamo subito colpiti dall’aspetto arcaico che questo dramma molto tardo presenta. In ciò non è unico: una certa tendenza arcaizzante fa mostra di sé qua e là in tutta la produzione più tarda di Euripide. Ma le Baccanti portano l’arcaismo più avanti di qualsiasi altro dei suoi drammi; Murray addirittura lo definisce “il più formalista dramma greco da noi conosciuto”53.

In una certa misura ciò è dettato dalla trama. Qui per una volta Euripide aveva un coro la cui presenza non aveva bisogno di difesa e le cui sorti personali erano intimamente legate all’azione: possono così συναγωνίζεσθαι nella maniera approvata da Aristotele (Poetica, 1456a25)54, e per un’estensione che è insolita sia in Euripide sia nei drammi superstiti di Sofocle. Quindi non c’era bisogno di ridurre la sua parte o di sostituire alcuno dei suoi canti con assolo degli attori (μονῳδίαι)55. Per di più, la rappresentazione di un’azione miracolosa, a meno che il produttore non disponga delle risorse di Drury Lane56, impone un uso esteso della narrazione. Il poeta ha inserito un miracolo psicologico al centro dell’azione scenica57; però il miracolo fisico doveva essere riferito. E così le Baccanti ritornano al modello drammatico più arcaico: non solo ci sono due discorsi del messaggero formali, ciascuno lungo più di 100 versi, ma abbiamo in aggiunta la narrazione del soldato (vv. 434-450) e quella dello straniero (vv. 617-637); tutti e quattro descrivono eventi miracolosi che non avrebbero potuto essere mostrati sul palcoscenico.

Ma è significativo che anche nell’espressione e nello stile il dramma ritorni a una maniera più arcaica. Un recente ricercatore continentale trova più forme arcaiche nelle Baccanti che in ogni altro dramma di Euripide, e meno forme colloquiali o prosastiche che qualsiasi cosa egli abbia scritto fino alle Troiane58. C’è, è vero, un’insolitamente alta percentuale di “nuove” parole, cioè parole che non si trovano in altri scrittori precedenti59. Ma poche di queste sembrano essere prese dalla parlata contemporanea: alcune di esse appartengono al linguaggio della religione dionisiaca, come θιασώτης o καταβακχιοῦσθαι: altre sono raffinatezze dell’espressione poetica, come χρυσορόης o σκιαρόκομος. C’è una considerevole componente eschilea nel vocabolario, e alcune eco inconsce di frasi eschilee sono state notate (probabilmente ne troveremmo di più se i drammi dionisiaci di Eschilo si fossero conservati). Il solenne stile semi-liturgico che è predominante nei canti corali spesso richiama Eschilo; c’è un po’ della preziosità e della cura barocca nell’elemento decorativo che caratterizza la maggior parte dei versi più tardi di Euripide. In accordo con questa tonalità è la scelta di ritmi associati agli effettivi inni del culto (commento, p. 183), e specialmente l’uso esteso di ionici (p. 72). Così anche l’esordio dei ritornelli (876 sqq., 991 sqq.), che appartengono alla tradizione degli inni del culto: è degno di nota che Eschilo li usi liberamente, Sofocle per niente, Euripide altrove solo nell’inno di Ione ad Apollo e nel canto di trasporto dell’acqua di Elettra. I trimetri giambici rivelano la data del dramma con l’alta percentuale di piedi soluti (uno ogni 2,3 trimetri, una frequenza superata solo nell’Oreste); ma il dialogo ha, ciò non di meno, una certa arcaica rigidità se confrontato, per esempio, con la contemporanea Ifigenia in Aulide. Un segno di ciò è la rarità nei passi recitati dell’ἀντιλαβή (divisione di un verso tra due che parlano). In altri drammi tardi questo è un mezzo prediletto60 per trasmettere il concitato batti e ribatti di un’accesa discussione, specialmente nelle scene trocaiche; nelle Baccanti i versi giambici sono divisi solo in due punti (vv. 189, 966-70), quelli trocaici mai.

Questa severità di forma sembra essere voluta: va al di là di ciò a cui i condizionamenti del teatro costringevano. E in effetti il tremendo potere del dramma sorge in parte dalla tensione tra il classico formalismo del suo stile e della sua struttura e la strana esperienza religiosa che rappresenta. Come Coleridge disse, l’immaginazione creativa si manifesta nel modo più intenso nell’ “equilibrio o riconciliazione delle opposte o discordanti qualità”, e specialmente nel combinare uno stato emotivo più che inconsueto con un ordine più che consueto”. Nelle Baccanti si è realizzata una combinazione di questo genere.


III. IL POSTO DELLE BACCANTI NELL’OPERA DI EURIPIDE

Dopo la messa in scena dellOreste nella primavera del 408 Euripide lasciò Atene, per non tornare più: egli aveva accettato linvito di Archelao, il re ellenizzante dei semi-barbari Macedoni, che era ansioso di rendere la sua corte un centro di cultura greca. Il poeta aveva più di 70 anni e, come abbiamo ragione di credere, era un uomo deluso. Se gli elenchi dei vincitori costituissero una prova, egli come drammaturgo era stato piuttosto privo di successo; era diventato il bersaglio dei poeti comici; e in un’Atene travagliata da venti anni di crescenti disastri bellici, la sua critica esplicita alla demagogia e al potere politico dovette procurargli molti nemici. Può esserci certamente del vero nella tradizione conservata in un frammento di Filodemo – φασὶν ἀχθόμενον αὐτὸν ἐπὶ τῷ σχεδὸν πάντας ἐπιχαίρειν πρὸς Ἀρχέλαον ἀπελθεῖν61. In Macedonia continuò a scrivere, mettendo in scena lArchelao, un dramma su un antenato eponimo del suo ospite, che potè essere rappresentato nel nuovo teatro costruito da Archelao a Dione. E quando morì, nellinverno del 407-406, tre nuove tragedie furono trovate fra le sue carte: le Baccanti, lAlcmeone a Corinto (ora perduta) e lIfigenia in Aulide questultima forse incompiuta. In seguito questi drammi furono allestiti ad Atene dal figlio (o nipote) del poeta, Euripide il giovane, e vinsero il primo premio. La supposizione così creatasi che le Baccanti furono completate, se non concepite, in Macedonia ricava sostegno dai riferimenti elogiativi alla Pieria (vv. 409-11 n.) e alla valle del Ludia (vv. 568-75 n.) – regioni entrambe che Euripide verosimilmente visitò, perché Dione era situata nella prima e Ege, capitale della Macedonia, nella seconda. Non penso tuttavia che sia probabile che il dramma fosse in origine immaginata per un pubblico macedone: le allusioni a teorie e controversie contemporanee dei vv. 201-203, 270-271, 274 sqq., 890 sqq., e altrove (vedi commento), sono sicuramente indirizzate orecchie ateniesi; e noi abbiamo visto che in questo periodo il problema sociale della religione orgiastica era di forte attualità ad Atene almeno quanto in Macedonia.

Perché Euripide, infaticabile innovatore e sperimentatore come era sempre stato, lascia come ultima eredità ai suoi compatrioti questo prodigio di dramma, attuale ancorché profondamente tradizionale, “vecchio stampo” sia per stile e struttura, sia negli eventi che rappresentava, ancorché carico di una inquietante tensione emotiva? Aveva egli qualche lezione che desiderava impartire loro? La maggior parte dei suoi sedicenti interpreti hanno pensato così, sebbene non sono riusciti ad accordarsi sulla natura di tale lezione. Siccome il dramma mette in mostra la potenza di Dioniso e il terribile fato di coloro che gli si oppongono, la prima spiegazione che si è presentata agli studiosi fu che il poeta avesse avuto (o ritenuto opportuno simulare) una conversione in punto di morte: le Baccanti erano una “palinodia”, una ritrattazione di quellateismo”, di cui Aristofane aveva accusato il suo autore (Tesmoforiazuse, 450 sq.)62; erano state scritte per difendere Euripide dallaccusa di empietà che presto avrebbe sopraffatto il suo amico Socrate (Tyrwhitt, Schoene), o per giustificarlo con il pubblico su questioni nelle quali era stato frainteso(Sandys), o a partire da una genuina convinzioneche la religione non dovesse essere esposta alle sottigliezze del ragionamento” (K. O. Müller), in quanto egli non aveva trovato nessuna soddisfazione nel suo non credere(Paley). Piuttosto stranamente, pare che editori che erano buoni cristiani siano stati gratificati da questa idea della conversione in extremis del loro poeta allortodossia pagana; e questa, o qualcosa di simile, rimase lopinione prevalente fino alla fine del diciannovesimo secolo63. In questo periodo sorse una generazione che, avendo tutta una serie differente di pregiudizi, ammirò Euripide per tuttaltre ragioni e cercò di rendere le Baccanti conformi alle proprie vedute con una radicale reinterpretazione. Sottolineando correttamente che Cadmo e Tiresia sono mediocri rappresentanti dellortodossia e che Dioniso si comporta con spietata crudeltà non solo contro i suoi oppositori, Penteo e Agave, ma anche con il suo sostenitore Cadmo, essi conclusero che la morale vera della tragedia fosse tantum religio potuit suadere malorum64. Tale interpretazione, il cui germe appare già in Patin, fu sviluppata nell’ultima decade del secolo da Wilamowitz e Bruhn in Germania, da Decharme e Weil in Francia; e più tardi (con elaborazioni fantasiose loro proprie) da Norwood e Verrall in Inghilterra. La devota sincerità dei canti corali, per questi critici un affronto e un ostacolo, fu spiegata in vari modi come una concessione al superstizioso pubblico macedone (Weil), o come una riuscita caratterizzazione di fanatismo (Wilamowitz).

I più accorti fra i critici recenti hanno riconosciuto linadeguatezza sia della teoria della “palinodia” sia di quella rivale. Ciascuna tesi si adatta ad alcuni fatti, ma manifestamente non si adatta ad altri: cioè entrambe sono troppo grossolane.

(a) Uno studio più preciso dellopera del poeta nel suo complesso non rivela nessun brusco volta-faccia, come la tesi della “palinodia” postulava. Da una parte il suo interesse e la sua simpatetica comprensione per la religione orgiastica non risalgono al suo periodo macedone: la cosa appare già nel canto degli iniziati nei Cretesi (fr. 472), nellode sui misteri della Madre della Montagna nellElena (1301 sqq.) e nei resti di un’ode nellIpsipile (frr. 57, 58 Arnim = 31, 32 Hunt). L’Elena fu rappresentata nel 412, lIpsipile qualche anno dopo; i Cretesi invece sembrano essere opera anteriore. I cori delle Baccanti sono quindi l’ultima e più compiuta espressione di sentimenti che avevano ossessionato65 Euripide per almeno sei anni prima della sua morte, e forse per molto di più. Così anche gli attacchi alla “ingegnosità”66 e lelogio alla saggezza istintiva della gente semplice, che ha sorpreso i critici delle Baccanti, non sono in realtà niente di nuovo. Dall’altra parte, la discrepanza fra le norme morali implicite nei miti e quelle dellumanità civilizzata, su cui molti dei personaggi di Euripide richiamano lattenzione, non è ignorata nelle Baccanti. La vendetta di Dioniso è tanto crudele e indiscriminata quanto quella di Afrodite nellIppolito. In entrambe le tragedie un umile adoratore della divinità protesta contro questa immoralità, e protesta invano (Baccanti, 1348-1349). E poi entrambi i drammi finiscono con le simpatie del pubblico concentrate solamente sulle vittime del dio. Non è così che Euripide, o chiunque altro, avrebbe composto una palinodia67.

(b) Non dobbiamo però saltare alla conclusione che Euripide guardò a Afrodite e Dioniso come demóni o come finzioni. A una tale interpretazione delle Baccanti un fatale ostacolo è la caratterizzazione di Penteo. Se il culto dionisiaco è una superstizione immorale e niente più, segue che Penteo è uno dei martiri dellilluminismo. Ma è molto più facile denigrare Dioniso che riabilitare Penteo. Alcuni critici razionalisti hanno tentato questa seconda impresa, ma ci vuole proprio una visione ottusa per scoprire in lui il difensore della fede coniugale”, un personaggio uniformemente simpatico. Euripide avrebbe plausibilmente potuto rappresentarlo così; egli avrebbe potuto sicuramente fare di lui un secondo Ippolito, fanatico, ma di un fanatismo toccante ed eroico. Egli non ha scelto di farlo così. E infatti gli ha conferito i tratti di un tipico tiranno da tragedia: mancanza di autocontrollo (vv. 214, 343 sqq., 620 sq., 670 sq.); inclinazione a credere il peggio sulla base del sentito dire (221 sqq.) o senza prove (255 sqq.); brutalità nei confronti degli inermi (231, 241, 511 sqq., 796 sq.); e una stolta fiducia nella forza fisica come mezzo per risolvere problemi spirituali (781-786 n.). In aggiunta il poeta gli ha dato il dissennato orgoglio razziale di una Ermione (483-484 n.) e la curiosità sessuale di un voyeur (222-223 n., 957-960 n.)68. Non è così che si rappresentano i martiri dellilluminismo69. Né tali martiri in punto di morte ritrattano la loro fede come fa Penteo (1120 sq.).

Che dire del divino Straniero? Egli sfoggia ovunque qualità antitetiche a quelle del suo antagonista umano: in ciò risiede la particolare efficacia delle scene di conflitto. Penteo è agitato, irascibile, pieno di una morbosa eccitazione; lo Straniero mantiene dallinizio alla fine una calma imperturbabile e sorridente (ἡσυχία, vv. 621-622) – una calma che noi troviamo dapprima toccante, poi vagamente inquietante, alla fine indescrivibilmente sinistra (vv. 439, 1020-1023). Penteo fa affidamento su uno spiegamento di forze militari; lunica arma dello Straniero è il potere invisibile che alberga dentro di lui. Alla σοφία del re, alla ingegnosità’ o ‘realismo, che vorrebbe misurare ogni cosa col metro volgare di unesperienza ordinaria, egli oppone un altro genere di σοφία, la saggezza che, essendo essa stessa una parte dellordine delle cose, conosce quellordine e il posto dell’uomo in esso. In tutti questi modi lo Straniero è caratterizzato come un personaggio soprannaturale, in contrasto col suo avversario fin troppo umano: ἡσυχία, σεμνότης70 e saggezza sono le qualità che sopra a tutte le altre gli artisti greci dell’età classica cercavano di incarnare nelle figure divine della loro immaginazione. Lo Straniero si comporta οἷα δὴ θεός, come un dio greco si comporterebbe: egli è il corrispondente di quellessere sereno e pieno di dignità che noi vediamo su certi vasi a figure rosse, o in opere di scultura dispirazione attica71.

Ma lo Straniero non è semplicemente un essere idealizzato, estraneo al mondo delluomo; egli è Dioniso, l’incarnazione di quelle tragiche contraddizioni gioia e orrore, discernimento e follia, gaiezza innocente e tenebrosa crudeltà – che, come abbiamo visto, sono implicite in ogni religione di tipo dionisiaco. Dalla prospettiva della moralità umana perciò egli è e deve essere una figura ambigua. Guardandolo da questa prospettiva, Cadmo alla fine della tragedia condanna esplicitamente la sua mancanza di cuore. Ma la sua condanna è tanto futile quanto lo è la simile condanna di Afrodite nellIppolito. Infatti, come Afrodite, Dioniso è una “persona”, o un agente morale, solo per necessità scenica. Ciò che Afrodite è realmente il poeta ce lha detto chiaramente: φοιτᾷ δ' ἀν' αἰθέρ', ἔστι δ' ἐν θαλασσίῳ / κλύδωνι Κύπρις, πάντα δ' ἐκ ταύτης ἔφυ· / ἥδ ἐστὶν ἡ σπείρουσα καὶ διδοῦσ' ἔρον, / οὗ πάντες ἐσμὲν οἱ κατὰ χθόν' ἔκγονοι (Euripide, Ippolito, 447 sqq.)72. Chiedersi se Euripide “credesse” in questa Afrodite non ha senso, tanto quanto chiedersi se egli credessenel sesso. Le cose non stanno diversamente con Dioniso. Come la “morale” dellIppolito è che il sesso è cosa sulla quale non puoi permetterti di fare errori, così la morale” delle Baccanti è che noi ignoriamo a nostro rischio lesigenza per lo spirito umano di unesperienza dionisiaca. Per chi non chiude la propria mente di fronte ad essa, unesperienza di tal genere può essere una sorgente profonda di potenziamento spirituale e di εὐδαιμονία73. Chi, invece, reprime l’esigenza dentro di sé o ne impedisce il soddisfacimento ad altri, la trasforma74 col proprio atto in una potenza disintegrante e distruttiva, una cieca forza naturale che spazza via linnocente con il colpevole. Una volta che ciò è accaduto, è troppo tardi per ragionamenti o proteste: nella giustizia delluomo c’è posto per la pietà, ma non ce n’è alcuno nella giustizia della Natura; al nostro “Dovresti”, come sua risposta è sufficiente il semplice “Devi”; noi non abbiamo nessuna scelta, se non accettare quella risposta e resistere come possiamo75.

Se questo, o qualcosa di simile, è il pensiero che sta alla base della tragedia, segue che il goffo interrogativo posto dai critici del diciannovesimo secolo Euripide era per Dioniso o contro di lui? non ammette nessuna risposta in questi termini. Di per sé, Dioniso è al di là del bene e del male; per noi, come dice Tiresia (vv. 314-318)76, egli è ciò che noi facciamo di lui. Linterrogativo del diciannovesimo secolo poggiava di fatto sulla supposizione, comune alla scuola razionalista e ai suoi oppositori, e ancora troppo spesso posta, che Euripide fosse, come alcuni dei suoi critici, più interessato alla propaganda che ai compiti propri del drammaturgo. Questa supposizione la ritengo falsa. Ciò che è vero è che in molti dei suoi drammi egli cercò di infondere nuova vita nei miti tradizionali, riempiendoli di un contenuto nuovo e contemporaneo riconoscendo negli eroi di antiche storie i corrispondenti di tipi del quinto secolo e riformulando situazioni del mito nei termini dei conflitti del quinto secolo. Come abbiamo visto, qualcosa del genere può essere stato il proposito nelle Baccanti. Ma nelle sue migliori tragedie Euripide usò questi conflitti non per fare propaganda, bensì come un drammaturgo dovrebbe fare77, per ricavare la tragedia dalla loro tensione. Non ci fu mai uno scrittore che più palesemente mancò della fede di un propagandista per soluzioni facili e totali. Il suo metodo prediletto è assumere un punto di vista unilaterale, una nobile mezza verità, per mostrare la sua nobiltà, e poi mostrare il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci perché essa è dopo tutto solo una parte della verità78. E’ così che egli ci mostra nellIppolito la bellezza e la limitata insufficienza dellideale ascetico, nellEracle lo splendore della forza fisica e del coraggio e il suo precipitare in megalomania e rovina; è così che nei suoi drammi di vendetta Medea, Ecuba, Elettrala simpatia dello spettatore prima è rivolta al vendicatore e poi indotta ad estendersi alle sue vittime. Le Baccanti sono costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito il gioioso scoppio di vitalità che l’esperienza dionisiaca comporta, né attenuato lorrore ferino del menadismo “nero”; deliberatamente egli guida il suo pubblico attraverso lintera gamma delle emozioni, dalla simpatia per il dio perseguitato, attraverso leccitazione dei prodigi del palazzo e la macabra tragicommedia della scena del la toilette, a condividere, alla fine, la reazione di Cadmo contro quella giustizia inumana. Eun errore chiedersi che cosa egli stia tentando di “dimostrare”: il suo proposito in questo, come in tutti i suoi più grandi drammi, non è di dimostrare qualcosa, ma di ampliare la nostra sensibilità – che è, come il Dr. Johnson diceva, il proposito proprio di un poeta.

Ciò che rende le Baccanti diverse dal resto delle opere di Euripide non è qualche innovazione nella tecnica o nellatteggiamento intellettuale dellautore. È piuttosto quello che sentì James Adam quando affermò che il dramma esprimeva una dimensione emotiva aggiuntae che era pervasa da quel genere di gioiosa esaltazione che accompagna una nuova scoperta o illuminazione79. E’ come se il rinnovato contatto con la natura nella selvaggia regione della Macedonia e il suo immaginare qui in nuove forme l’antica storia di prodigi, avessero fatto scattare qualche molla nella mente del vecchio poeta, ristabilendo un contatto con sorgenti nascoste di potere che egli aveva smarrito nellambiente consapevole di sé, ultra-intellettualizzato dellAtene del tardo quinto secolo, e mettendolo in grado di trovare uno sfogo per sentimenti che per anni erano stati repressi nella sua coscienza senza conseguire completa espressione. Noi possiamo supporre che Euripide disse a se stesso in Macedonia proprio quanto Rilke disse a se stesso all’inizio del suo ultimo periodo:


Opera della vista è compiuta,

compi ora lopera del cuore

sulle immagini prigioniere in te, perché tu

le hai sopraffatte ma non le conosci ancora.”80


La dimensione emotiva aggiuntaprocede non da una conversione intellettuale, ma dallopera del cuore: da una visione rivolta al nostro interno di immagini a lungo rimaste imprigionate nella mente.

1 Le caratteristiche del culto dionisiaco sono così differenti da quelle della maggior parte degli altri culti greci che possiamo a buon diritto parlarne in questi termini. Però nella sua forma greca non fu mai una ‘religione’ separata nel senso che escludeva altri culti.

2 Il primo scrittore moderno che ha compreso la psicologia dionisiaca è stato Erwin Rhode; il suo Psyche è ancora il libro fondamentale.

3 De Idide et Osiride, 35, 365a, che cita Pindaro, fr. 140 Bowra

4 Orazio è un’eccezione: Carmina, II, 19 e III, 25 mostrano una più profonda comprensione della vera natura del dio.

5 The Varieties of Religious Experience, 387.

6 [N.d.T.] «con il dio dentro».

7 [N.d.T.] «andare per i monti».

8 [N.d.T.] «parodo», l’ingresso del coro dopo quello degli attori (il prologo).

9 Vedi il mio articolo ‘Il Menadismo nelle Baccanti’, Harvard Theological Rev. xxxiii (1940), 155 sqq. (ristampato in parte, con qualche aggiunta e correzione, come appendice a I Greci e l’irrazionale).

10 Pausania, 10, 32, 5; Plutarco, De primo frigido, 18, 953d.

11 Mulierum virtutes, 13.

12 Aldous Huxley, Ends and Means, 232, 235.

13 Rhode, Psyche, cap. 9, n. 21. [N.d.T.] Credo corrisponda nell’edizione Laterza (BUL del 2018) alla n. 99 pag. 314, ‘Religione dionisiaca in Grecia’.

14 [N.d.T.] «un dio / il più terribile per gli uomini e il più mite».

15 [N.d.T.] «dilaniamento, sbranamento, il fare a pezzi».

16 [N.d.T.] «il mangiare la carne cruda».

17 [N.d.T.] Baccanti, v. 139: «gioia crudivora».

18 Plutarco, De defectu oraculorum, 14, 417c: ἡμέρας ἀποφράδας καὶ σκυθρωπάς, ἐν αἷς ὠμοφαγίαι καὶ διασπασμοὶ, «nei giorni nefasti e luttuosi, nei quali (si verificano) smembramenti e divoramenti di carne cruda».

19 Rane, v. 357: Κρατίνου τοῦ ταυροφάγου […] Βακχεῖα.

20 [N.d.T.] φάνηθι ταῦρος ἢ πολύκρανος ἰδεῖν / δράκων ἢ πυριφλέγων ὁρᾶσθαι λέων, « Mostrati come toro o drago dalle molte teste / a vedersi o leone fiammeggiante alla vista».

21 Plutarco, Quaestiones Graecae, 36, 299b: βοέῳ ποδὶ θύων […] ἄξιε ταῦρε, «con piede bovino infuriando […] o sacro toro».

22 [N.d.T.] ἀλλ' ἦ ποτ' ἦσθα θήρ; τεταύρωσαι γὰρ οὖν, «Ma eri forse una belva? perché in effetti ti sei trasformato in toro».

23 Non c’erano leoni in Grecia in epoca storica; ma il leone sopravvisse nei più antichi templi del dio, in Asia Minore, Tracia, e Macedonia (Hdt., VII, 25, Xen, Cyr., 11, Pausania, 6, 5, 4).

24 [N.d.T.] «il baccanale dei sacrifici umani».

25 Plutarco, Temistocle, 13, basandosi sull’autorità del pupillo di Aristotele Fania. Anche se la storia è falsa, essa mostra cosa i Greci del quarto secolo pensassero di Dioniso Omaste.

26 Livio, XXXIV, 13 (si tratta del senatusconsultum de bacchanalibus), cfr. Plauto, Bacchides, 371 sq.

27 Sofocle, fr. 668.[N.d.T.] Διονύσου τοῦ ταυροφάγου, «di Dioniso mangiatore di tori».

28 [N.d.T.] ὡς οὐ κάμοιμ' ἂν οὔτε νύκτ' οὔθ' ἡμέραν / θύρσῳ κροτῶν γῆν· ἐπιλελήσμεθ' ἡδέως / γέροντες ὄντες, « Giacché io non mi stancherei né di notte né di giorno / di battere la terra col tirso: ci siamo dimenticati / con piacere di essere vecchi» (Cadmo); ὁ θεὸς ἀμοχθεὶ κεῖσε νῷν ἡγήσεται, « Il dio guiderà noi due là senza sforzo» (Tiresia); ἆρ' ἂν δυναίμην τὰς Κιθαιρῶνος πτυχὰς / αὐταῖσι βάκχαις τοῖς ἐμοῖς ὤμοις φέρειν;, «Potrei portare sulle le mie spalle le balze / del Citerone con le baccanti stesse» (Penteo).

29 [N.d.T.] «rende l’anima partecipe del tiaso».

30 [N.d.T.] πᾶν δὲ συνεβάκχευ' ὄρος / καὶ θῆρες, οὐδὲν δ' ἦν ἀκίνητον δρόμῳ, «il monte baccheggiava tutto / e anche le fiere, e non c’era nulla che non fosse mosso dalla corsa» (è il discorso del messaggero giunto dalla montagna).

31 [N.d.T.] «recentemente introdotti».

32 [N.d.T.] «inganno di Zeus»; è un episodio, così chiamato già dagli antichi editori, in cui Era seduce Zeus per distrarlo dalla guerra.

33 È stato sostenuto che i riti “orgiastici” non presero mai piede in Attica: ma il nome Lenée ([N.d.T.] era il nome della festa invernale in cui si svolgevano gli agoni drammatici; quella più importante erano le Dionisie, in primavera) – apparentemente derivante da λῆναι, le donne selvagge – suggerisce il contrario.

34 Tucidide, II, 31. [N.d.T.] «sollievi dalle fatiche». Riporto il passo per intero con alcune considerazioni: Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῇ γνώμῃ ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις [2] τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει, «Inoltre ci siamo procurati per lo spirito moltissimi sollievi dalle fatiche, facendo uso di gare e feste sacre, e di eleganti edifici privati, il cui godimento quotidiano scaccia la pena».

Sullo spirito agonistico dei Greci riflette così Nietzsche (Umano, troppo umano, II, Parte seconda, Il viandante e la sua ombra): «226. Saggezza dei Greci. Poiché il voler vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni stima e gioia di uguaglianza, lo Stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioè delimitato un'arena dove quell'impulso doveva scaricarsi senza mettere in pericolo l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo Stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna.
A questo passo in particolare si riferisce, sempre Nietzsche, in La nascita della tragedia (Tentativo di autocritica, 4): «Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il suo grado di sensibilità,… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che proprio questo fosse vero e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre – da che cosa discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà di pessimismo nel Greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il terribile, il malvagio, l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all’esistenza, – da che cosa discenderebbe allora la tragedia?».
Sulla festa come tratto distintivo del mondo pagano: Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, trad. it. Mondadori, Milano, 1975, pag. 347: «Bisogna essere molto grossolani per non sentire la presenza di cristiani e di valori cristiani come un’oppressione, sotto la quale ogni vera atmosfera di festa se ne va al diavolo. Nella festa è compreso: orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione animale – tutti stati d’animo a cui il cristiano non può onestamente dire di sì. La festa è paganesimo per eccellenza».
Ancora Nietzsche in Umano, troppo umano, II, Opinioni e sentenze diverse: «187. Il mondo antico e la gioia. Gli uomini del mondo antico sapevano gioire meglio; noi sappiamo rattristarci meno; quelli riuscivano a trovare sempre nuovi motivi di sentirsi bene e di celebrare feste, impegnando tutta la loro ricchezza di acume e di riflessione, mentre noi rivolgiamo il nostro spirito alladempimento di compiti che mirano piuttosto alla liberazione dal dolore, alleliminazione delle cause di dispiacere. Quanto alle sofferenze dellesistenza, gli antichi cercavano di dimenticare, o di piegare in qualche modo il sentimento verso il piacevole; sicché a ciò essi cercavano di ovviare con palliativi, mentre noi affrontiamo le cause del soffrire e nel complesso preferiamo agire in senso profilattico. Forse noi stiamo costruendo solo le fondamenta, su cui uomini futuri costruiranno di nuovo anche il tempio della gioia».

35 Plutarco, Alessandro, 2.

36 Menadism in the Bacchae, pp. 171 sqq.

37 «dèi stranieri».

38 Sulla corona, 259 sqq., 284.

39 Cicerone, De legibus, II, 37.

40 ὀργιάζων πλὴν τὰ δημόσια, Leggi, X, 910bc.

41 [N.d.T.] «sofferenze».

42 [N.d.T.] Così la pensava anche Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 10: «È tradizione incontestabile che la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso, e che per molto tempo l’unico eroe presente in scena fu appunto Dioniso. Con la stessa sicurezza peraltro si può affermare che fino a Euripide Dioniso non cessò mai di essere leroe tragico, e che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo, Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quelleroe originario. Che dietro a tutte queste maschere si nasconda una divinità, è l'unica ragione essenziale della tipica «idealità», così spesso ammirata, di quelle celebri figure. Non so chi ha sostenuto che tutti gli individui in quanto individui sono comici e pertanto non tragici: da ciò si potrebbe dedurre che i Greci in genere non potevano tollerare individui sulla scena tragica. Effettivamente sembra che essi abbiano sentito a questo modo, e in genere la distinzione e valutazione platonica dell'«idea» in antitesi all'«idolo», alla copia, è profondamente radicata nella natura greca. Ma per servirci della terminologia di Platone, sulle figure tragiche della scena ellenica si potrebbe all'incirca parlare così: lunico Dioniso veramente reale appare in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe in lotta, ed è per così dire preso nella rete della volontà individuale. Quanto alle parole e alle azioni del dio che appare, egli rassomiglia a un individuo che sbaglia, che lotta e che soffre; e che egli appaia in genere con questa epica determinatezza e chiarezza, è effetto dell’interprete di sogni Apollo, che con quella simbolica apparenza chiarisce al coro il suo stato dionisiaco. Ma in verità quelleroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che sperimenta in sé i dolori dellindividuazione, e di cui mirabili miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi in questo stato venisse venerato come Zagreus. Con ciò si significa che questo sbranamento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, è come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che quindi dobbiamo considerare lo stato di individuazione come la fonte e la causa prima di ogni sofferenza, come qualcosa in sé detestabile. Dal sorriso di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini»

43 [N.d.T.] Del VI secolo a.C.; era considerato il padre della tragedia.

44 [N.d.T.] Era figlio di Frinico; non sappiamo quasi nulla e non ci sono giunti frammenti.

45 [N.d.T.] «Semele fulminata».

46 O Πενθεύς (come le Βάκχαι di Euripide e Iofonte portavano il titolo alternativo Πενθεύς)

47 [N.d.T.] «è invaso dal dio il palazzo, la casa è in preda a Bacco».

48 [N.d.T.] «donne dalla veste discinta».

49 [N.d.T.] «le baccanti divennero prigioniere … di nuovo le baccanti furono subito liberate».

50 [N.d.T.] 275-201 a.C. circa.

51 [N.d.T.] 220-135 a.C. circa.

52 [N.d.T.] 170-84 a.C. circa.

53 Euripides and His Age, p. 184. [N.d.T.] p. 122 nella traduzione di Nina Ruffini, Bari, Laterza, 1932.

54 [N.d.T.] καὶ τὸν χορὸν δὲ ἕνα δεῖ ὑπολαμβάνειν τῶν ὑποκριτῶν, καὶ μόριον εἶναι τοῦ ὅλου καὶ συναγωνίζεσθαι μὴ ὥσπερ Εὐριπίδῃ ἀλλ' ὥσπερ Σοφοκλεῖ, «E bisogna considerare il coro come uno degli attori, e che sia una parte dell’insieme e che partecipi all’azione, non come per Euripide ma come per Sofocle».

55 Sembra verosimile che i lunghi assolo, esagerati in drammi come l’Oreste e non più una novità, avessero cominciato ad annoiare il pubblico (cfr. Aristofane, Rane, 849, 1329 sqq.). Sicché il contemporaneo Edipo a Colono mostra un simile ritorno alla pratica più antica rispetto al Filottete ([N.d.T.] del 409 a.C.).

56 [N.d.T.] Strada di Londra che dà il nome al famoso Theatre Royale Drury Lane fin dal XVII secolo; evidentemente disponeva di risorse regali.

57 Vedi nota all’episodio 3 (c), p. 172.

58 J. Smereka, Studia Euripidea (Lwow, 1936), p. 117. [N.d.T.] Rappresentate nel 415 a.C.: cioè si tratta di una tragedia tarda.

59 Ibidem 241.

60 52 versi recitati sono così divisi nell’Oreste, 36 nell’Ifigenia in Aulide, 53 nell’Edipo a Colono.

61 De vitiis, col. 13, 4. Non è certo che queste parole si riferiscano ad Euripide, ma è altamente probabile. [N.d.T.] «Dicono che, amareggiato perché quasi tutti si rallegravano [dei suoi insuccessi], se ne andò da Archelao».

62 [N.d.T.] νῦν δ' οὗτος ἐν ταῖσιν τραγῳδίαις ποιῶν / τοὺς ἄνδρας ἀναπέπεικεν οὐκ εἶναι θεούς, «ora questo scrivendo versi nelle tragedie / ha persuaso gli uomini che non esistono dèi».

63 [N.d.T.] Tale è l’opinione di Nietzsche nella Nascita della tragedia, cap. 12: «Eliminare dalla tragedia quell’elemento dionisiaco originario e onnipotente, ed edificarla in modo puro e a nuovo su un’arte, un costume e una concezione del mondo non dionisiaci – è questa la tendenza di Euripide, che ci si svela ora in chiara luce.
Nella sera della sua vita Euripide stesso presentò ai suoi contemporanei nel modo più incisivo, con un mito, la questione del valore e del significato di questa tendenza. Deve in genere sussistere il dionisiaco? Non è da estirpare a forza dalla terra ellenica? Certo, ci dice il poeta, purché fosse possibile; ma il dio Dioniso è troppo potente: l'avversario più avveduto – come Penteo nelle Baccanti – viene insospettatamente incantato da lui e con questo incantesimo corre poi incontro al suo destino. Il giudizio dei due vecchi Cadmo e Tiresia sembra essere anche il giudizio del vecchio poeta: la riflessione degli individui più accorti non riesce a rovesciare quelle antiche tradizioni popolari, quella venerazione di Dioniso che eternamente si propaga, anzi di fronte a tali forze miracolose conviene mostrare almeno una partecipazione diplomaticamente prudente: con ciò comunque è ancora possibile che il dio si scandalizzi di un interessamento così tiepido e trasformi infine il diplomatico – come qui Cadmo – in un drago. Questo ci dice un poeta che con forza eroica si è opposto per tutta una lunga vita a Dioniso – al fine di chiudere la sua carriera, quando la vita è al termine, con una glorificazione del suo avversario e il proprio suicidio, simile a uno che sia preso dalle vertigini e che, solo per sfuggire all’orribile e non più tollerabile turbamento, si precipiti da una torre. Quella tragedia è una sconfessione della possibilità di realizzare la sua tendenza, ma ahimè! essa era già stata realizzata! Il miracolo era accaduto: quando il poeta ritrattò, la sua tendenza aveva già vinto, Dioniso era già stato cacciato dalla scena tragica, cacciato da una potenza demonica che parlava per bocca di Euripide. Anche Euripide era in certo senso solo maschera: la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate. È questo il nuovo contrasto: il dionisiaco e il socratico, e l'opera d'arte della tragedia greca perì a causa di esso. Per quanto Euripide cerchi poi di consolarci con la sua ritrattazione, non ci riesce: il più magnifico dei templi giace in rovina; a che ci giova il lamento del distruttore e la sua confessione che quello era stato il più bello di tutti i templi? E anche se Euripide è stato per punizione trasformato in drago dai giudici d’arte di tutti i tempi – chi potrebbe essere soddisfatto di questo miserabile compenso?».

64 [N.d.T.] Lucrezio, De rerum natura, I, 101, «A così grandi mali poté indurre la religione!».

65 Significativa in relazione a questo è la sua speciale predilezione per l’uso metaforico di βάκχη, βακχεύειν e termini connessi. Io ho contato oltre 20 esempi, contro 2 in Eschilo e 1 in Sofocle.

66 [N.d.T.] In inglese Dodds dice cleverness, mentre «saggezza» è wisdom. Sono le parole con cui traduce il v. 395 τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία, «cleverness is not wisdom»; io traduco «il sapere non è sapienza».

67 Uno può aggiungere che la supposta “conversione” all’ “ortodossia” avrebbe dovuto essere seguita da un’immediata sconfessione. Sicché una delle implicazioni dell’Ifigenia in Aulide – presumibilmente l’ultima opera del poeta, dato che sembra averla lasciata incompiuta – è certamente tantum religio… (cfr. il giudizio del corifeo, v. 1403 τὸ τῆς θεοῦ νοσεῖ, «la volontà della dea è malata»).

68 La libidinosa spectandorum secretorum cupido di Penteo era stata già notata da Hartung. È questa curiosità che lo consegna nelle mani dei suoi nemici (vedi commento alla scena della tentazione). Come Zielinski ha ben detto (N. Jhb., 1902, 646), forze primordiali insorgono contro di lui non solo a Tebe ma nel suo stesso petto.

69 Dobbiamo, naturalmente, evitare l’errore opposto di vedere in Penteo un cattivo del palcoscenico: se egli fosse questo, il poeta non potrebbe sollecitare la nostra pietà per lui come palesemente fa nell’ultimo episodio ([N.d.T.] vv. 1118-1121 Ἐγώ τοι, μῆτερ, εἰμί, παῖς σέθεν / Πενθεύς, ὃν ἔτεκες ἐν δόμοις Ἐχίονος· / οἴκτιρε δ' ὦ μῆτέρ με μηδὲ ταῖς ἐμαῖς / ἁμαρτίαισι παῖδα σὸν κατακτάνῃς, «Guarda, sono io, mamma, il figlio tuo / Penteo, che partorivi nella casa di Echione; / abbi pietà, madre, di me e per i miei / peccati non uccidere il figlio tuo»). Come mostrano i versi 45-46, egli è un uomo di religiosità convenzionale e conservatrice, non un contemptor deum come il Mezenzio di Virgilio ([N.d.T.] Eneide, VII, 648 contemptor divum Mezentius, re etrusco alleato di Turno), e crede di stare agendo nell’interesse dello stato. Ma né nella tragedia greca né nella vita reale le buone intenzioni salvano l’uomo dalle conseguenze di errore di giudizio.

70 [N.d.T.] ἡσυχία «tranquillità, calma» e σεμνότης «dignità», in latino gravitas.

71 [N.d.T.] Era quello che diceva Winckelmann, Pensieri sull’imitazione dell’arte greca: «Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell'espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata».

72 [N.d.T.] «si aggira nell’aria, è nel flutto / marino Cipride, tutte le creature nascono da questa; / è lei che semina e dà amore, / al quale tutti apparteniamo noi prole sulla terra».

73 [N.d.T.] «felicità».

74 [N.d.T.] È quanto dice Nietzsche, che infatti vede in Euripide (almeno nella Nascita della tragedia, in combutta con Socrate) il principio della decadenza: «Dover combattere contro gli istinti questa è la formula della décadance; fintantoché la vita è ascendente, felicità e istinto sono eguali» (Crepuscolo degli idoli. Il problema di Socrate, 11).

75 [N.d.T.] «La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata su caste. La tirannide della natura parte quindi da una base molto ampia, per terminare in un vertice assai aguzzo, e anche se alla plebe e alla canaglia, che non può tollerare nulla al di sopra di sé, riuscisse ad abbattere tutte le altre aristocrazie, essa non potrà far nulla contro di questa, senza neppur meritare un ringraziamento, poiché tale aristocrazia è davvero concessa dalla “grazia di Dio”» (Schopenhauer, Parerga e paralipomena I. Sulla filosofia delle università).

76 [N.d.T.] οὐχ ὁ Διόνυσος σωφρονεῖν ἀναγκάσει / γυναῖκας ἐς τὴν Κύπριν, ἀλλ' ἐν τῇ φύσει / [τὸ σωφρονεῖν ἔνεστιν εἰς τὰ πάντ' ἀεί] / τοῦτο σκοπεῖν χρή· καὶ γὰρ ἐν βακχεύμασιν / οὖσ ἥ γε σώφρων οὐ διαφθαρήσεται, «Non sarà Dioniso a costringere le donne / a essere caste nei confronti di Cipride, ma nell’indole / [risiede l’essere casti sempre in tutte le circostanze] / questo bisogna considerare; infatti anche se è / nei baccanali quella casta non si corromperà».

77 Cfr Virginia Woolf sull’Antigone: ([N.d.T.] Dodds, ovviamente, cita l’inglese, che riporto; quella che segue è la mia traduzione, priva di pretese) When the curtain falls we sympathise even with Creon himself. This result, to the propagandist undesirable ... suggests that if we use art to propagate political opinions, we must force the artist to clip and cabin his gift to do us a cheap and passing service. Literature will suffer the same mutilation that the mule has suffered; and there will be no more horses, «Quando cala il sipario noi simpatizziamo persino con Creonte stesso. Questo effetto, non desiderabile per il propagandista … suggerisce che se usiamo l’arte per propagandare opinioni politiche, dobbiamo forzare l’artista a tarpare e confinare i propri doni per farci un servizio scadente ed effimero. La letteratura subirà la medesima mutilazione che ha subito il mulo; e non ci saranno più cavalli» (Three Guineas, 302).

78 Cfr. Murray, Euripides and his age, 187.

79 The Religious Teachers of Greece, 316 sq. Cfr André Rivier, Essais sur le tragique d’Euripide, 96: “La rivelazione di un al di là liberato dalle nostre categorie morali e dalla nostra ragione, tale è il fatto religioso fondamentale su cui poggia la tragedia delle Baccanti” ([N.d.T.] Dodds ha il francese, la traduzione è mia). La profondità e sincerità del sentimento religioso espresso nei canti corali sono state recentemente enfatizzate da Festugière, Eranos, lv (1957), 127 sqq. Questo mi sembra giusto, fintantoché stiamo parlando di sentimenti e non di convinzioni. Ma resta perfettamente possibile che, come la mette Jaeger, “Euripide abbia imparato ad apprezzare la gioia di un’umile fede in una verità religiosa che oltrepassa tutti i limiti della comprensione, semplicemente perché egli non possedeva dentro se stesso nessuna fede felice” (Paideia, i. 352, trad. ingl.). [N.d.T.] Il testo italiano (Paideia, La Nuova Italia, 1953, I, cap. IV, Euripide e l’età sua, pagg. 600-601) è quello sottolineato: «Nelle Baccanti, opera postuma creata nella vecchiezza, si è voluto scoprire come un trovar-se-stesso dell’autore, un voluto rifugiarsi dal razionalismo dell’intelletto autonomo nella esperienza religiosa, nell’ebbrezza mistica. Anche qui si è troppo voluto trovar l’eco di una professione di fede personale. Per Euripide la rappresentazione lirico-drammatica dell’esperienza dionisiaca dell’estasi era già per se stessa un soggetto infinitamente grato, e dall’idea del conflitto tra questa suggestione religiosa collettiva, suscitante in coloro che afferrava forze ed istinti primordiali, e l’ordinamento razionale dello Stato e della società civile sorgeva per lo psicologo Euripide un problema tragico di efficacia e validità imperitura. Ma nemmeno nella vecchiezza egli toccò il porto” sicuro. La sua vita si chiude nell’alacre studio di questioni religiose. Nessuno ha colto l’irrazionalità dell'anima umana, anche sotto questo rispetto, più profondamente del poeta della critica razionale. Ma il mondo nel quale egli è immerso resta perciò privo di fede. Non è forse comprensibile come egli, movendo dalla sua comprensione universale e dalla sua scettica conoscenza di se stesso e del tempo suo, imparasse ad apprezzare, in tarda età, la felicità dell’umile fede in una verità religiosa oltrepassante i limiti della ragione, appunto non possedendola? Ancora non era venuto il tempo in cui tale atteggiamento del sapere di fronte alla fede potesse diventare fondamentale. Ma nelle Baccanti ne sono già profeticamente anticipati tutti i caratteri: il trionfo del meraviglioso e della conversione sull’intelletto; l’alleanza dell’individualismo con la religione contro lo Stato, che per la grecità classica aveva coinciso, con la sfera religiosa; il deificarsi immediato, vissuto, liberatore, dell’anima individuale, sciolta dai limiti d’ogni etica meramente legata alla legge».

80 [N.d.T.] R. M. RILKE, Svolta (Wendung), Poesie sparse in Poesie II (1908-1926), a cura di G. Baione, commento di A. Lavagetto, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, pp. 231-233.

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