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(in aggiornamento)
Capitolo 12
Il secondo spettatore
Prima di dare un nome a questo secondo spettatore ricapitoliamo. La tragedia dunque è fatta di coro ed eroe tragico, che sono l’espressione dei due impulsi artistici intrecciati tra loro, l’apollineo e il dionisiaco.
Eliminare dalla tragedia quell’elemento dionisiaco originario e onnipotente, ed edificarla in modo puro e a nuovo su un’arte, un costume e una concezione del mondo non dionisiaci – è questa la tendenza di Euripide.
Nella sera della sua vita, Euripide stesso presentò […] con un mito la questione del valore e del significato di questa tendenza. Deve in genere sussistere il dionisiaco? Non è da estirpare a forza dalla terra ellenica? Certo, ci dice il poeta, purché fosse possibile; ma il dio Dioniso è troppo potente: l’avversario più avveduto – come Penteo nelle Baccanti – viene insospettatamente incantato.
Cadmo e Tiresia sembrano esprimere il pensiero del vecchio poeta:
la riflessione degli individui più accorti non riesce a rovesciare quelle antiche tradizioni popolari, quella venerazione di Dioniso che eternamente si propaga, anzi di fronte a tali forze miracolose conviene mostrare almeno una partecipazione diplomaticamente prudente.
Qui Nietzsche parafrasa i vv. 200-203 delle Baccanti:
Τε. οὐδὲν σοφιζόμεσθα τοῖσι δαίμοσιν.
πατρίους παραδοχάς, ἅς θ' ὁμήλικας χρόνῳ
κεκτήμεθ', οὐδεὶς αὐτὰ καταβαλεῖ λόγος,
οὐδ' εἰ δι' ἄκρων τὸ σοφὸν ηὕρηται φρενῶν.
«Ti. Noi non abbiamo nessuna capacità intellettuale in confronto agli dèi. / Le tradizioni patrie, quelle che possediamo della stessa età del tempo, / nessun ragionamento le abbatterà, / neanche se il sapere viene trovato attraverso menti acute.]».
200 – Lo stesso pensiero si trova in Eraclito, B79 D-K: ἀνὴρ νήπιος ἤκουσε πρὸς δαίμονος, «un uomo passa per stolto al cospetto della divinità».
201-203 – Il concetto iniziale fu correttamente inteso da Plutarco (Amatorius, 756b) come πάτριος καὶ παλαιὰ πίστις, ἧς οὐκ ἔστιν εἰπεῖν οὐδ' ἀνευρεῖν τεκμήριον ἐναργέστερον 'οὐδ' εἰ δι' ἄκρας τὸ σοφὸν εὕρηται φρενός’, «la fede antica dei padri, della quale non è possibile dire né trovare prova più evidente, “neanche se il sapere viene trovato attraverso menti acute”». – ὁμήλικας χρόνῳ: non coeve nel tempo (come lo siamo noi), bensì coeve col tempo. La loro sanzione è un’antichità senza tempo come le ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν νόμιμα dell’Antigone di Sofocle (vv. 450-457): Οὐ γάρ τί μοι Ζεὺς ἦν ὁ κηρύξας τάδε, / οὐδ’ ἡ ξύνοικος τῶν κάτω θεῶν Δίκη· / οὐ τούσδ’ ἐν ἀνθρώποισιν ὥρισαν νόμους· / οὐδὲ σθένειν τοσοῦτον ᾠόμην τὰ σὰ / κηρύγμαθ’ ὥστ’ ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν / νόμιμα δύνασθαι θνητὸν ὄνθ’ ὑπερδραμεῖν. / Οὐ γάρ τι νῦν γε κἀχθές, ἀλλ’ ἀεί ποτε / ζῇ ταῦτα, κοὐδεὶς οἶδεν ἐξ ὅτου ’φάνη, «Infatti non era certo Zeus colui che ha proclamato questo editto, / né Giustizia, quella che convive con gli dèi di sotterra; / non hanno definito queste leggi tra gli uomini; / né pensavo che avessero una forza tanto grande i tuoi / editti da poter trasgredire essendo tu mortale / le leggi non scritte e incrollabili degli dèi. / Non infatti ora né ieri, ma da sempre / vivono queste, e nessuno sa da quando si manifestarono». Sulla medesima linea si esprime il coro dell’Edipo re (vv. 863-871): Εἴ μοι ξυνείη φέροντι μοῖρα τὰν / εὔσεπτον ἁγνείαν λόγων / ἔργων τε πάντων, ὧν νόμοι πρόκεινται / ὑψίποδες, οὐρανίαν / δι’ αἰθέρα τεκνωθέντες, ὧν Ὄλυμπος / πατὴρ μόνος, οὐδέ νιν / θνατὰ φύσις ἀνέρων / ἔτικτεν, οὐδὲ μήποτε λά- / θα κατακοιμάσῃ· / μέγας ἐν τούτοις θεός, οὐδὲ γηράσκει, «Che sia con me la sorte di portare / la sacra purezza di parole / e di opere tutte, davanti alle quali sono stabilite leggi / sublimi, generate / attraverso l'etere celeste, delle quali Olimpo è l'unico padre, né le / partorì natura mortale di uomini, / né mai oblio / le addormenterà: / grande in queste il dio, e non invecchia»; e anche Lisia (Contro Andocide, 10): Περικλέα ποτέ φασι παραινέσαι ὑμῖν περὶ τῶν ἀσεβούντων, μὴ μόνον χρῆσθαι τοῖς γεγραμμένοις νόμοις περὶ αὐτῶν, ἀλλὰ καὶ τοῖς ἀγράφοις, […] οὓς οὐδείς πω κύριος ἐγένετο καθελεῖν οὐδὲ ἐτόλμησεν ἀντειπεῖν, οὐδὲ αὐτὸν τὸν θέντα ἴσασιν, «dicono che Pericle un tempo vi esortò a proposito degli empi, non solo ad usare le leggi scritte per quelli, ma anche quelle non scritte, […] che nessuno mai fu in potere di abbattere né osò contraddire, né conoscono colui che le ha stabilite». In effetti Tucidide riportando le parole di Pericle nel λόγος ἐπιτάφιος (II, 37, 3): ἀνεπαχθῶς δὲ τὰ ἴδια προσομιλοῦντες τὰ δημόσια διὰ δέος μάλιστα οὐ παρανομοῦμεν, τῶν τε αἰεὶ ἐν ἀρχῇ ὄντων ἀκροάσει καὶ τῶν νόμων, καὶ μάλιστα αὐτῶν ὅσοι τε ἐπ' ὠφελίᾳ τῶν ἀδικουμένων κεῖνται καὶ ὅσοι ἄγραφοι ὄντες αἰσχύνην ὁμολογουμένην φέρουσιν, «Mentre trattiamo i rapporti privati senza offendere nelle questioni pubbliche non violiamo le leggi soprattutto per paura, dando ascolto a coloro che di volta in volta ricoprono una carica e alle leggi, e soprattuto a quelle che sono in vigore per la tutela delle vittime di ingiustizia e a quelle che, pur essendo non scritte, procurano unanime disonore». Per una trattazione più ampia rimando alla scheda «Leggi scritte/leggi non scritte».
– Dodds nota con sorpresa l’uso di tale linguaggio in questo contesto, perché nella tragedia Dioniso è un dio nuovo ed è Penteo e non Dioniso che si appella alla tradizione. Alcuni hanno pensato che queste parole fossero rivolte al coro, portavoce della dottrina dionisiaca, il λόγος del v. 202 e che le tradizioni patrie fossero la religione apollinea di Delfi, le πατρίους παραδοχάς del v. 201. Risulta evidente tuttavia che l’avvertimento di Tiresia è rivolto agli scettici, non agli entusiasti. È sufficiente dire che il suo appello è al tradizionale rispetto della divinità in quanto tale; gli oppositori di Dioniso non sono degli atei (come mostrano i versi 45-46): essi semplicemente rifiutano di riconoscere la rivendicazione da parte del nuovo arrivato delle sue prerogative divine. La spiegazione. Secondo Dodds, è che Euripide ha fatto deliberatamente parlare Tiresia come un uomo del quinto secolo: il lampante anacronismo è un avvertimento al pubblico che il dibattito che segue rappresenterà una controversia del quinto secolo trasposta nel passato mitico. – κεκτήμεθα: perfetto medio passivo di κτάομαι, «acquisto»; al perfetto significa «possiedo». – καταβαλεῖ: futuro contratto o asigmatico di καταβάλλω. Erodoto (VIII, 77) usa questa parola nel medesimo senso Χρησμοῖσι δὲ οὐκ ἔχω ἀντιλέγειν ὡς οὐκ εἰσὶ ἀληθέες, οὐ βουλόμενος ἐναργέως λέγοντας πειρᾶσθαι καταβάλλειν, «non posso confutare gli oracoli dicendo che non sono veri, poiché non voglio abbatterli dato che parlano chiaramente». – ηὕρηται: perfetto medio passivo di εὑρίσκω, «trovo, invento». Protagora scrisse un’opera intitolata Καταβάλλοντες (sottinteso λόγοι) «Discorsi demolitori» che iniziava con la frase famosa citata prima ed aveva fatto un’altra famosa considerazione sugli dèi (80 B4 D-K) Περὶ μὲν θεῶν οὐκ ἔχω εἰδέναι, οὔθ' ὡς εἰσίν οὔθ' ὡς οὐκ εἰσίν οὔθ' ὁποῖοί τινές ἰδέαν· πολλά γὰρ τὰ κωλύοντα εἰδέναι ἥ τ' ἀδηλότης καὶ βραχὺς ὢν ὁ βίος τοῦ ἀνθρώπου, «Degli dèi non posso sapere, né che esistono, né che non esistono, né quali siano d’aspetto: molte cose impediscono di sapere, sia l’oscurità sia la vita dell’uomo che è breve». È possibile, anche se difficilmente possiamo esserne sicuri, che la scelta del verbo καταβαλεῖ avesse lo scopo di richiamare alla mente del pubblico questo libro. Un’altra possibile allusione ad esso si trova in Eracle, 756-759: τίς ὁ θεοὺς ἀνομίᾳ χραίνων, θνητὸς ὤν, / ἄφρονα λόγον / οὐρανίων μακάρων κατέβαλ’, ὡς ἄρ’ οὐ / σθένουσιν θεοί; «Chi profanando gli dèi contro la legge, / essendo mortale, / un discorso folle / scagli contro i celesti beati, dicendo che gli dèi non hanno forza?».
E alla fine del primo episodio così Cadmo ammonisce il nipote (330-336):
Κα. ὦ παῖ, καλῶς σοι Τειρεσίας παρῄνεσεν.
οἴκει μεθ᾽ ἡμῶν, μὴ θύραζε τῶν νόμων.
νῦν γὰρ πέτῃ τε καὶ φρονῶν οὐδὲν φρονεῖς.
κεἰ μὴ γὰρ ἔστιν ὁ θεὸς οὗτος, ὡς σὺ φῄς,
παρὰ σοὶ λεγέσθω: καὶ καταψεύδου καλῶς
ὡς ἔστι, Σεμέλη θ᾽ ἵνα δοκῇ θεὸν τεκεῖν,
ἡμῖν τε τιμὴ παντὶ τῷ γένει προσῇ.
Ca. Figlio, bene ti ha consigliato Tiresia. / Sta’ con noi, non fuori dalle norme; / ora infatti voli a vuoto e pur essendo dotato di ragione non ragioni. / E se anche questo non è un dio, come tu dici, / sia detto tra te e te; e di’ una bella menzogna, / che lo è, affinché sembri che Semele abbia partorito un dio, / e si aggiunga onore a noi e a tutta la stirpe».
Queste sono le parole di un poeta che per tutta la vita aveva eroicamente combattuto Dioniso, ma alla fine della sua vita conclude la carriera glorificando l’avversario. Le Baccanti sono dunque una ritrattazione, una sorta di resipiscenza, purtroppo tardiva: nel momento in cui sconfessa la possibilità di realizzare la sua tendenza, questa si è già realizzata:
Il miracolo era accaduto: quando il poeta ritrattò, la sua tendenza aveva già vinto.
Questo è il senso che secondo Nietzsche si cela dietro i vv. 1344-45 e dietro tutta la tragedia:
Κάδμος
Διόνυσε, λισσόμεσθά σ᾽, ἠδικήκαμεν.
Διόνυσος
ὄψ᾽ ἐμάθεθ᾽ ἡμᾶς, ὅτε δὲ χρῆν, οὐκ ᾔδετε.
«Ca. Dioniso, ti preghiamo, abbiamo sbagliato. / Di. Tardi ci avete riconosciuto, quando era necessario, non ne volevate sapere».
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