martedì 4 febbraio 2025

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 9 – completo

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(in aggiornamento)   


Capitolo 9

Edipo e Prometeo


Tutto ciò che viene alla superficie nella parte apollinea della tragedia greca, nel dialogo, appare semplice, trasparente, bello.


Così comincia il capitolo. Il dialogo è un immagine del Greco, la cui natura si rivela nella danza e nei suoi movimenti. In particolare è sorprendente la lingua degli eroi sofoclei per la sua limpidezza, al punto da credere di poter penetrare al fondo della loro essenza con inaspettata facilità. Ma se prescindiamo dal carattere dell’eroe che è ciò che emerge sulla superficie e che, in modo inverso rispetto al mito della caverna di Platone, è un’immagine luminosa proiettata su fondo scuro, e penetriamo nel mito allora sperimentiamo un effetto inverso a un noto fenomeno ottico.


Quando noi, dopo un fermo tentativo di fissare il sole, ci rivolgiamo abbagliati, abbiamo allora davanti agli occhi, quasi come un rimedio, scure macchie colorate; inversamente, quelle proiezioni luminose dell’eroe sofocleo, insomma l’apollineo della maschera, sono prodotti necessari di uno sguardo gettato nell’intimità e terribilità della natura, per così dire macchie luminose per sanare l'occhio offeso dall'orrenda notte. Solo in questo senso possiamo credere di comprendere rettamente il concetto serio e importante della «serenità greca».


Edipo, la figura più dolorosa del mondo greco, è stato concepito da Sofocle come l’uomo nobile che soffre nonostante la sua saggezza, ma in virtù della sua immensa sofferenza esercita intorno a sé un benefico influsso.


In effetti alla fine dell’ Edipo re (1414-15) leggiamo questa orgogliosa rivendicazione:


τἀμὰ γὰρ κακὰ

οὐδεὶς οἷός τε πλὴν ἐμοῦ φέρειν βροτῶν.

«i miei mali / nessuno è capace tranne me di sopportarli tra i mortali».


come del resto all’inizio (396-98) avevamo visto la rivendicazione della proprie capacità intellettuali, grazie alle quali aveva risolto l’enigma, ma che, escludendo la dimensione divina, sono anche causa della sua rovina:


ἀλλ' ἐγὼ μολών,

ὁ μηδὲν εἰδὼς Οἰδίπους, ἔπαυσά νιν,

γνώμῃ κυρήσας οὐδ' ἀπ' οἰωνῶν μαθών·

«ma io dopo essere giunto, / io Edipo che non sapevo niente, la feci cessare, / avvalendomi dell'intelligenza e non avendo appreso nulla dal volo degli uccelli»


Quello che ci vuole dire il poeta è che l’uomo nobile in fondo non pecca: se anche con le sue azioni vengono infrante tutte le leggi morali e religiose, è proprio dagli effetti superiori e magici del suo agire che nasce un nuovo mondo sulle rovine del vecchio. Qui il riferimento è alla fine dell’Edipo a Colono.


Ciò vuol dirci il poeta, in quanto è insieme pensatore religioso.


Nietzsche analizza ora la storia di Edipo fondendo le due tragedie di Sofocle.

In quanto poeta ci mostra una vicenda processuale che si sbroglia a poco a poco portandolo alla rovina:


la gioia genuinamente ellenica per questo scioglimento dialettico è così grande, che in tal modo spira su tutta l’opera un soffio di superiore serenità.


Nell’Edipo a Colono c’è la medesima serenità ma talmente elevata da apparire trasfigurata: contrapposta alla sofferenza del vecchio abbandonato a tutto ciò che lo colpisce c’è la serenità ultraterrena che si irradia dalla sfera divina


e ci accenna come l’eroe possa raggiungere, con il suo comportamento puramente passivo, la sua più alta attività […] mentre tutti i suoi sforzi della vita precedente l’avevano condotto solo alla passività.


Nella tragedia, ai vv. 266-267, leggiamo:


ἐπεὶ τά γ᾽ ἔργα μου

πεπονθότ᾽ ἐστὶ μᾶλλον ἢ δεδρακότα

«giacché le mie azioni / sono state subite piuttosto che compiute».


Questa spiegazione rende giustizia al poeta ma non è sufficiente per il mito;


e ora si vede che tutta la concezione del poeta non è niente altro se non appunto quell’immagine luminosa, che la natura risanatrice ci mostra dopo che abbiamo gettato uno sguardo nel baratro.


Parricidio, incesto ed enigma della Sfinge: qual è il significato di questa triade? Un’antica credenza popolare narra che un mago può nascere solo da un incesto; questa affermazione trae spunto da un carme di Catullo (90, 3-4):


nam magus ex matre et gnato gignatur oportet,

si vera est Persarum impia religio

«Infatti bisogna che un mago sia generato da una madre e da un suo figlio, / se è vera l’empia superstizione dei Persiani».


Nel caso di Edipo bisogna interpretare tale credenza nel senso che dove sono stati violati i segreti della natura, l’ordine del presente e del futuro, la legge dell’individuazione e in genere l’incantesimo della natura, là deve essere stata commessa un forte trasgressione contro la natura;


giacché come si potrebbe costringere la natura ad abbandonare i suoi segreti se non contrastandola vittoriosamente, ossia mediante ciò che è innaturale?


In effetti, come diceva Eraclito (123 D-K):


φύσις κρύτπτεσθαι φιλεῖ

«la natura ama nascondersi».


Per violare l’enigma della natura (la Sfinge) deve agire contro natura (uccidere il padre e unirsi alla madre).


Sì, il mito sembra volerci bisbigliare che la sapienza, e proprio la sapienza dionisiaca, è un orrore contro natura, che colui che col suo sapere precipita la natura nel baratro dell’annientamento deve sperimentare la dissoluzione della natura su se stesso. «La punta della sapienza si rivolge contro il sapiente; la sapienza è un delitto contro natura».


Queste ultime parole sembrano riecheggiare quelle di Tiresia nell’Edipo re (316-317) al suo ingresso in scena:


Φεῦ φεῦ, φρονεῖν ὡς δεινὸν ἔνθα μὴ τέλη

λύῃ φρονοῦντι.

«Ahi ahi, come è terribile sapere quando non / giova a chi sa».


Sul motivo antiintellettualistico cfr. anche Eraclito, 40 D-K:


πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσχει.

«sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza»


[…] ma il poeta ellenico tocca come un raggio di sole la sublime e terribile colonna memnonica del mito, sicché esso comincia subitamente a risuonare – di melodie sofoclee!


Memnone, mitico re degli Etiopi, oggetto di tragedie sia di eschilo sia di Sofocle, aveva due statue che lo raffiguravano. Di una si dice che risuonasse quando era colpita dal sole. La stessa immagine è usata da Schopenhauer (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione, cap. 3, pag. 34) per descrivere la capacità delle menti dotate:


in costoro, ogni pensiero risveglia con […] grande facilità tutti i pensieri analoghi o affini; […] a loro le somiglianze, le analogie e le relazioni tra le cose in generale vengono in mente così rapidamente e così facilmente che la stessa occasione che milioni di teste comuni hanno avuto prima di loro li conduce a quel pensiero, a quella scoperta che gli altri – coloro i quali sanno sì riflettere sul già pensato, ma non pensare autonomamente – si stupiscono, dopo esserne venuti a conoscenza, di non aver fatto loro stessi: così il sole risplendeva su tutte le colonne, ma risuonava solo su quella di Memnone.


Passiamo a Prometeo.


Alla gloria della passività contrappongo ora la gloria dell’attività, che illumina il Prometeo di Eschilo.


Quello che ci voleva dire Eschilo lo ha detto più esplicitamente il giovane Goethe nei versi che concludono l’inno a Prometeo:


«Qui io resto, formo uomini

a mia immagine,

una stirpe che mi sia uguale,

per soffrire, per piangere,

per godere e per gioire,

e non curarsi di te,

come me!».


L’uomo che si eleva all’altezza dei titani si conquista da solo la propria civiltà e costringe gli dèi ad allearsi con lui in virtù della sua propria saggezza. La cosa più mirabile qui è la profonda tendenza eschilea alla giustizia.

In effetti Eschilo è uno dei più convinti fautori della giustizia; vediamo un paio di citazioni. Nell’Agamennone il coro di vecchi Argivi così si esprime nel primo stasimo (vv. 381-384):


οὐ γὰρ ἔστιν ἔπαλξις

πλούτου πρὸς κόρον ἀνδρὶ

λακτίσαντι μέγαν Δίκας

βωμὸν εἰς ἀφάνειαν.

«Non c’è infatti difesa

per l’uomo che per sazietà di ricchezza

ha preso a calci il grande altare

di Giustizia per annientarlo».


Il medesimo concetto con la medesima immagine è ribadito nel dramma conclusivo della trilogia nelle parole del coro delle Erinni (Eumenidi, vv. 539-541):


βωμὸν αἴδεσαι δίκας·

μηδέ νιν κέρδος ἰδὼν ἀθέῳ ποδὶ λὰξ ἀτίσῃς,

ποινὰ γὰρ ἐπέσται.

«Rispetta l’altare di Giustizia: / e non disprezzarlo prendendolo a calci con piede ateo in vista del guadagno, / seguirà infatti il castigo».


Il dolore dell’individuo temerario e il presentimento del crepuscolo degli dèi costringono alla riconciliazione i due mondi; tutto ciò rimanda al nocciolo della concezione del mondo di Eschilo,


che vede troneggiare la Moira, come eterna giustizia, su dèi e uomini.

 

In effetti così leggiamo nel Prometeo incatenato, vv. 514-18:


Προμηθεύς τέχνη δ᾽ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷ.

«la tecnica è di gran lunga più debole della necessità».

Χορός τίς οὖν ἀνάγκης ἐστὶν οἰακοστρόφος;

«chi dunque è il timoniere della necessità?»

Προμηθεύς Μοῖραι τρίμορφοι μνήμονές τ᾽ Ἐρινύες.

«Le Moire dalla triplice forma e le memori Erinni».

Χορός τούτων ἄρα Ζεύς ἐστιν ἀσθενέστερος;

«e Zeus è più debole di queste?»

Προμηθεύς οὔκουν ἂν ἐκφύγοι γε τὴν πεπρωμένην.

«non potrebbe certo evitare il destino».


La sfida lanciata agli dèi posti sul piatto della bilancia della giustizia doveva trovare un’alternativa metafisica nei misteri per poter scaricare lo scetticismo sulle divinità olimpiche.


L’artista greco in particolare avvertiva, riguardo a queste divinità, un oscuro senso di reciproca dipendenza… L’artista titanico trovò in sé la caparbia fede di poter creare uomini o almeno di poter distruggere dèi olimpici: e ciò mediante la sua superiore sapienza, che era però costretto a scontare con un’eterna sofferenza.


Il nucleo della poesia di Eschilo è dunque il «potere» che il genio deve scontare con una eterna sofferenza:


L’aspro orgoglio dell’artista – questo è il contenuto e l’anima della poesia di Eschilo, mentre nel suo Edipo Sofocle intona come preludio il canto di vittoria del santo.


 Ma come per Sofocle anche per Eschilo questa interpretazione sfiora solo la superficie, come un cielo luminoso che si rispecchia in un lago di tristezza.


La leggenda di Prometeo è proprietà originaria dell’intera comunità dei popoli ariani, e un documento delle loro doti di profondità tragica… possiede per la natura ariana esattamente la stessa caratteristica importanza che il mito del peccato originale ha per la natura semitica, e […] fra i due miti esiste un grado di parentela come fratello e sorella.


Il presupposto del mito di Prometeo è il valore attribuito da un’umanità ingenua al fuoco, come motore della civiltà. Ma a questi uomini dell’antichità parve un sacrilegio, una rapina ai danni della natura poterne disporre liberamente come un diritto e non come una concessione sotto forma di fulmine piovuto dal cielo. La conquista della cosa migliore e più elevata comporta un crimine con le sue conseguenze.


Un pensiero crudo, che per la dignità conferita al crimine stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male.


La dignità di questo pensiero crudo si manifesta nell’orgogliosa rivendicazione di Prometeo nella tragedia di Eschilo al v. 266:


ἑκὼν ἑκὼν ἥμαρτον, οὐκ ἀρνήσομαι

«di mia volontà, di mia volontà ho peccato, non lo negherò».


È un atteggiamento che ritroviamo in un’altra eroina orgogliosa, nell’Antigone di Sofocle, quando risponde così all’interrogatorio di Creonte (v. 443):


καὶ φημὶ δρᾶσαι κοὐκ ἀπαρνοῦμαι τὸ μή

«e affermo di averlo fatto e non lo nego, proprio no».


All’inizio della tragedia Antigone aveva già fatto intendere la forza della sua identità (v. 89) non disgiunta da profondo umanesimo (v. 523):


ἀλλ᾽ οἶδ᾽ ἀρέσκουσ᾽ οἷς μάλισθ᾽ ἁδεῖν με χρή

«ma so di piacere a queli a cui soprattutto è necessario che io piaccia».

οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν

«non certo per condividere l'odio, ma per condividere l'amore sono nata».


Riporto il passo della Genesi (3, 1-13) in cui viene narrato l’episodio del peccato originale:


1Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». 2Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». 4Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». 6Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. 8Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 12Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 13Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».


Ciò che distingue la concezione ariana è la virtù vista come peccato attivo, e questo è anche il sostrato etico della tragedia pessimistica che giustifica il male umano, cioè la colpa e la sofferenza meritata. L’ariano meditativo non nega con sofisticazioni la sventura connaturata all’esistenza: le sue contraddizioni si manifestano nell’intreccio di mondi diversi, tutti legittimi nella loro individualità, ma in lotta tra loro, e quindi sofferenti, per affermare, nella coesistenza, la propria individualità.


Nell’eroico impulso dell’individuo verso l’universale, nel tentativo di voler oltrepassare la barriera dell’individuazione e di voler essere lui stesso l’unica essenza del mondo, egli patisce in sé la contraddizione originaria nascosta nelle cose, vale a dire commette un delitto e soffre. Così dagli ariani il delitto viene considerato maschio, dai semiti il peccato viene considerato femmina; come pure il crimine originale viene commesso dall’uomo e il peccato originale dalla donna.


Per comprendere al meglio quest’ultima affermazione riporto quanto leggo in una nota a questo passo nell’edizione Einaudi curata da Vivetta Vivarelli: “L’espressione tedesca che designa il «peccato originale» (Sündenfall) è composta dalla parola «caduta» e dal sostantivo Sünde, che è di genere femminile e pertanto viene contrapposto al maschile Frevel («crimine»)”.

Dunque l’essenza della leggenda di Prometeo è la necessità del crimine per chi ha aspirazioni titaniche e chi lo comprende sente anche che tale concezione pessimistica è non apollinea. Apollo vuol dar pace tracciando linee di confine che ribadisce in continuazione con i suoi precetti della conoscenza di sé e della misura.


Ma perché in questa tendenza apollinea la forma non si irrigidisse in egiziana durezza e freddezza, perché nello sforzo di prescrivere alla singola onda il suo corso e la sua sfera non si estinguesse il movimento di tutto il lago, l’alta marea del dionisiaco distrusse di tempo in tempo tutti quei piccoli circoli, in cui la «volontà» unilateralmente apollinea cercava di delimitare la grecità. La marea repentinamente gonfiatasi del dionisiaco prende allora sul suo dorso le singole piccole cime ondulate degli individui, come il fratello di Prometeo, il Titano Atlante, prendeva su di sé la terra. Questo impulso titanico a divenire per così dire l'Atlante di tutti i singoli e a portarli sul largo dorso sempre più in alto, sempre più lontano, è l'elemento comune fra il prometeico e il dionisiaco.


Dunque in questo caso Il prometeo di Eschilo è una maschera di Dioniso, mentre nella sua venerazione per la giustizia si rivela la sua discendenza da Apollo, in quanto la giustizia stabilisce dei limiti. Sicché la duplice natura dionisiaca e insieme apollinea, di Prometeo si potrebbe così sintetizzare:


«Tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto, e in entrambi i casi giustificato».

Come disse Eraclito (102 D-K):


τῷ μὲν θεῷ καλά πάντα καὶ αγαθά καὶ δίκαια, ἄνθρωποι δὲ ἃ μὲν ἄδικα ὑπειλήφασιν ἃ δὲ δίκαια.

«per il dio tutte le cose sono belle e buone e giuste, gli uomini invece giudicano alcune cose ingiuste altre giuste».


Segue, a conclusione del capitolo, il v. 409 del Faust di Goethe, che qui, anziché  descrivere lo studio di Faust con le sue frustrazioni, esprime invece tutta l’ammirazione per la visione tragica del mondo:


Questo è il tuo mondo! Questo significa un mondo!

Das ist deine Welt! das heißt eine Welt!

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