Capitolo 2
L’incontro tra Apollo e Dioniso
Il capitolo si apre con delle considerazioni di ordine generale:
Finora abbiamo considerato l’apollineo e il suo opposto, il dionisiaco, come forze artistiche che erompono dalla natura stessa, senza mediazione dell’artista umano.
Cioè le due forze sono state considerate come condizioni che tutti gli esseri umani in una misura o nell’altra possono sperimentare, senza per questo essere artisti, nel caso dei quali valgono le seguenti parole:
Rispetto a questi stati artistici immediati della natura, ogni artista è «imitatore», cioè o artista apollineo del sogno o artista dionisiaco dell’ebbrezza o infine – come per esempio nella tragedia greca – insieme artista del sogno e dell’ebbrezza. Quest’ultimo dobbiamo raffigurarcelo all’incirca come uno che, nell’ebbrezza dionisiaca e nell’alienazione mistica di sé, si lascia andare solitario e in disparte dalle schiere deliranti, e al quale poi, attraverso l’influsso apollineo del sogno, il suo stato, cioè la sua unità con l’intima essenza del mondo, si rivela in un’immagine di sogno simbolica”.
L’dea che l’arte sia imitazione risale a Platone che, in quanto imitazione di secondo grade, la condanna. Il discorso si trova all’inizio del libro X della Repubblica, ed è attenuato dall’affermazione che παλαιὰ μέν τις διαφορὰ φιλοσοφίᾳ τε καὶ ποιητικῇ (607b), «c’è un antico dissidio tra filosofia e poesia» e che si dichiara pronto a cambiare idea se qualcuno addurrà delle argomentazioni valide a favore della poesia poiché (607c) σύνισμέν γε ἡμῖν αὐτοῖς κηλουμένοις ὑπ' αὐτῆς, «siamo consapevoli di esserne affascinati».
Il libro si apre con la dichiarazione d’intenti (595a), μηδαμῇ παραδέχεσθαι αὐτῆς ὅση μιμητική, «di non accogliere in nessun modo quanta di essa (la poesia) è mimetica»; successivamente Socrate, che dialoga con Glaucone, dimostra che chiunque può diventare in qualche modo creatore di tutte le cose che esistono, e il modo:
Οὐ χαλεπός, ἦν δ' ἐγώ, ἀλλὰ πολλαχῇ καὶ ταχὺ δημιουργούμενος, τάχιστα δέ που, εἰ 'θέλεις λαβὼν κάτοπτρον [e] περιφέρειν πανταχῇ· ταχὺ μὲν ἥλιον ποιήσεις καὶ τὰ ἐν τῷ οὐρανῷ, ταχὺ δὲ γῆν, ταχὺ δὲ σαυτόν τε καὶ τἆλλα ζῷα καὶ σκεύη καὶ φυτὰ καὶ πάντα ὅσα νυνδὴ ἐλέγετο (596d-e)
«non è difficile, dissi io, ma è fattibile spesso e velocemente, anzi molto velocemente in qualche modo, se vuoi prendere uno specchio e girarlo tutto intorno: creerai velocemente un sole e le cose nel cielo, velocemente una terra, velocemente te stesso e gli altri animali e mobili e piante e tutte quante le cose che or ora si dicevano».
Glaucone però risponde giustamente che si tratta di apparenze, φαινόμενα, non cose veramente esistenti, ὄντα τῇ ἀληθείᾳ. Socrate allora approfondisce il ragionamento prendendo come esempio un letto in quanto oggetto d’arte (in questo caso prende come modello la pittura) e dicendo che ce ne sono tre tipi:
τριτταί τινες κλῖναι αὗται γίγνονται· μία μὲν ἡ ἐν τῇ φύσει οὖσα, ἣν φαῖμεν ἄν, ὡς ἐγᾦμαι, θεὸν ἐργάσασθαι… Μία δέ γε ἣν ὁ τέκτων… Μία δὲ ἣν ὁ ζωγράφος… Ζωγράφος δή, κλινοποιός, θεός, τρεῖς οὗτοι ἐπιστάται τρισὶν εἴδεσι κλινῶν (597b)
«questi letti sono di tre tipi: uno e quello che esiste in natura, che potremmo dire, come io credo, che un dio lo ha prodotto… uno che ha prodotto il falegname… un che ha prodotto il pittore… Pertanto pittore, fabbricante di letti, dio, questi tre presiedono alle tre forme di letti».
Non si potrà dire del pittore che egli produce un letto, bensì, conviene Glaucone, che è μιμητὴς οὗ ἐκεῖνοι δημιουργοί (597e), «imitatore di ciò di cui quelli (i falegnami e il dio) sono artefici», e Socrate aggiunge che bisognerà chiamarlo τὸν τοῦ τρίτου ἄρα γεννήματος ἀπὸ τῆς φύσεως μιμητὴν, «l’imitatore della terza generazione a partire dalla natura», e Τοῦτ' ἄρα ἔσται καὶ ὁ τραγῳδοποιός, εἴπερ μιμητής ἐστι, τρίτος τις ἀπὸ βασιλέως καὶ τῆς ἀληθείας πεφυκώς, καὶ πάντες οἱ ἄλλοι μιμηταί, «e questo sarà quindi anche il tragediografo, se in effetti è un imitatore, terzo, per così dire, per natura a partire dal re e dalla verità, e imitatori tutti gli altri».
Inoltre si deve aggiungere che
τόν τε μιμητικὸν μηδὲν εἰδέναι ἄξιον λόγου περὶ ὧν μιμεῖται, ἀλλ' εἶναι παιδιάν τινα καὶ οὐ σπουδὴν τὴν μίμησιν, τούς τε τῆς τραγικῆς ποιήσεως ἁπτομένους ἐν ἰαμβείοις καὶ ἐν ἔπεσι πάντας εἶναι μιμητικοὺς ὡς οἷόν τε μάλιστα… τὸ δὲ δὴ μιμεῖσθαι τοῦτο περὶ τρίτον μέν τί ἐστιν ἀπὸ τῆς ἀληθείας (602b-c),
«l’imitatore non sa nulla di degno di essere detto intorno a ciò che imita, è invece l’imitazione un gioco e non cosa seria, e coloro che mettono mano alla poesia tragica in giambi e nell’epos sono tutti imitatori al massimo… e questo imitare è intorno a un livello che è terzo a partire dalla verità».
Ecco allora che il poeta è proprio come il pittore, un suo correlativo (ἀντίστροφον), τῷ φαῦλα ποιεῖν πρὸς ἀλήθειαν… εἴδωλα εἰδωλοποιοῦντα, τοῦ δὲ ἀληθοῦς πόρρω πάνυ ἀφεστῶτα (605a, c), «per il fatto che produce cose scadenti in relazione alla verità… immaginando dei simulacri, ma restando del tutto lontano dalla verità».
Aristotele invece, pur concordando sul fatto che l’arte è imitazione, tuttavia ne opera la riabilitazione in quanto connette l’imitazione all’apprendimento. Nella Poetica (1447a) parte dallo stesso presupposto del suo maestro, che le forme artistiche πᾶσαι τυγχάνουσιν οὖσαι μιμήσεις τὸ σύνολον, «si trovano ad essere tutte imitazioni, in generale»; tuttavia l’imitazione è un fatto positivo, e ciò è spiegato così (1448b):
Ἐοίκασι δὲ γεννῆσαι μὲν ὅλως τὴν ποιητικὴν αἰτίαι δύο τινὲς καὶ αὗται φυσικαί. τό τε γὰρ μιμεῖσθαι σύμφυτον τοῖς ἀνθρώποις ἐκ παίδων ἐστὶ καὶ τούτῳ διαφέρουσι τῶν ἄλλων ζῴων ὅτι μιμητικώτατόν ἐστι καὶ τὰς μαθήσεις ποιεῖται διὰ μιμήσεως τὰς πρώτας, καὶ τὸ χαίρειν τοῖς μιμήμασι πάντας,
«sembrano aver generato, in generale, l’arte poetica due cause e queste sono naturali. Da una parte infatti l’imitare è connaturato agli esseri umani fin dall’infanzia e in questo si distinguono dagli altri animali, cioè per il fatto che è il pù incline all’imitazione e produce i primi apprendimenti mediante l’imitazione, e poi il fatto che tutti godono delle imitazioni»…
αἴτιον δὲ καὶ τούτου, ὅτι μανθάνειν οὐ μόνον τοῖς φιλοσόφοις ἥδιστον ἀλλὰ καὶ τοῖς ἄλλοις ὁμοίως, ἀλλ' ἐπὶ βραχὺ κοινωνοῦσιν αὐτοῦ,
«e la causa di ciò è che imparare è piacevolissimo non solo per i filosofi ma anche per gli altri ugualmente, solo che ne partecipano per poco»;
διὰ γὰρ τοῦτο χαίρουσι τὰς εἰκόνας ὁρῶντες, ὅτι συμβαίνει θεωροῦντας μανθάνειν καὶ συλλογίζεσθαι τί ἕκαστον,
«per questo infatti godono nel vedere le immagini, poiché capita, osservandole, di imparare e ragionare su cosa sia ciascuna cosa».
Anche Shakespeare considera compito dell’arte, almeno di quella teatrale, rappresentare la realtà (Amleto, III, 2):
the purpose of playing, whose end, both at the first and now, was and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature,
«lo scopo del teatro, il cui fine, sia all'origine come ora, era ed è, di reggere, per così dire, lo specchio della natura»,
come del resto anche Montaigne (Saggi, I, 26):
Ce grand monde, que les uns multiplient encore comme espèces sous un genre, c’est le miroir où il nous faut regarder, pour nous connaître de bon biais.
«Questo gran mondo, che alcuni moltiplicano ancora come specie sotto un genere, è lo specchio in cui dobbiamo guardare per conoscerci dal lato giusto».
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