mercoledì 1 gennaio 2025

La teoria della classe media – 4°

 Nella concezione idealizzata la democrazia si contrappone alla tirannide in quanto rispettosa dell’uguaglianza1, come nelle Fenicie (rappresentata subito dopo il colpo di stato oligarchico del 411); Eteocle, che in questa tragedia rappresenta il tiranno, così si rivolge alla madre:

ἐγὼ γὰρ οὐδέν, μῆτερ, ἀποκρύψας ἐρῶ·

ἄστρων ἂν ἔλθοιμ' ἡλίου†πρὸς ἀντολὰς

καὶ γῆς ἔνερθε, δυνατὸς ὢν δρᾶσαι τάδε,

τὴν θεῶν μεγίστην ὥστ' ἔχειν Τυραννίδα.

«Io infatti, madre, parlerò senza dissimulare alcunché: / io andrei alle sorgenti degli astri e del sole / e dentro la terra, se avessi il potere di farlo, / pur di possedere la più grande delle divinità, la Tirannide» (503-506).

ἀνανδρία γάρ, τὸ πλέον ὅστις ἀπολέσας

τοὔλασσον ἔλαβε.

«sarebbe viltà infatti per uno perdere il più / e prendere il meno» (509-510).

ὡς οὐ παρήσω τῶιδ' ἐμὴν τυραννίδα.

εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι

κάλλιστον ἀδικεῖν, τἄλλα δ' εὐσεβεῖν χρεών.

«Sicché non consegnerò a costui la mia tirannide. / infatti se proprio è necessario commettere ingiustizia, per la tirannide / è bellissimo commetterla, per il resto si deve essere pii2» (523-525).

Questa la risposta di Giocasta , che è un inno all’uguaglianza:

τί τῆς κακίστης δαιμόνων ἐφίεσαι

Φιλοτιμίας, παῖ; μὴ σύ γ'· ἄδικος ἡ θεός·

«Perché sei trascinato dalla peggiore delle divinità3, / l’Ambizione, o figlio? Non farlo: è una dea ingiusta» (531-532)

κεῖνο κάλλιον, τέκνον,

Ἰσότητα τιμᾶν,

«Quello è più bello, figlio, / onorare, l’Uguaglianza» (535-536)

τὸ γὰρ ἴσον μόνιμον ἀνθρώποις ἔφυ,

τῷ πλέονι δ' αἰεὶ πολέμιον καθίσταται

τοὔλασσον ἐχθρᾶς θ' ἡμέρας κατάρχεται. 540

καὶ γὰρ μέτρ' ἀνθρώποισι καὶ μέρη σταθμῶν

Ἰσότης ἔταξε κἀριθμὸν διώρισεν,

νυκτός τ' ἀφεγγὲς βλέφαρον ἡλίου τε φῶς

ἴσον βαδίζει τὸν ἐνιαύσιον κύκλον,

κοὐδέτερον αὐτῶν φθόνον ἔχει νικώμενον. 545

εἶθ' ἥλιος μὲν νύξ τε δουλεύει μέτροις,

σὺ δ' οὐκ ἀνέξηι δωμάτων ἔχων ἴσον;

[καὶ τῷδ' ἀπονεῖμαι; κἆιτα ποῦ 'στιν ἡ δίκη;]

τί τὴν τυραννίδ', ἀδικίαν εὐδαίμονα,

τιμᾶις ὑπέρφευ καὶ μέγ' ἥγησαι τόδε; 550

«L’uguale infatti è per natura stabile per gli uomini, / mentre del più è sempre nemico / il meno e dà inizio al giorno dell’odio. / E infatti per gli uomini le misure e le parti di pesi / l’Uguaglianza le stabilì e definì il numero, / l’oscura palpebra della notte e la luce del sole / percorrono uguale il ciclo annuale, / e nessuno dei due prova invidia quando è vinto. / Se allora anche il sole e la notte si sottomettono alla misura, / non accetterai anche tu di avere una parte uguale della casa?4 / e di dare a questo la sua parte? E poi dove è la giustizia? / Perché la tirannide, un’ingiustizia felice5, / onori straordinariamente e pensi che ciò sia grande? (538-550)

τί δ' ἔστι τὸ πλέον; ὄνομ' ἔχει μόνον·

ἐπεὶ τά γ' ἀρκοῦνθ' ἱκανὰ τοῖς γε σώφροσιν.

[οὔτοι τὰ χρήματ' ἴδια κέκτηνται βροτοί, 555

τὰ τῶν θεῶν δ' ἔχοντες ἐπιμελούμεθα·

ὅταν δὲ χρῃζωσ' αὔτ' ἀφαιροῦνται πάλιν·

ὁ δ' ὄλβος οὐ βέβαιος ἀλλ' ἐφήμερος.]

«Ma cosa è il più? Ha solo un nome; / giacché ciò che basta è sufficiente per gli assennati. / Di certo i mortali non hanno beni propri in loro possesso, / ma ci prendiamo cura di cose che appartengono agli dèi: / quando vogliono se le riprendono indietro6; la prosperità non è salda, ma dura un giorno»(553-558).

1 Così la intendeva Erodoto nelle parole di Otane (III, 80) Πλῆθος δὲ ἄρχον πρῶτα μὲν οὔνομα πάντων κάλλιστον ἔχει, ἰσονομίην, «innanzitutto la maggioranza che comanda ha il nome più bello di tutti, “isonomia”», cioè legge uguale per tutti.

2 Cicerone, in De officiis, III, 82, ricorda che questi versi erano molto amati da Cesare: Ipse autem socer in ore semper Graecos versus de Phoenissis habebat, quos dicam ut potero; incondite fortasse sed tamen, ut res possit intellegi: “Nam si violandum est ius, regnandi gratia, / Violandum est; aliis rebus pietatem colas.” Capitalis Eteocles vel potius Euripides, qui id unum quod omnium sceleratissimum fuerit, exceperit, «Lo stesso suocero aveva sempre sulle labbra quei versi greci tratti dalle Fenicie, che dirò come potrò; poco elegantemente forse, ma tuttavia, in modo che si possa comprendere il concetto: “Infatti se bisogna violare il diritto, per regnare / bisogna violarlo; per il resto coltiva la pietà”. Avrebbe meritato la pena capitale Eteocle o piuttosto Euripide, che per quell’unica cosa, la più scellerata di tutte, ha fatto un’eccezione»

3 Secondo Sallustio, invece, è piuttosto simile alla virtù (Cat., 11, 1): Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat, «Ma in principio travagliava gli animi degli uomini più dell’avidità l’ambizione, che tuttavia è un vizio assai vicino alla virtù», si intende ovviamente una virtù alla Machiavelli, cioè svincolata dalla morale.

4 Cfr. Seneca, Epistulae, 4: 6. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem, «Prendi le decisioni in accordo con la natura: ella ti dirà che ha fatto sia il giorno sia la notte».

5 La stessa idea si trova in Platone, Repubblica, I, nelle parole di Trasimaco: φημὶ γὰρ ἐγὼ εἶναι τὸ δίκαιον οὐκ ἄλλο τι ἢ τὸ τοῦ κρείττονος συμφέρον, «io dico che il giusto non è altro che l'utile del più forte» (338c); poi più avanti aggiunge: πάντων δὲ ῥᾷστα μαθήσῃ, ἐὰν ἐπὶ τὴν τελεωτάτην ἀδικίαν ἔλθῃς, ἣ τὸν μὲν ἀδικήσαντα εὐδαιμονέστατον ποιεῖ, τοὺς δὲ ἀδικηθέντας καὶ ἀδικῆσαι οὐκ ἂν ἐθέλοντας ἀθλιωτάτους. ἔστιν δὲ τοῦτο τυραννίς, ἣ οὐ κατὰ σμικρὸν τἀλλότρια καὶ λάθρᾳ καὶ βίᾳ ἀφαιρεῖται, καὶ ἱερὰ καὶ ὅσια καὶ ἴδια καὶ δημόσια, ἀλλὰ συλλήβδην, «capirai nel modo più facile di tutti, se ti rivolgi alla perfetta ingiustizia, la quale rende chi commette ingiustizia felicissimo, mentre coloro che la subiscono e che non vorrebbero subirla disgraziatissimi. È questa la tirannide, la quale non in piccola misura sottrae i beni altrui di nascosto e con la violenza, e quelli sacri e quelli sante e quelli privati e quelli pubblici, ma tutto insieme» (344a-b); chi compie queste azioni privatamente e in piccolo è chiamato criminale ed è pubblicamente infamato, al contrario coloro che compiono queste nefandezze pubblicamente e per il potere εὐδαίμονες καὶ μακάριοι [c] κέκληνται, οὐ μόνον ὑπὸ τῶν πολιτῶν ἀλλὰ καὶ ὑπὸ τῶν ἄλλων ὅσοι ἂν πύθωνται αὐτὸν τὴν ὅλην ἀδικίαν ἠδικηκότα· οὐ γὰρ τὸ ποιεῖν τὰ ἄδικα ἀλλὰ τὸ πάσχειν φοβούμενοι ὀνειδίζουσιν οἱ ὀνειδίζοντες τὴν ἀδικίαν, «sono chiamati felici, non solo dai concittadini, ma anche dagli altri, quanti abbiano saputo che egli ha compiuto l’ingiustizia totale: infatti coloro che biasimano l’ingiustizia la biasimano temendo non di fare azioni ingiuste ma di subirle» (344c). Questo naturalmente è il pensiero di un sofista, per confutare il quale Socrate impiegherà tutto il dialogo.

6 Una riflessione quasi identica si trova in Seneca, Consolatio ad Marciam, 10, 2: Itaque non est quod nos suspiciamus tamquam inter nostra positi: mutua accepimus. Vsus fructusque noster est, cuius tempus ille arbiter muneris sui temperat; nos oportet in promptu habere quae in incertum diem data sunt et appellatos sine querella reddere: pessimi debitoris est creditori facere conuicium, «E così non è il caso di provare ammirazione, come se fossimo stati posti tra beni che ci appartengono: li abbiamo ricevuti in prestito. Nostro è l’usufrutto, la cui durata è regolata da quello che del proprio dono è padrone; bisogna che noi teniamo a disposizione ciò che ci è stato concesso a scadenza, per quanto indefinita, e bisogna che se richiesti lo restituiamo senza lamentarci: è proprio di un pessimo debitore prendersela con il creditore».

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