giovedì 30 gennaio 2025

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 8 – 1° parte

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(in aggiornamento) 

 

Capitolo 8

Ancora sul coro


Tanto il Satiro quanto il pastore idilliaco dei tempi moderni sono prodotti di una nostalgia del primitivo e del naturale: ma con quale presa salda e impavida il Greco afferrò il suo uomo silvestre, e con quale timidezza e mollezza l’uomo moderno si trastullò invece con la carezzevole immagine di un pastore tenero, effemminato, che suona il flauto!


Il greco vide nel suo satiro una natura che non ha ancora conosciuto la civiltà: non era dunque, come la scimmia, uno stadio pre-umano, ma


l’immagine primigenia dell’uomo […] annunciatore di una saggezza tratta dal seno più profondo della natura, come simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura.


Davanti a lui l’uomo civile si riduce a caricatura e Schiller ha ragione:


il coro è un muro vivo contro l’assalto della realtà… perché riflette l’esistenza in modo più verace, reale e completa che non l’uomo civile, che comunemente si considera come unica realtà.


Ora, la poesia non è frutto della fantasia del poeta, ma al contrario è la non velata espressione della verità, per raggiungere la quale deve scrollarsi di dosso la civilizzazione. Il contrasto tra verità della natura e menzogna della civiltà è analogo a quello tra cosa in sé e apparenza e come la consolazione metafisica della tragedia consiste nel mostrarci l’eternità dell’essere contro lo scomparire delle apparenze così il coro dei satiri simboleggia già il rapporto originario tra i due mondi. Il pastore idillico rappresenta una natura frutto di illusioni prodotte dalla cultura.


Il Greco dionisiaco vuole la verità e la natura nella loro forza massima – e si vede trasformato per incanto in Satiro.


Questi sono gli stati d’animo dei seguaci di Dioniso: sotto il loro influsso essi vedono se stessi come potenze della natura, come satiri. Il coro tragico è l’imitazione artistica di quel fenomeno naturale, a cui segue la separazione tra spettatori dionisiaci e invasati da Dioniso. Ma bisogna tenere presente che il pubblico vede comunque se stesso nel coro, e che quindi pubblico e coro sono accomunati dall’estasi dionisiaca e i satiri rappresentano il pubblico.


Il detto di Schlegel deve ora dischiudersi a noi in un senso più profondo. Il coro è lo «spettatore ideale», in quanto esso è l’unico spettatore, lo spettatore del mondo di visione della scena.


Il pubblico greco era diverso da quello moderno; aiutato dalla conformazione del teatro, che abbraccia dall’alto la scena e l’orchestra dominandole, poteva immaginarsi come coreuta dunque possiamo definire il coro «un rispecchiamento di sé dell’uomo dionisiaco». Il fenomeno è facile da comprendere se paragonato all’opera dell’attore, il quale vede fluttuare davanti a sé i personaggi.


Il coro dei Satiri è prima di ogni altra cosa una visione della massa dionisiaca, come a sua volta il mondo della scena è una visione di questo coro di Satiri.


Il fenomeno è abbastanza potente da distogliere il pubblico colto dalla percezione della realtà circostante.


La forma del teatro greco ricorda una valle di montagna solitaria: l’architettura della scena appare come una splendente immagine di nuvole, che le baccanti sciamanti per la montagna scorgono dall'alto, come la magnifica cornice, nel cui centro si rivela a loro l’immagine di Dioniso.


Con queste belle parole Nietzsche allude a Orazio (Odi, III, 25, 9-12):


Non secus in iugis

exsomnis stupet Euhias,

Hebrum prospiciens et niue candidam

Thracen.

«Non diversamente sui gioghi / l’insonne Baccante rimane incantata, / osservando davanti a sé l’Ebro e la Tracia candida / di neve».


La nostra concezione erudita non comprende il fatto che il poeta è tale quando crea figure per lui vive.


Per il vero poeta

la metafora non è una figura retorica, bensì un’immagine sostitutiva
che gli si presenta concretamente, in luogo di un concetto… Perché Omero descrive con tanta più evidenza di tutti gli altri poeti? Perché intuisce tanto di più. Noi parliamo di poesia in modo così astratto, perché siamo tutti di solito cattivi poeti.


In fondo il fenomeno estetico è semplice: se si è capaci di vedere intorno a sé schiere di spiriti si è poeti; se si sente l’impulso a immedesimarsi in altre creature si è drammaturghi. L’eccitazione dionisiaca comunica questa disposizione a tutta una massa che quindi si immedesima nella schiera di spiriti di cui si vede circondata.


Vedere sé stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo… Questo processo sta all’inizio dello sviluppo del dramma. C’è qui qualcosa di diverso dal rapsodo, che non si fonde con le sue immagini, ma che, simile al pittore, le vede fuori di sé… qui c’è già un annullamento dell’individuo per l’ingresso in una natura estranea.


Questo elemento è ciò che rende il ditirambo essenzialmente distinto dagli altri canti corali in cui i coreuti mantengono la loro identità.


Il coro ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione sociale sono completamente dimenticati.


Il resto della lirica corale è in fondo un’estensione apollinea del poeta, mentre nel ditirambo c’è una comunità di attori che si considerano tra loro dei trasformati.

Un’opinione opposta è quella di Leopardi che considera il dramma non figlio della natura ma della civiltà, e quindi ne dà un giudizio negativo, non capendone il valore. Vediamo alcuni passi dello Zibaldone:


La poesia, quanto a' generi, non ha in sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico… Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo (4235).

la imitazion suggerita dalla natura, è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato [4236]di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell'ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall'ingegno dell'uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote (4235-4236).

Direi che la drammatica spetta alla poesia meno ancora che l'epica. Essa è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, nè le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall'intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un carattere ch'ei non ha (cosa necessaria al drammatico) è cosa alienissima dal poeta; non meno che l'osservazione esatta e paziente de' caratteri e passioni altrui. Il sentimento che l'anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta, il solo che egli provi inclinazione ad esprimere. Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de' sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d'imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico. In fatti i maggiori geni e poeti che hanno coltivata la drammatica, (coltivata perchè l'hanno creduta poesia, ingannati dal verso, come Virgilio fece un poema epico perchè credè che Omero ne avesse fatto), peccano sempre in questo, di dar se stessi più che altrui (4357).

Il romanzo, la novella ec. sono all'uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è il più alieno di tutti i generi di letteratura, perchè è quello che esige la maggior prossimità d'imitazione, la maggior trasformazione dell'autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l'uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro (4367).

Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriamente poeti, ma come, al più, intermedii fra' poeti e' prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica. (22. Sett. 1828.). Però, chi dice che la letteratura greca fiorì principalmente in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. ec. (4389).

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