L’espressione otium cum dignitate si trova all’inizio del De oratore (I, 1) di Cicerone:
[I] [1] Cogitanti mihi saepe numero et memoria vetera repetenti perbeati fuisse, Quinte frater, illi videri solent, qui in optima re publica, cum et honoribus et rerum gestarum gloria florerent, eum vitae cursum tenere potuerunt, ut vel in negotio sine periculo vel in otio cum dignitate esse possent.
«Riflettendo molto spesso e richiamando alla memoria le cose antiche, fratello Quinto, sono soliti darmi l’impressione di essere stati del tutto felici coloro che in un ottimo stato, quando erano al culmine della carriera e della gloria delle imprese, poterono tenere un corso della vita tale da poter essere attivi politicamente senza pericolo e anche stare in un ozio dignitoso»; due paragrafi oltre chiarisce cosa intenda per otium cum dignitate. Quest’opera è del 55, quando la sua carriera era già finita ma non era stato definitivamente escluso dalla politica e quindi doveva ancora destreggiarsi tra i marosi degli scontri civili, per cui così prosegue: tamen in his vel asperitatibus rerum vel angustiis temporis obsequar studiis nostris et quantum mihi vel fraus inimicorum vel causae amicorum vel res publica tribuet oti, ad scribendum potissimum conferam, «tuttavia nelle difficoltà o se vuoi nella criticità di questi tempi mi dedicherò ai nostri studi e tutto il tempo libero che mi concederanno vuoi la perfidia dei nemici vuoi le difese degli amici vuoi la politica, io lo impiegherò principalmente a scrivere» (3).
Dunque qui la prospettiva è ancora quella di una scelta.
Diversa è la situazione nel De officiis (III, 1-3), scritto alla fine del 44 e pubblicato postumo, quando ormai lo studio non è più una scelta ma una necessità; in questo passo si sente a mio parere emergere un Cicerone autentico, soprattutto per il malinconico paragone con l’Africano:
[1] P. Scipionem, Marce fili, eum, qui primus Africanus appellatus est, dicere solitum scripsit Cato, qui fuit eius fere aequalis, numquam se minus otiosum esse, quam cum otiosus, nec minus solum, quam cum solus esset. […] Ita duae res, quae languorem adferunt ceteris, illum acuebant, otium et solitudo […] A re publica forensibusque negotiis armis impiis vique prohibiti otium persequimur […] [2] Sed nec hoc otium cum Africani otio nec haec solitudo cum illa comparanda est. Ille enim requiescens a rei publicae pulcherrimis muneribus otium sibi sumebat aliquando […] nostrum autem otium negotii inopia, non requiescendi studio constitutum est. […] Sed quia sic ab hominibus doctis accepimus, non solum ex malis eligere minima oportere, sed etiam excerpere ex his ipsis, si quid inesset boni, propterea et otio fruor […] nec eam solitudinem languere patior, quam mihi adfert necessitas, non voluntas.
«Scipione, o figlio Marco, quello che fu soprannominato Africano, era solito dire, come scrisse Catone che era quasi suo coetaneo, che non era mai meno ozioso di quando era ozioso, né meno solo di quando era solo […] Così due cose che arrecano agli altri fiacchezza, lui lo stimolavano, l’ozio e la solitudine […] Noi perseguiamo l’ozio senza tregua, esclusi dalla politica e dall’attività del foro per opera di armi empie e della violenza […] Ma né bisogna paragonare questo ozio con l’ozio dell’Africano né questa solitudine con quella. Egli infatti cercando riposo dai più nobili incarichi dello stato prendeva per sé ogni tanto dell’ozio […] il nostro ozio invece è stato stabilito per mancanza di attività non per voglia di riposarsi […] Ma siccome abbiamo imparato così dagli uomini dotti, non solo che bisogna tra i mali scegliere quelli minori, ma anche che da questi stessi bisogna ricavare se vi è compreso qualcosa di buono, appunto per questo traggo profitto dall’ozio […] e non lascio che sia svogliata quella solitudine, che mi porta la necessità, non la volontà».
Infine vediamo la chiusa delle Tusculanae disputationes (di pochi mesi, o settimane, precedenti il De officiis) dove Cicerone rivendica la dignità del suo otium coactum, e anche la sua funzione consolatoria:
[121] Sed quoniam mane est eundum, has quinque dierum disputationes memoria comprehendamus. Equidem me etiam conscripturum arbitror – ubi enim melius uti possumus hoc, cuicuimodi est, otio? –, ad Brutumque nostrum hos libros alteros quinque mittemus, a quo non modo inpulsi sumus ad philosophiae scriptiones, verum etiam lacessiti. In quo quantum ceteris profuturi simus, non facile dixerim, nostris quidem acerbissimis doloribus variisque et undique circumfusis molestiis alia nulla potuit inveniri levatio.
«Ma poiché domani mattina bisogna andarsene, fissiamo con la memoria le discussioni di questi cinque giorni. Per quanto mi riguarda penso che io anche le metterò per iscritto – in cosa infatti possiamo impiegare meglio questo ozio, qualunque ne sia la natura – , e invieremo questi altri cinque libri al nostro Bruto, dal quale non solo sono stato spinto ma addirittura spronato agli scritti di filosofia. E quanto in ciò siamo destinati a giovare agli altri, non saprei dirlo facilmente, ma è certo che per gli amarissimi dolori e le inquietudini che da ogni parte mi circondano non avrebbe potuto essere trovato nessun altro sollievo».
In questa temperie culturale è naturale che anche Sallustio si giustifichi per il fatto di dedicarsi all’ozio.
De Catilinae coniuratione.
[III] 1 Sed in magna copia rerum aliud alii natura iter ostendit. Pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est; vel pace vel bello clarum fieri licet; et qui fecere et qui facta aliorum scripsere, multi laudantur.
«Ma in una grande abbondanza di attività la natura mostra a uno una strada a un altro un’altra strada. È bello agire bene per lo stato, anche dirne bene non è assurdo; vuoi in pace vuoi in guerra è possibile diventare famosi; sia coloro che hanno agito sia coloro che hanno scritto le azioni degli altri, in molti sono lodati».
2 Ac mihi quidem, tametsi haudquaquam par gloria sequitur scriptorem et actorem rerum, tamen in primis arduum videtur res gestas scribere: primum, quod facta dictis exaequanda sunt; dehinc, quia plerique, quae delicta reprehenderis, malevolentia et invidia dicta putant, ubi de magna virtute atque gloria bonorum memores, quae sibi quisque facilia factu putat, aequo animo accipit, supra ea veluti ficta pro falsis ducit.
«E sebbene una gloria in nessun modo pari segue lo scrittore e l’autore della storia, tuttavia mi sembra particolarmente arduo scrivere le imprese: innanzitutto poiché le parole devono essere adeguate ai fatti; poi perché i più considerano dettati da malignità e invidia le colpe che si possono rimproverare; quando invece si fa menzione della grande virtù e gloria dei valorosi, le cose che ciascuno ritiene facili a farsi da parte sua, le accetta con animo sereno, quelle superiori le considera false, come inventate».
– facta dictis exaequanda: stesso concetto in Isocrate, Panegirico, XIII: χαλεπόν ἐστιν ἴσους τοὺς λόγους τῷ μεγέθει τῶν ἔργων ἐξευρεῖν, «è difficile trovare le parole adeguate alla grandezza dei fatti».
– plerique … ducit: Il passo è ispirato al λόγος ἐπιτάφιος di Tucidide, II, 35, 2: χαλεπὸν γὰρ τὸ μετρίως εἰπεῖν ἐν ᾧ μόλις καὶ ἡ δόκησις τῆς ἀληθείας βεβαιοῦται. ὅ τε γὰρ ξυνειδὼς καὶ εὔνους ἀκροατὴς τάχ' ἄν τι ἐνδεεστέρως πρὸς ἃ βούλεταί τε καὶ ἐπίσταται νομίσειε δηλοῦσθαι, ὅ τε ἄπειρος ἔστιν ἃ καὶ πλεονάζεσθαι, διὰ φθόνον, εἴ τι ὑπὲρ τὴν αὑτοῦ φύσιν ἀκούοι. μέχρι γὰρ τοῦδε ἀνεκτοὶ οἱ ἔπαινοί εἰσι περὶ ἑτέρων λεγόμενοι, ἐς ὅσον ἂν καὶ αὐτὸς ἕκαστος οἴηται ἱκανὸς εἶναι δρᾶσαί τι ὧν ἤκουσεν· τῷ δὲ ὑπερβάλλοντι αὐτῶν φθονοῦντες ἤδη καὶ ἀπιστοῦσιν, «È difficile infatti parlare con la giusta misura in una situazione in cui a stento viene confermata la presunzione della verità. Infatti l’ascoltatore consapevole e benevolo potrebbe forse pensare che qualche aspetto sia illustrato in modo piuttosto carente rispetto a ciò che vuole e sa, e quello inesperto, per invidia, che ce ne siano alcuni anche esagerati, se sente qualcosa di al di sopra della propria natura. Fino a questo punto infatti sono tollerabili le lodi pronunciate su altri, nella misura in cui ciascuno pensa di essere capace egli stesso di fare qualcuna delle cose che ha sentito dire; quanto invece a ciò che eccede le proprie capacità provando subito invidia neanche vi credono».
[IV] 1 Igitur ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi reliquam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere neque vero agrum colundo aut venando servilibus officiis, intentum aetatem agere;
«Dunque, quando l’animo trovò pace in seguito alle molte miserie e pericoli e decisi che dovevo tenere il resto della vita lontano dalla politica, il proposito non fu di consumare un tempo libero prezioso nell’indolenza e nella pigrizia, né del resto di passare la vita dedicandomi a coltivare la terra o cacciare, occupazioni da schiavi».
– a re publica procul: l’allontanamento dalla politica non fu, con tutta probabilità, una scelta per Sallustio, ma una necessità imposta, come era stato anche per Cicerone
2 sed, a quo incepto studioque me ambitio mala detinuerat, eodem regressus statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere, eo magis, quod mihi a spe, metu, partibus rei publicae animus liber erat.
«Invece ritornato a quel medesimo progetto e a quella medesima passione da cui mi aveva distolto una cattiva ambizione, stabilii di mettere per iscritto le imprese del popolo romano per episodi, a seconda di come ciascuna mi sembrava degna di memoria; tanto più per il fatto che l’animo era libero dalla speranza, dalla paura, dalle fazioni politiche».
Infine sentiamo Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Aforismi sulla saggezza della vita:
capitolo secondo
La gente comune si preoccupa unicamente di passare il tempo; chi ha un qualche talento pensa invece a utilizzarlo… In tutti i paesi l’attività principale di ogni società è sempre stata il gioco delle carte: esso è la misura del valore di tale società, e la bancarotta dichiarata di tutti i pensieri. Dal momento che non hanno alcun pensiero da scambiarsi, essi si scambiano delle carte…
Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura» (Seneca, Ep., 82, 3).
È stato infatti sostenuto abbastanza spesso, e non senza verosimiglianza, che l’uomo spiritualmente limitato è in fondo il più felice… Sofocle si è espresso al riguardo in due modi diametralmente opposti:
πολλῷ τὸ φρονεῖν εὐδαιμονίας πρῶτον ὑπάρχει
Sapere longe prima felicitatis pars est
Antig., 1323
e d’altro canto
ἐν τῷ φρονεῖν γὰρ μηδὲν ἥδιστος βίος
Nihil cogitantium iucundissima vita est
Aiax. 550
L’uomo privo di ogni bisogno spirituale è per l’appunto… con un’espressione… in origine tratta dalla vita studentesca… un filisteo. Costui è e rimane cioè l’ἄμουσος ἀνήρ… Costui è dunque un uomo senza bisogni spirituali… Nessun impulso alla conoscenza e alla comprensione, come fini a sé, e neppure nessun impulso verso godimenti propriamente estetici… Egli si sobbarcherà tuttavia, come una specie di lavoro forzato… quelli tra i godimenti di tale specie che gli sono imposti dalla moda o dall’autorità. Per lui i veri piaceri sono soltanto quelli sessuali, ed egli si rivale con questi. Di conseguenza le ostriche e lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisca al suo benessere materiale…
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