giovedì 20 febbraio 2025

Giustizia Legge Diritto del più forte – Maturità 2025

 

109. Stiamo all’erta! Guardiamoci dal dire che esistono leggi della natura. Non vi sono che necessità: e allora non c’è nessuno che comanda, nessuno che presta obbedienza, nessuno che trasgredisce.

(Nietzsche, La gaia scienza, Libro terzo)

Legge e giustizia

Platone, nel I libro de La repubblica(338c) riferisce l'opinione di Trasimaco, uno dei personaggi del dialogo, secondo cui τὸ τοῦ κρείττονος σύμφερον δίκαιον εἶναι, il giusto è l'utile del più forte. Socrate chiede spiegazioni ulteriori, allora Trasimaco spiega che ogni potere organizza il proprio governo secondo il proprio vantaggio (σύμφερον), le democrazie facendo leggi democratiche, le oligarchie oligarchiche, le tirannidi tiranniche. Quindi hanno spiegato che questo è giusto, cioè ciò che è loro utile, punendo i trasgressori. Infine poi ribadisce che il giusto è appunto l'utile del più forte. Naturalmente Socrate ribatte secondo il solito procedimento dialettico e conclude dicendo che chi legifera deve tenere presente non il proprio utile ma quello dei sudditi.

L'argomentazione di Socrate è più nobile ma quella di Trasimaco è sicuramente più affascinante.

Platone scrisse il dialogo nel I quarto del IV secolo a.C.; pochi decenni prima, nell'ultimo quarto del V secolo, in piena guerra del Peloponneso, Tucidide, padre della storia laica e politica (sulla quale ἐνομοθέτησεν, legiferò, come dice Luciano in Come si deve scrivere la storia), racconta un episodio accaduto nel 416, l'anno che precedette la spedizione in Sicilia degli Ateniesi e in cui vigeva la pace di Nicia (421); in quel periodo Atene e Sparta non si scontravano direttamente ma c'era una specia di guerra fredda. Ebbene l'isola di Melo, che si trova nell'Egeo centroorientale, era rimasta fino a quel momento neutrale. Atene però basava la sua egemonia all'interno della lega Delio-attica e la sua forza contro la lega Peloponnesiaca, sul controllo del mare e sulla potenza navale: non poteva ammettere che un'isola potesse rimanere neutrale. Allora viene inviata un'ambasciata a Melo con un ultimatum: l'isola deve allearsi con Atene. Naturalmente gli abitanti sono riluttanti.

Tucidide, nel V libro delle sue storie riporta il dialogo tra gli ambascitori ateniesi e i capi dell'isola. I secondi tirano in ballo concetti come lealtà, giustizia etc.; gli Ateniesi invece si limitano a una constatazione: δίκαια μὲν ἐν τῷ ἀνθρωπείῳ λόγῳ ἀπὸ τῆς ἴσης ἀνάγκης κρίνεται, δυνατὰ δὲ οἱ προύχοντες πράσσουσι καὶ οἱ ἀσθενεῖς ξυγχωροῦσιν, le cose giuste nel ragionamento umano sono giudicate a partire da una pari necessità, mentre sono quelli superiori che fanno le cose possibili e i deboliaccossentono (89). Viene tirata poi in ballo la speranza, per esempio che gli Spartani arriveranno in aiuto; gli Ateniesi ribattono che gli Spartani non hanno una flotta e tagliano corto dicendo: ἡγούμεθα γὰρ τό τε θεῖον δόξῃ τὸ ἀνθρώπειόν τε σαφῶς διὰ παντὸς ὑπὸ φύσεως ἀναγκαίας, οὗ ἂν κρατῇ, ἄρχειν: καὶ ἡμεῖς οὔτε θέντες τὸν νόμον οὔτε κειμένῳ πρῶτοι χρησάμενοι, ὄντα δὲ παραλαβόντες καὶ ἐσόμενον ἐς αἰεὶ καταλείψοντες χρώμεθα αὐτῷ, εἰδότες καὶ ὑμᾶς ἂν καὶ ἄλλους ἐν τῇ αὐτῇ δυνάμει ἡμῖν γενομένους δρῶντας ἂν ταὐτό, noi crediamo infatti che la divinità, secondo un'opinione e l'umanità, con chiarezza, in ogni caso per necessità di natura, dove sia più forte comandi. E noi né avendo posto la legge né avendola usata per primi mentre era in vigore, ma avendola ricevuta che già c'era la usiamo lasciandola in eredità destinata ad esistere per sempre, sapendo che anche voi e altri essendo nella medesima condizione di potenza fareste lo stesso (105, 2).

Qui Tucidide enuncia con la massima chiarezza e semplicità possibili la legge del diritto del più forte; del resto come dice Euripide nelle Fenicie (496) ἀπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυν, semplice è per natura il racconto della verità.

Abbiamo confrontato Platone, che naturalmente non si riconosce nel pensiero di Trasimaco e Tucidide. Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli (p. 125-6) consiglia Tucidide, in opposizione a Platone, come terapia contro l'idealismo: “Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è sempre stato Tucidide. Tucidide, e forse, Il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà – non nella “ragione”, e tanto meno nella “morale” … In lui la cultura dei sofisti, voglio dire la cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile, in mezzo alla truffa morale e ideale delle scuole socratiche prorompenti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadance dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà – conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di – tiene quindi sotto il suo dominio anche cose”.

In Aurora (p. 124) aggiunge: “Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male … rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col some dei sui maestri: i Sofisti”.

Per quanto riguarda cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che il filosofo tedesco attribuisce anche a Machiavelli si può citare il capitolo XV del Principe: “Sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa. E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni”.

Torniamo a Platone e vediamo un sofista, appunto, di nome Callicle che sotiene il giusto predominio della forza, come gli Ateniesi e lo sparviero di Esiodo.

Callicle è uno dei personaggi del Gorgia e sta discutendo con Socrate se sia meglio infliggere o subire ingiustizia; secondo lui in natura che ciò che è brutto è anche malvagio, come subire ingiustizia, mentre secondo la legge è il contrario. Prosegue dicendo che è meglio morire se, maltrattati e offesi, non si è capaci di aiutare se stessi e gli altri. Quindi formula il concetto secondo cui Φύσις αὐτὴ ἀποφαίνει αὐτό, ὅτι δίκαιόν ἐστιν τὸν ἀμείνω τοῦ χείρονος πλέον ἔχειν καὶ τὸν δυνατώτερον τοῦ ἀδυνατωτέρου. δηλοῖ δὲ ταῦτα πολλαχοῦ ὅτι οὕτως ἔχει, καὶ ἐν τοῖς ἄλλοις ζῴοις καὶ τῶν ἀνθρώπων ἐν ὅλαις ταῖς πόλεσι καὶ τοῖς γένεσιν, ὅτι οὕτω τὸ δίκαιον κέκριται, τὸν κρείττω τοῦ ἥττονος ἄρχειν καὶ πλέον ἔχειν, la natura stessa mostra ciò, vale a dire che è giusto che il migliore abbia più del peggiore e il più capace del meno capace. Mastra che queste cose stanno così ovunque, sia tra gli altri animali sia tra gli uomini nelle città intere e nelle famiglie (483d).

Le leggi allora sono un prodotto della maggioranza fatta di deboli invidiosi che non icapaci di realizzare le proprie ambizioni, caratteristica invece dei forti (491b) ἀνδρεῖοι, ἱκανοὶ ὄντες ἃ ἂν νοήσωσιν ἐπιτελεῖν, καὶ μὴ ἀποκάμνωσι διὰ μαλακίαν τῆς ψυχῆς, valorosi, capaci di compiere ciò che pensano, e non si scoraggiano per debolezza d'animo.

(492a) ἀλλὰ τοῦτ᾽ οἶμαι τοῖς πολλοῖς οὐ δυνατόν: ὅθεν ψέγουσιν τοὺς τοιούτους δι᾽ αἰσχύνην, ἀποκρυπτόμενοι τὴν αὑτῶν ἀδυναμίαν, ma ai più credo, questo non è possibile: perciò biasimano siffatti individui, per vergogna, nascondendo la proria incapacità.

A sostegno della sua tesi Callicle cita anche Pindaro νόμος πάντων βασιλεύς, la legge è regina di tutte le cose (su cui torneremo più avanti).

Callicle aggiunge poi che pessima è la filosofia, perché anche chi per natura è ben dotato, se continua a filosofare anche da adulto, non fa esperienza del mondo reale rimanendo inesperto delle passioni degli uomini, τῶν ἠθῶν παντάπασιν ἄπειροι γίγνονται, diventano assolutamente inesperti dei tipi.

Socrate ribatte naturalmente che bisogna seguire la temperanza e la morale, ma riconosce a Callicle di aver parlato con franchezza οὐκ ἀγεννῶς, in quanto ha detto quello che gli altri pensano senza avere in coraggio di dirlo.

Vediamo ora alcune condanne del diritto del più forte. Innanzitutto Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (4 dicembre 1878): “Quando doveri e diritti stanno sulla punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù”.

Manzoni nella parte finale dell'Adelchi (atto quinto, scena ottava, vv. 349-354)fa dire al protagonista: “Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto o patirlo. Una feroce/forza il mondo possiede, e fa nomarsi/dritto”.

Leopardi invece nell'Ultimo canto di Saffo dice ai vv. 50-54 “alle sembianze il Padre,/alle amene sembianze eterno regno/diè nelle genti; e per virili imprese,/dotta lira o canto/virtù non luce in disadorno ammanto”, identificando il diritto del più forte con quello del più bello.

Infine sentiamo cosa disse Don Milani in L'obbedienza non è più una virtù: “Non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dire che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano combattute”.

Torniamo a Pindaro. Callicle lo aveva citato per significare che la legge, quella naturale, è regina di tutte le cose. Anche Erodoto cita lo stesso verso, ma dando alla parola legge un significato diverso. Erodoto è caratterizzato da quello che viene definito relativismo e questo è un tratto che può assimilarlo al relativismo di stampo sofistico di Protagora. A questo viene infatti attribuito, per esempio nel Cratilo di Platone (385e), il concetto che l'uomo è misura di tutte le cose ὥσπερ Πρωταγόρας ἔλεγεν λέων πάντων χρημάτων μέτρον εἶναι ἄνθρωπον. Ebbene Erodoto nel III libro delle Storie al cap 38 racconta un episodio che afferma il valore della tolleranza. Sta parlando di quando Dario era re dei Persiani e un giorno chiese a dei Greci a che prezzo avrebbero mangiato i cadaveri dei genitori; questi si sdegnarono e dissero che non lo avrebbero fatto a nessun prezzo. Quindi Dario chiese a degli Indiani Callati, uno dei popoli che abitavano il suo impero e che avevano l'usanza di mangiare i cadaveri dei genitori, a quale prezzo avrebbero seppellito i genitori morti e questi si sdegnorono profondamente. Quindi Erodoto trae la conclusione che la consuetudine è regina di tutte le cose.

Come si vede lo storiografo intende diversamente il frammento di Pindaro giocando sui diversi significati assunti dalla parola νόμος. Ora tale parola può essere fonte di ambiguità, come per esempio succede nell'Antigone di Sofocle, rappresentata nel 442 (tale fu il successo del dramma che l'autore fu eletto stratego l'anno successivo). Al centro della vicenda sta la sepoltura del cadavere di Polinice. Creonte, fratello di Giocasta e zio di Antigone, ha promulgato un editto (k»rugma, v. 8) secondo cui il cadavere di Polinice, traditore della patria, deve rimanere insepolto; Antigone, sorella di Polinice, contesta la legittimità di tale provvedimento, contrapponendo alle leggi scritte (νόμους … τοὺς προκειμένους v. 481) rappresentate dall’editto, le leggi scritte e incrollabili degli dei (ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν / νόμιμα, vv. 454-5) che tutelano il legame di sangue e alle quali attribuisce il primato. Il contesto è la spedizione dei sette conto Tebe (raccontata nell’omonima tragedia da Eschilo) guidata da Polinice, che vi trova la morte assieme al fratello Eteocle; per Creonte solo quest’ultimo, che era re di Tebe in quel momento, ha diritto agli onori funebri. Siccome Antigone esegue i riti in onore di Polinice, viene condannata a morte, come previsto dall’editto; da questo atto derivano il suicidio di Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone, e quello di Euridice, moglie del re. Solo alla fine, ma comunque troppo tardi, Creonte riconosce che è meglio compiere la vita rispettando le leggi stabilite.

Come si vede νόμος è parola chiave nella tragedia, e lo sviluppo della vicenda ruota intorno al significato che i due protagonisti le attribuiscono; l’ambiguità della parola serve all’autore per produrre un effetto di ironia tragica, come nota Vernant: “Tutti i tragici greci ricorrono all’ambiguità come mezzo di espressione e come modo di pensiero. Ma il doppio senso assume un ruolo ben diverso secondo il posto che occupa nell’economia del dramma e il livello della lingua a cui lo pongono i diversi tragici. Può trattarsi di un’ambiguità nel vocabolario, corrispondente a ciò che Aristotele chiama ὁμονυμία (ambiguità lessicale); questo tipo di ambiguità è reso possibile dalle oscillazioni o dalle contraddizioni della lingua1. Il drammaturgo gioca su queste per esprimere la sua visione del mondo in urto con se stesso, lacerato dalle contraddizioni. In bocca ai diversi personaggi le stesse parole acquistano significati differenti od opposti, perché il loro valore non è lo stesso nella lingua religiosa, giuridica, politica, comune. Così per Antigone νόμος designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è posto, chiama anche lui νόμος. Per la fanciulla il termine significa “norma religiosa”; per Creonte, “editto promulgato dal capo dello stato”. E in realtà il campo semantico di νόμος è sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi2. L’ambiguità traduce allora la tensione tra certi valori avvertiti come inconciliabili nonostante la loro omonimia. Le parole scambiate sullo spazio scenico, anziché stabilire la comunicazione e l’accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l’impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali. Ciascun eroe, chiuso nell’universo che gli è proprio, dà alla parola un senso e uno solo. Contro questa unilateralità urta violentemente un’altra unilateralità. L’ironia tragica potrà consistere nel mostrare come nel corso dell’azione l’eroe si trovi letteralmente «preso in parola», una parola che si ritorce contro di lui arrecandogli l’amara esperienza del senso ch’egli si ostinava a non riconoscere. Solamente al di sopra della testa dei personaggi si allaccia tra l’autore e lo spettatore un altro dialogo ove la lingua ricupera la sua capacità di comunicazione e per così dire la sua trasparenza. Ma ciò che il messaggio tragico trasmette, quando è compreso, è appunto che nelle parole scambiate fra uomini esistono zone di opacità e incomunicabilità. Nel momento in cui vede sulla scena i protagonisti aderire esclusivamente a un senso, lo spettatore è portato a comprendere che esistono in realtà due sensi, o più. Il messaggio tragico gli diviene intelligibile nella misura in cui, strappato alle sue certezze e alle sue limitazioni antiche, egli riconosce l’ambiguità dei termini, dei valori, della condizione umana. Riconoscendo l’universo come conflittuale, aprendosi a una visione problematica del mondo, egli stesso si fa, attraverso lo spettacolo, coscienza tragica”3.

Volendo citare anche qualche Latino, Cornelio Nepote nel preoemio al Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium di che dalla sua opera si può imparare che non eadem omnibus esse honesta atque turpia.

Di questo relativismo culturale un altro esempio si trova sempre in Erodoto, nel I libro, cap. 196 dove racconta come le donne babilonesi trovano marito.

Del rapporto dialettico tra lex e mos parla anche Sallustio, all'inizio del de Catilinae coniuratione, XII ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat, quando descrive i boni mores dell'antica repubblica in opposizione alla corruzione dei suoi tempi.

1 “I nomi sono in numero finito, mentre le cose sono infinite. Quindi è inevitabile che un nome unico abbia più sensi”: Aristotele, Confutazione dei sofisti, I, 165 a 11.

2 Benveniste (Noms d’agent et noms d’action en indo-europeén, Paris 1948, pp. 79 sg.) ha dimostrato che νέμειν racchiude l’idea di un’attribuzione regolare, di una spartizione regolata dall’autorità del diritto consuetudinario. Questo senso rende conto delle due grandi serie nella storia semantica della radice *nem. Νόμος, attribuzione regolare, regola d’uso, consuetudine, rito religioso, legge divina o civica, convenzione; νόμος attribuzione territoriale fissata dalla consuetudine, pascolo, provincia. L’espressione τὰ νομιζόμενα designa l’insieme di ciò che è dovuto agli dèi; τὰ νόμιμα le norme con valore religioso o politico;τὰ νομίσματα le consuetudini o la moneta avente corso in una città.

3 J.P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento in Mito e tragedia nell’antica Grecia, pp. 88-90.

Nessun commento:

Posta un commento