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(in aggiornamento)
Capitolo 14
L’occhio di ciclope
Immaginiamo ora l’unico grande occhio di Ciclope di Socrate puntato sulla tragedia, quell’occhio in cui non arse mai la dolce follia dell’entusiasmo artistico – immaginiamo come a quell’occhio fosse interdetto di guardare con pieno diletto negli abissi dionisiaci – che cosa propriamente doveva scorgere nella «sublime e celebratissima» arte tragica, come Platone la chiama? Qualcosa di assolutamente irrazionale.
Nel dramma satiresco di Euripide Ciclope i satiri che compongono il coro si lamentano dell’assenza di Dioniso, misconosciuto da Polifemo.
Quanto alla follia dell’entusiasmo artistico si tratta del già citato passo di Platone, Fedro, 244a:
νῦν δὲ τὰ μέγιστα τῶν ἀγαθῶν ἡμῖν γίγνεται διὰ μανίας, θείᾳ μέντοι δόσει διδομένης,
«ora i più grandi tra i beni esistono per noi grazie alla follia, concessa certamente per dono divino».
Platone aveva così definito la poesia tragica (Gorgia, 502b):
ἡ σεμνὴ αὕτη καὶ θαυμαστή, ἡ τῆς τραγῳδίας ποίησις.
«Questa poesia solenne e meravigliosa, la poesia della tragedia».
Noi sappiamo che l’unico genere d’arte per lui comprensibile era la favola esopica, con cui si può dire la verità attraverso un’immagine ad un intelletto pigro; la tragedia del resto, oltre a rivolgersi a chi ha poco intelletto, non dice nemmeno la verità. La annovera tra le arti lusingatrici, come Platone nel passo del Gorgia che continua quello precedente (502b-c):
ΣΩ. πότερόν ἐστιν αὐτῆς τὸ ἐπιχείρημα καὶ ἡ σπουδή, ὡς σοὶ δοκεῖ, χαρίζεσθαι τοῖς θεαταῖς μόνον, ἢ καὶ διαμάχεσθαι, ἐάν τι αὐτοῖς ἡδὺ μὲν ᾖ καὶ κεχαρισμένον, πονηρὸν δέ, ὅπως τοῦτο μὲν μὴ ἐρεῖ, εἰ δέ τι τυγχάνει ἀηδὲς καὶ ὠφέλιμον, τοῦτο δὲ καὶ λέξει καὶ ᾄσεται, ἐάντε χαίρωσιν ἐάντε μή; ποτέρως σοι δοκεῖ παρεσκευάσθαι ἡ τῶν τραγῳδιῶν ποίησις;
So. Sua cura e intenzione, secondo te, è solamente compiacere gli spettatori, o anche sforzarsi, se qualcosa risulti per loro piacevole e gradito, qualcos’altro penoso, di non dirlo, ma se qualcosa si trovi ad essere spiacevole e utile, questo lo dirà e lo canterà, sia che ne godano, sia che no? In quale dei due modi ti sembra strutturata?
ΚΑΛ. Δῆλον δὴ τοῦτό γε, ὦ Σώκρατες, ὅτι πρὸς τὴν [c] ἡδονὴν μᾶλλον ὥρμηται καὶ τὸ χαρίζεσθαι τοῖς θεαταῖς.
Call. Ma questo almeno è chiaro, o Socrate, che è indirizzata piuttosto al piacere e a compiacere gli spettatori.
ΣΩ. Οὐκοῦν τὸ τοιοῦτον, ὦ Καλλίκλεις, ἔφαμεν νυνδὴ κολακείαν εἶναι;
ΚΑΛ. Πάνυ γε.
«So. Non dicvamo dunque una cosa del genere, o Callicle, poco fa, che è adulazione?
Call. Certamente».
Dunque bisogna astenersene e lo pretendeva anche dai suoi discepoli, al punto che Platone dovette bruciare le sue poesie giovanili. Che Platone in gioventù si fosse dedicato alla tragedia risulta da Diogene Laerzio, III, 5:
μέλλων ἀγωνιεῖσθαι τραγῳδίᾳ πρὸ τοῦ Διονυσιακοῦ θεάτρου Σωκράτους ἀκούσας κατέφλεξε τὰ ποιήματα.
«Quando stava per gareggiare nella tragedia davanti al teatro di Dioniso, dopo aver ascoltato Socrate, bruciò i versi».
Anche quando le massime socratiche trovarono resistenza, furono tuttavia abbastanza forti da spingere la poesia su posizioni nuove. Un esempio è Platone,
egli, che nel condannare la tragedia e l’arte in genere non rimase certo indietro all’ingenuo cinismo del suo maestro, dovette tuttavia creare per assoluta necessità artistica una forma d’arte che è intimamente affine proprio alle forme d’arte vigenti da lui rigettate.
Abbiamo già visto nel Gorgia citato poco fa il disprezzo che Platone prova per la tragedia. Altri giudizi negativi si trovano in Repubblica, V, 475d:
οἵ τε φιλήκοοι ἀτοπώτατοί τινές εἰσιν ὥς γ᾽ ἐν φιλοσόφοις τιθέναι, οἳ πρὸς μὲν λόγους καὶ τοιαύτην διατριβὴν ἑκόντες οὐκ ἂν ἐθέλοιεν ἐλθεῖν, ὥσπερ δὲ ἀπομεμισθωκότες τὰ ὦτα ἐπακοῦσαι πάντων χορῶν περιθέουσι τοῖς Διονυσίοις οὔτε τῶν κατὰ πόλεις οὔτε τῶν κατὰ κώμας ἀπολειπόμενοι.
«E gli amanti dell'ascolto sono dei tipi stranissimi da porre tra i filosofi, essi che non vorrebbero andare volontariamente verso discorsi e occupazioni del genere, mentre, come se avessero dato in affitto le orecchie, corrono in giro ad ascoltare tutti i cori alle Dionisie, non mancando né a quelle di città né a quelle di campagna».
Interessante anche la considerazione che si trova in Leggi 701a, dove se la prende con lo strapotere dei teatri:
τὰ θέατρα ἐξ ἀφώνων φωνήεντ' ἐγένοντο, ὡς ἐπαΐοντα ἐν μούσαις τό τε καλὸν καὶ μή, καὶ ἀντὶ ἀριστοκρατίας ἐν αὐτῇ θεατροκρατία τις πονηρὰ γέγονεν.
«i teatri da silenziosi sono diventati risonanti di voci, come se comprendessero ciò che è bello e ciò che non lo è nelle opere poetiche, si è prodotta al posto di un’aristocrazia del gusto una maligna teatrocrazia».
La critica di Platone all’arte precedente era sostanzialmente di essere imitazione di un’imitazione. Tale teoria è enunciata all’inizio del X libro della repubblica. Questa era dunque la cosa da evitare assolutamente: da qui il tentativo di trascendere la realtà e rappresentare l’dea che vi sta alla base. In questo modo però torna alle sue origini di poeta, dove Sofocle e tutta l’arte antica protestavano contro quel rimprovero. Se la tragedia aveva assorbito e fuso insieme i precedenti generi, analogamente fa il dialogo platonico, a metà tra narrazione, lirica, dramma, fra prosa e poesia.
Il dialogo platonico fu per così dire la barca su cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature… ha fornito a tutta la posterità il modello del romanzo: questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico simile a quello in cui per molti secoli la stessa filosofia ha vissuto rispetto alla teologia, come ancilla.
Qui il pensiero filosofico sovrasta l’arte; la tendenza apollinea si è ridotta a schematismo logico, come in Euripide quella dionisiaca si è ridotta a passione naturalistica.
Socrate, l’eroe dialettico del dramma platonico, ci ricorda la natura affine dell’eroe euripideo, che deve difendere le sue azioni con ragioni e controragioni.
Senza la sfumatura negativa, è su questa linea anche Bruno Snell (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale, Aristofane e l'estetica, pp. 185-6):
Euripide porta la coscienza morale a una nuova crisi... Così al posto del conflitto drammatico abbiamo discussioni di uomini per i quali la vita stessa è diventata oggetto di dubbio. E così dalla tragedia si passa al dialogo filosofico-morale. Se la tragedia più tarda porta alla riflessione astrattamente razionale degli oggetti che rappresentava una volta in figure vive, essa non fa che seguire una legge storica dello spirito greco; anche le altre grandi forme di poesia hanno aperto la via all'osservazione scientifica. L'epopea porta alla storia; la poesia teogonia e cosmogonia sfocia nella filosofia naturale ionica che ricerca l'ἀρχή, la ragione e il principio delle cose; dalla poesia lirica si sviluppano i problemi riguardanti lo spirito e il significato delle cose. Così la tragedia preannunzia la filosofia attica, il cui interesse principale è rivolto all'azione umana, al bene. I dialoghi di Platone riprendono le discussioni dei personaggi della tragedia.
Il fatto è che nella dialettica è insito un elemento ottimistico che può esprimersi solo nella fredda chiarezza e consapevolezza. Tale elemento, una volta penetrato nella tragedia, erode a poco a poco lo spazio del dionisiaco fino al salto mortale nel dramma borghese.
«La virtù è il sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice»; in queste tre forme fondamentali di ottimismo sta la morte della tragedia. Giacché ora l’eroe virtuoso deve essere un dialettico, ora ci deve essere tra la virtù e il sapere, la fede e la morale un legame necessario e visibile, ora la soluzione trascendentale della giustizia di Eschilo è abbassata al superficiale e sfrontato principio della «giustizia poetica», col suo solito deus ex machina.
Che fine fa il coro? Viene percepito come un relitto antiquato, una cosa fortuita, di cui si può fare a meno. Ma si è visto che proprio dal coro nasce la tragedia. Già in Sofocle c’è qualche perplessità, segno che già con lui era cominciata l’agonia della tragedia: non gli affida più la parte principale, ma lo integra nell’azione degli attori, come se fosse trasferito dall’orchestra sulla scena. Con ciò viene annientata la sua essenza, sebbene Aristotele mostri proprio su questo punto il suo gradimento (Poetica, 1456a):
καὶ τὸν χορὸν δὲ ἕνα δεῖ ὑπολαμβάνειν τῶν ὑποκριτῶν, καὶ μόριον εἶναι τοῦ ὅλου καὶ συναγωνίζεσθαι μὴ ὥσπερ Εὐριπίδῃ ἀλλ' ὥσπερ Σοφοκλεῖ.
«E bisogna considerare il coro come uno degli attori, e che sia una parte dell’insieme e che partecipi all’azione, non come per Euripide ma come per Sofocle».
Riprendo a questo punto la fine del saggio di Snell (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale, Aristofane e l'estetica, p. 189) per riabilitare il nome bistrattato molto da Nietzsche, ma anche un po’ da Aristotele:
Goethe, che non era animato da nessun risentimento contro lo spirito... si è fortemente adirato che Schlegel... trovasse da ridire contro Euripide. «Un poeta, – diceva a Eckermann – che Aristotele esaltava, Menandro ammirava e alla cui morte Sofocle e l'intera città di Atene vestirono a lutto, doveva pur valere qualcosa. Quando un uomo dei nostri tempi come Schlegel vuole rilevare dei difetti in questo grande dell'antichità, non dovrebbe farlo altrimenti che in ginocchio». E per finire, riporteremo ancora la parola di Goethe scritta nel suo diario alcuni mesi prima della morte: «Non finisco di meravigliarmi come l’élite dei filologi non comprenda i suoi meriti e secondo la bella usanza tradizionale lo subordini ai suoi predecessori seguendo l'esempio di quel pagliaccio di Aristofane... Ma c'è forse una nazione che abbia avuto dopo di lui un drammaturgo che sia appena degno di porgergli le pantofole?».
La musica quindi è cacciata dalla dialettica distruggendo l’essenza della tragedia che è interpretabile esclusivamente
come una manifestazione e raffigurazione di stati dionisiaci, come simbolizzazione visibile della musica, come il mondo di sogno di un’ebbrezza dionisiaca.
Se dunque già prima di Socrate dobbiamo supporre una tendenza antidionisiaca, tuttavia solo con Socrate essa esplode in tutta la sua forza: tale forza non possiamo considerarla solo negativa, data la caratura del personaggio; dunque dobbiamo chiederci se il rapporto tra Socrate e arte sia esclusivamente antitetico oppure se sia possibile concepire un Socrate artistico.
Quel logico dispotico ebbe cioè talvolta di fronte all’arte il senso di una lacuna… Molto spesso gli veniva in sogno, come racconta in carcere ai suoi amici, sempre una stessa apparizione, che diceva sempre la stessa cosa: «Socrate, datti alla musica!».
Lo spunto viene dal Fedone, 60e-61b:
πολλάκις μοι φοιτῶν τὸ αὐτὸ ἐνύπνιον ἐν τῷ παρελθόντι βίῳ, ἄλλοτ' ἐν ἄλλῃ ὄψει φαινόμενον, τὰ αὐτὰ δὲ λέγον, "Ὦ Σώκρατες," ἔφη, "μουσικὴν ποίει καὶ ἐργάζου.» […] ἔδοξε χρῆναι […] μὴ ἀπειθῆσαι αὐτῷ ἀλλὰ ποιεῖν […] ἐννοήσας ὅτι τὸν ποιητὴν δέοι, εἴπερ μέλλοι ποιητὴς εἶναι, ποιεῖν μύθους ἀλλ' οὐ λόγους, καὶ αὐτὸς οὐκ ἦ μυθολογικός, διὰ ταῦτα δὴ οὓς προχείρους εἶχον μύθους καὶ ἠπιστάμην τοὺς Αἰσώπου, τούτων ἐποίησα οἷς πρώτοις ἐνέτυχον.
«Ripresentandosi spesso a me il medesimo sogno nlla vita precedente, che si mostrava una volta in una forma un'altra volta in un'altra forma, che diceva le medesime cose, "Socrate", diceva, "componi musica ed eseguila!» […] Mi parve che fosse necessario […] non disobbedirgli ma comporre […] Riflettendo sul fatto che bisognava che il poeta, se ha intenzione di essere poeta, compone miti e non ragionamenti, e io stesso non ero portato per i miti, per queste ragioni i miti che avevo a portata di mano e conoscevo, quelli di Esopo, di questi ha fatto poesie, nei quali per primi mi sono imbattuto».
Queste parole di Socrate, pronunciate in un sogno, sono l’unico segno di perplessità di Socrate sui limiti della logica; dovette chiedersi se ciò che non comprendeva doveva per forza essere assurdo:
Forse esiste un regno della sapienza da cui il logico è bandito? Forse l’arte è addirittura un correlativo e supplemento necessario della scienza?
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