Tentativo di autocritica
1
Nietzsche rievoca il tempo in cui il libro, da lui definito problematico, nacque, «nonostante il quale esso nacque», cioè la guerra franco-tedesca del 1870-71: sicuramente doveva esservi alla base una questione fondamentale e affascinante. In quei mesi aveva riflettuto senza riuscire a darsi una risposta sulla «pretesa “serenità” dei Greci e dell’arte greca», finché alla fine della guerra prende corpo il progetto del libro.
La specie di uomini finora meglio riuscita, più bella, più invidiata, più seduttrice verso la vita, i Greci – come? Proprio essi ebbero bisogno della tragedia? Ancor più, dell'arte? – A che scopo, l'arte greca?…
Dunque il problema posto era se il pessimismo fosse necessariamente un sintomo di decadenza e se invece non esista un pessimismo della forza, un’inclinazione intellettuale per ciò che nella vita è duro.
Che cosa significa, proprio presso i Greci dell'epoca migliore, più forte, più valorosa, il mito tragico? E l’enorme fenomeno del dionisiaco? Che cosa significa la tragedia, nata da esso? – E d'altra parte ciò per cui la tragedia morì, il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell'uomo teoretico – ebbene, non potrebbe essere proprio questo socratismo un segno di declino?… E la «serenità greca» della grecità posteriore non potrebbe essere solo un tramonto? La volontà epicurea contro il pessimismo, solo la cautela di un sofferente?… Forse la scientificità è solo una paura e una scappatoia di fronte al pessimismo? Una sottile legittima difesa contro – la verità?
Una prima novità è dunque la critica alla concezione del modo greco che troviamo già in Winckelmann e che era diffusa tra gli studiosi tedeschi dell’Ottocento. Famose sono queste parole di Winckelmann in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca:
Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell'espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata.
Per quanto riguarda l’ambiente accademico tale impostazione emerge da una lettera di Rhode a Nietzsche del 22 aprile 1871:
Come detesto tutta questa penosa sapienza di Gottinga riguardante «la serenità dell'autentica grecità»! Dioniso ha avuto un influsso altrettanto profondo dell'illuminato Apollo che questa infausta genia di professori vede dappertutto!
Un altro elemento importante e nuovo è il ribaltamento di prospettiva per cui quello che anche noi consideriamo il periodo aureo della grecità, ossia l’età di Pericle, è invece considerato il principio della decadenza. Il concetto si ritrova poi in Umano, troppo umano I, 474:
Temuto dallo stato lo sviluppo dello spirito. La cultura si sviluppò nonostante la polis... Contro ciò non bisogna appellarsi al panegirico di Pericle: perché esso è solo una grande e ottimistica fantasia sulla pretesa necessaria connessione fra polis e cultura ateniese; Tucidide, immediatamente prima che la notte scenda su Atene (la peste e la rottura della tradizione), la fa brillare ancora una volta come uno sfolgorante tramonto, destinato a far dimenticare la brutta giornata che lo ha preceduto.
2
Il problema che gli si era affacciato era «un problema con le corna, non proprio necessariamente un toro» (Allusione molto probabile all’impulso dionisiaco, per l’identificazione di Dioniso con il toro. Vedi, per esempio la parodo delle Baccanti di Euripide – v. 100 – dove il dio è definito ταυρόκερων θεὸν, «dio dalle corna di toro») ma un problema nuovo cioè il «problema della scienza». Senonché ne è uscito un libro impossibile per l’inesperienza unita all’entusiasmo giovanili, per la prolissità da Sturm und Drang, e però rivendica di essere piaciuto «ai migliori del suo tempo», citando il prologo del Wallenstaein di Shiller: «Giacché colui che ha fatto abbastanza per i migliori del suo tempo, è vissuto per tutti i tempi». Anche Orazio rivendica tale prerogativa (Epistulae, I, XX, 20-23):
Me libertino natum patre et in tenui re
maiores pennas nido extendisse loqueris,
ut quantum generi demas virtutibus addas;
me primis Vrbis belli placuisse domique.
«Dirai che io, nato da padre libertino e in una modesta / condizione ho aperto ali più grandi del nido, / così da aggiungere alle virtù quanto puoi togliere alla nascita; / che io sono piaciuto ai primi della città in guerra e in pace».
Tuttavia Nietzsche non vuole nascondersi quanto il libro risulti spiacevole ed estraneo dopo sedici anni ai suoi occhi, per i quali però non è divenuto estraneo il compito che si era posto: vedere la scienza con l'ottica dell'artista e l'arte invece con quella della vita…
3
Dunque il libro risulta «impossibile» a posteriori, in quanto «molto convinto e perciò dispensato dal dimostrare… per iniziati… fin dall'inizio si isola dal profanum vulgus delle “persone colte” ancor più che dal “popolo”…».
È l’incipit dell’ode I, 1 di Orazio odi profanum vulgus et arceo, «odio il volgo profano e me ne tengo lontano».
Quindi si rammarica del modo in cui ha comunicato le sue idee:
Avrebbe dovuto cantare, quest’«anima nuova» – e non parlare! Che peccato che io, ciò che allora avevo da dire, non abbiamo osato dirlo da poeta: forse lo avrei potuto! O almeno da filologo.
Tuttavia rimane molto da scoprire in questo campo per il filologo, soprattutto un problema, in cosa consista il dionisiaco, senza risolvere il quale la grecità non solo rimane sconosciuta ma addirittura inimmaginabile.
4
Dunque che cosa è dionisiaco?
Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il suo grado di sensibilità,… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che proprio questo fosse vero – e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre – da che cosa discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà di pessimismo nel Greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il terribile, il malvagio, l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all’esistenza, – da che cosa discenderebbe allora la tragedia?
Qui Nietzsche allude al λόγος ἐπιτάφιος pronunciato da Pericle e riportato da Tucidide (II, 35-46); in particolare
φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ᾽ εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας
«amiamo il bello con semplicità e la cultura senza mollezza» (40, 1)
Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῇ γνώμῃ ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις [2] τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει.
Sullo spirito agonistico dei Greci riflette così Nietzsche (Umano, troppo umano, II, Parte seconda, Il viandante e la sua ombra): «226. Saggezza dei Greci. Poiché il voler vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni stima e gioia di uguaglianza, lo Stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioè delimitato un'arena dove quell'impulso doveva scaricarsi senza mettere in pericolo l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo Stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna.
Sulla festa come tratto distintivo del mondo pagano: Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, trad. it. Alelphi, Milano, 10 [165]: «le feste. Bisogna essere molto grossolani per non sentire la presenza di cristiani e di valori cristiani come un’oppressione, sotto la quale ogni vera atmosfera di festa se ne va al diavolo. Nella festa è compreso: orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione animale – tutti stati d'animo a cui il cristiano non può onestamente dire di sì.
La festa è paganesimo par excellence».
Ancora Nietzsche in Umano, troppo umano, II, Opinioni e sentenze diverse: «187. Il mondo antico e la gioia. Gli uomini del mondo antico sapevano gioire meglio; noi sappiamo rattristarci meno; quelli riuscivano a trovare sempre nuovi motivi di sentirsi bene e di celebrare feste, impegnando tutta la loro ricchezza di acume e di riflessione, mentre noi rivolgiamo il nostro spirito all’adempimento di compiti che mirano piuttosto alla liberazione dal dolore, all’eliminazione delle cause di dispiacere. Quanto alle sofferenze dell’esistenza, gli antichi cercavano di dimenticare, o di piegare in qualche modo il sentimento verso il piacevole; sicché a ciò essi cercavano di ovviare con palliativi, mentre noi affrontiamo le cause del soffrire e nel complesso preferiamo agire in senso profilattico. Forse noi stiamo costruendo solo le fondamenta, su cui uomini futuri costruiranno di nuovo anche il tempio della gioia».
4
Dunque che cosa è dionisiaco?
Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il suo grado di sensibilità,… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che proprio questo fosse vero – e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre – da che cosa discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà di pessimismo nel Greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il terribile, il malvagio, l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all’esistenza, – da che cosa discenderebbe allora la tragedia?
Qui Nietzsche allude al λόγος ἐπιτάφιος pronunciato da Pericle e riportato da Tucidide (II, 35-46); in particolare
φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ᾽ εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας
«amiamo il bello con semplicità e la cultura senza mollezza» (40, 1)
Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῇ γνώμῃ ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις [2] τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει.
Sullo spirito agonistico dei Greci riflette così Nietzsche (Umano, troppo umano, II, Parte seconda, Il viandante e la sua ombra): «226. Saggezza dei Greci. Poiché il voler vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni stima e gioia di uguaglianza, lo Stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioè delimitato un'arena dove quell'impulso doveva scaricarsi senza mettere in pericolo l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo Stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna.
Sulla festa come tratto distintivo del mondo pagano: Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, trad. it. Alelphi, Milano, 10 [165]: «le feste. Bisogna essere molto grossolani per non sentire la presenza di cristiani e di valori cristiani come un’oppressione, sotto la quale ogni vera atmosfera di festa se ne va al diavolo. Nella festa è compreso: orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione animale – tutti stati d'animo a cui il cristiano non può onestamente dire di sì.
La festa è paganesimo par excellence».
Ancora Nietzsche in Umano, troppo umano, II, Opinioni e sentenze diverse: «187. Il mondo antico e la gioia. Gli uomini del mondo antico sapevano gioire meglio; noi sappiamo rattristarci meno; quelli riuscivano a trovare sempre nuovi motivi di sentirsi bene e di celebrare feste, impegnando tutta la loro ricchezza di acume e di riflessione, mentre noi rivolgiamo il nostro spirito all’adempimento di compiti che mirano piuttosto alla liberazione dal dolore, all’eliminazione delle cause di dispiacere. Quanto alle sofferenze dell’esistenza, gli antichi cercavano di dimenticare, o di piegare in qualche modo il sentimento verso il piacevole; sicché a ciò essi cercavano di ovviare con palliativi, mentre noi affrontiamo le cause del soffrire e nel complesso preferiamo agire in senso profilattico. Forse noi stiamo costruendo solo le fondamenta, su cui uomini futuri costruiranno di nuovo anche il tempio della gioia».
Il paragrafo si chiude in un crescendo di domande:
Che cosa indica la sintesi di dio e capro nel satiro?[...] L'origine del coro tragico[...] se fu proprio la follia, per usare un'espressione di Platone, a portare sulla Grecia le maggiori benedizioni; e se[...] proprio ai tempi della loro dissoluzione e debolezza, i Greci si fecero sempre più ottimistici[...] non potrebbe essere forse la vittoria dell’ottimismo, il predominio della razionalità, l’utilitarismo pratico e teorico, come la democrazia stessa, di cui esso è contemporaneo, un sintomo di forza declinante?[...] Fu Epicuro un ottimista – proprio in quanto sofferente? – […] Che cosa significa, vista secondo la prospettiva della vita, la morale?
L’allusione a Platone trova riscontro nel Fedro, 244a:
νῦν δὲ τὰ μέγιστα τῶν ἀγαθῶν ἡμῖν γίγνεται διὰ μανίας, θείᾳ μέντοι δόσει διδομένης,
«ora i più grandi tra i beni esistono per noi grazie alla follia, concessa certamente per dono divino».
Si tratta del secondo discorso di Socrate sull’amore che inizia appunto contestando, con la frase citata, chi critica l’amore perché proprio di chi delira. Il concetto si trova anche in Aurora, I, 14:
Significato della follia nella storia della moralità. […] quasi ovunque è la follia che ha aperto la strada al nuovo pensiero, che ha infranto il potere di una venerabile consuetudine e di una superstizione. […] Mentre oggi risulta ancora una volta immediatamente constatabile che invece di un granello di sale è dato al genio un granello drogato di follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque esista follia, esiste anche un granello di genio e di saggezza – qualcosa di «divino», come ci si andava bisbigliando all'orecchio. O piuttosto, come si andava esprimendo con discreta energia. «Mercé la follia i più grandi beni sono venuti alla Grecia», diceva Platone con tutta l'antica umanità.
Quanto all’ottimismo di Epicuro Nietzsche argomenta in modo più disteso in La gaia scienza, V, 370:
Ogni arte, ogni filosofia possono essere considerate come un mezzo di cura e d’aiuto al servizio della vita che cresce e che lotta: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma vi sono due specie di sofferenti: quelli che soffrono della sovrabbondanza della vita, i quali, dunque, vogliono un’arte dionisiaca e quindi una visione e una conoscenza tragica della vita – e quelli che soffrono dell’impoverimento della vita, i quali cercano riposo, quiete, placido mare, liberazione da se stessi attraverso l’arte e la conoscenza, ovvero l’ebbrezza, lo spasimo, lo stordimento, la follia. […] Colui che è più ricco di pienezza vitale, il dio e l’uomo dionisiaco, non solo può concedersi lo spettacolo dell’orrore e della precarietà, ma perfino l’azione terribile e ogni lusso di distruzione, di dissolvimento, di negazione; in lui malvagità, assurdità, deformità appaiono in un certo senso permesse in conseguenza di uno straripamento di forze generatrici e fecondanti che può fare di ogni deserto una contrada fertile e ubertosa. Mentre invece il più sofferente, il più depauperato di vita avrebbe soprattutto bisogno di dolcezza, di mansuetudine, di bontà nel pensiero e nell'azione, possibilmente di un dio che fosse veramente un dio di malati, un «salvatore»; gli sarebbe quindi necessaria anche la logica, la comprensibilità concettuale dell’esistenza - è la logica, infatti, a racquietare, a dar fiducia – insomma una certa calda ristrettezza che fugasse ogni paura e un rinserrarsi in ottimistici orizzonti. In tal modo appresi a poco a poco a comprendere Epicuro, l’antitesi di un pessimismo dionisiaco, e parimenti il «cristiano», che in realtà è soltanto una specie d’epicureo e al pari di quello è costituzionalmente romantico.
5
Nel libro poi ritorna più volte l'allusiva frase che solo come fenomeno estetico l'esistenza del mondo è giustificata[...] Tutto il libro vede soltanto un senso e un senso recondito d'artista, – un «Dio», se si vuole, ma certo solo un Dio-artista assolutamente noncurante e immorale, che nel costruire come nel distruggere, nel bene come nel male, vuole sperimentare un uguale piacere e dispotismo, e che, creando mondi, si libera dall'oppressione della pienezza e dalla sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compressi. Il mondo è in ogni momento la raggiunta liberazione di Dio.
Nella concezione metafisica dell’arte l’elemento essenziale è che anticipa quello che sarà la tendenza degli anni successivi, cioè il contrasto alla concezione morale dell’esistenza.
Segno della tendenza antimorale è il «silenzio cauto e ostile con cui in tutto il libro è trattato il cristianesimo» il quale nel suo voler essere solo morale condanna l’arte in quanto menzogna; in questo modo di pensare si manifesta «l'ostilità alla vita [...] nausea e sazietà che la vita ha della vita [...] L'odio contro il “mondo”, la maledizione delle passioni, la paura della bellezza e della sensualità, un al di là inventato per meglio calunniare l'al di qua [...] una “volontà di morte” [...] giacché di fronte alla morale [...] la vita deve avere costantemente e inevitabilmente torto».
Ecco perché il suo istinto si è volto contro la morale, elaborando una controdottrina in chiave estetica, chiamandola, da filologo e uomo di parole, con il nome di un dio greco: dionisiaca.
Per quanto riguarda la condanna delle passioni e in particolare dell’amore così Nietzsche si esprime in Al di là del bene e del male, Prefazione:
Il cristianesimo è un platonismo per il «popolo».
E più avanti (capitolo quarto, 168):
Il cristianesimo dette da bere a Eros del veleno – costui in verità non ne morì, ma degenerò in vizio.
L’attribuzione al cristianesimo di un sentimento contrario alla vita non è originale di Nietzsche, perché lo troviamo già in Tacito, Annales, XV, 44; in seguito all’incendio che si scatenò a Roma nel 64 sotto il principato di Nerone, le accuse ricadono sui cristiani, con questa chiosa dello storiografo:
igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt.
«dunque dapprima furono arrestati coloro che si professavano (cristiani), poi su denuncia di quelli, in grande quantità furono condannati non meno per l'accusa di incendio che per odio del genere umano».
6
Quindi esprime il suo rammarico per aver usato formule schopenhaueriane e kantiane per esprimere concetti nuovi radicalmente in contrasto con lo spirito di Kant e di Schopenhauer.
Riporto due ampi passi, in aggiunta a quello citato da Nietzsche (il passo è sottolineato), in cui Schopenhauer esprime bene il suo pensiero sulla tragedia; Il mondo come volontà e rappresentazione, III, 51:
Come vetta dell’arte poetica […] deve essere considerata, e come tale è riconosciuta, la tragedia. […] la raffigurazione del lato spaventoso della vita […] una significativa allusione alla condizione del mondo e dell'esistenza. È il contrasto della volontà con se stessa che qui, nel grado più alto della sua oggettità, ove si dispiega in tutta la sua pienezza, si presenta sotto spoglie spaventose. Esso si rende visibile nelle sofferenze dell’umanità, prodotte in parte dal caso e dall'errore, che si presentano come le dominatrici del mondo e che, per la loro perfidia, che si spinge sino al punto di avere l'apparenza dell'intenzionalità, vengono personificate nella figura del Destino; […] Una sola e la stessa è la volontà che dappertutto vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni fenomeniche si combattono l'una con l'altra e si dilaniano a vicenda. In questo individuo essa si mostra potente, in quell'altro più debole, qui più, là meno in accordo con la riflessione e attenuata dalla luce della conoscenza, sino a che in qualcuno questa conoscenza, purificata ed elevata dal dolore stesso, giunge sino al punto in cui il fenomeno, il velo di Maya, non la inganna piú, e vede con chiarezza attraverso la forma del fenomeno, attraverso il principium individuationis, ed è proprio a questo punto che si estingue l'egoismo che su di esso si fondava, così che i motivi, sinora così potenti, perdono la loro forza, e al loro posto la compiuta conoscenza dell'essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, produce la rassegnazione, la rinuncia non semplicemente alla vita, quanto piuttosto alla volontà di vivere nella sua interezza. Così vediamo nella tragedia le figure più nobili rinunciare infine per sempre, dopo un lungo combattere e soffrire, agli scopi che sino a quel momento avevano perseguito con tanto accanimento e a tutte le gioie della vita, o abbandonare la vita stessa volontariamente e con gioia […] Al contrario, l’esigenza della cosiddetta giustizia poetica si basa sul completo fraintendimento dell'essenza della tragedia, anzi dell’essenza stessa del mondo. […] Il vero senso della tragedia è la comprensione, ben più profonda, che l'eroe non espia i propri peccati personali, bensì il peccato originale, ossia la colpa in cui consiste l'esistenza stessa:
Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido.
(Poiché la più grave colpa dell’uomo
è quella di essere nato).
Il secondo passo è tratto dai Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, III, 37:
Il piacere che ci dà la rappresentazione tragica non appartiene al sentimento del bello, bensì a quello del sublime; anzi, è il grado più elevato di quel sentimento. Giacché, come noi alla vista del sublime nella natura ci distogliamo dall’interesse della volontà per assumere un atteggiamento puramente contemplativo, così di fronte alla catastrofe tragica ci distogliamo dalla volontà di vivere come tale. Nella rappresentazione tragica ci vengono infatti presentati il lato terribile della vita, la miseria dell’umanità, il dominio del caso e dell’errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio: ci vengono dunque messi davanti agli occhi quegli aspetti del mondo che sono in diretto contrasto con la nostra volontà. A questa vista ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla vita, a non volerla più, a non amarla più. […] Nell'istante della catastrofe tragica si produce in noi, più chiara che mai, la convinzione che la vita è un brutto sogno dal quale ci dobbiamo svegliare. […] Quel che a tutto ciò che è tragico, in qualunque forma si presenti, dà il suo particolare slancio verso il sublime è il cominciare a riconoscere che il mondo, la vita, non sono in grado di dare alcun appagamento autentico, e che quindi non meritano il nostro attaccamento: lo spirito tragico consiste in questo, ed è per questo che esso conduce alla rassegnazione.
Ammetto che nelle rappresentazioni tragiche degli antichi questo spirito di rassegnazione si presenta solo di rado e solo di rado viene espresso direttamente. […] Come l'impassibilità stoica si distingue radicalmente dalla rassegnazione cristiana per il fatto che insegna solo a sopportare serenamente e ad attendere con rassegnazione il male inevitabile e necessario, mentre il cristianesimo insegna a rinunciare e ad abbandonare il volere, allo stesso modo gli eroi tragici dell'antichità si mostrano costantemente sottomessi ai colpi inevitabili del destino, mentre la tragedia cristiana mostra una rinuncia alla volontà di vivere nella sua interezza, un abbandono gioioso del mondo, nella consapevolezza della sua vanità e della sua nullità. Ma io sono anche pienamente convinto che la rappresentazione tragica moderna stia più in alto di quella antica, Shakespeare è molto più grande di Sofocle; a confronto della Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quella di Euripide quasi rozza e volgare. Le Baccanti di Euripide sono un pasticcio indegno a favore dei sacerdoti pagani. Diversi testi teatrali dell’antichità non hanno affatto una tendenza tragica, come l’Alcesti e l’Ifigenia in Tauride di Euripide; alcuni hanno dei motivi repellenti o addirittura ripugnanti, come l’Antigone e il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto il dominio orribile del caso e dell'errore, ma non la rassegnazione che esso produce e che da esso redime. Tutto questo perché gli antichi non erano ancora giunti al vertice e al fine della rappresentazione tragica, anzi, nemmeno della concezione della vita in generale.
Se dunque gli antichi rappresentano poco lo spirito di rassegnazione, l'abbandono della volontà di vivere, come disposizione d'animo dei loro eroi tragici, tuttavia la tendenza e l'effetto peculiari della rappresentazione tragica restano sempre quelli di ridestare quello spirito nello spettatore e di suscitare in lui, anche se solo temporaneamente, quella disposizione d'animo. […] Se la tendenza della rappresentazione tragica non fosse questa elevazione al di sopra di tutti i fini e di tutti i beni della vita; se non fosse questo distogliere da essa e dalle sue seduzioni e quell'indirizzare, che ne consegue, verso un'esistenza di tutt'altro genere, sebbene quest'ultima sia per noi totalmente inconcepibile; se così non fosse, ripeto, come sarebbe allora in generale possibile che la rappresentazione del lato terribile della vita, che ci viene messo davanti agli occhi sotto la luce più viva, possa produrre in noi un effetto benefico e procurarci un godimento elevato? Paura e compassione, suscitare le quali costituisce per Aristotele il fine ultimo della rappresentazione tragica, in se stesse non appartengono veramente alle sensazioni piacevoli: non possono perciò essere scopo, bensì solo mezzo. L’invito a rinunciare alla volontà di vivere resta dunque ciò a cui la rappresentazione tragica tende davvero, il fine ultimo della messa in scena intenzionale dei dolori dell’umanità.
Ma quando scrive questa seconda prefazione Nietzsche si rende conto della distanza che lo separava dal maestro: «oh, quanto diversamente parlava Dioniso a me!». Ma la cosa peggiore è quella «di aver riposto speranze là dove non c'era nulla da sperare […] in un popolo che ama il bere e onora l'oscurità come virtù».
7
In questo ultimo paragrafo c’è l’autocritica più forte, quella di romanticismo, con particolare riferimento a un brano tratto dal capitolo 18 in cui parla della tragedia come arte della consolazione metafisica per una nuova generazione che crescesse intrepida con l’intenzione di rifiutare le dottrine di mollezza dell’ottimismo:
non sarebbe forse necessario che l'uomo tragico di questa civiltà desiderasse, nell'educare se stesso alla serietà e al coraggio, un'arte nuova, l'arte della consolazione metafisica, la tragedia, come l'Elena che a lui spetta?
Ma bisognerebbe «prima imparare l’arte della consolazione dell'al di qua – dovreste imparare a ridere… forse in seguito, come ridenti, un bel giorno manderete al diavolo ogni consolazione metafisica – con la metafisica avanti! O, per parlare il linguaggio di quel demonio dionisiaco che si chiama Zarathustra:
Elevate i vostri cuori, fratelli, in alto, più in alto! E non dimenticatemi le gambe! Alzate anche le vostre gambe, bravi ballerini, e, meglio ancora: reggetevi, sulla testa!
La corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: io stesso ho posto sul mio capo questa corona, io stesso ho santificato la mia risata. Non ho trovato alcun altro abbastanza robusto per farlo.
Zarathustra il danzatore, Zarathustra il lieve, che fa cenno con le ali, uno che è pronto a spiccare il volo e intanto ammicca a tutti gli uccelli, disposto e pronto a volare, beato sulla sua levità: –
Zarathustra che dice, che ride la verità, non un impaziente, non un fanatico, uno che ama i salti e gli scarti; io stesso ho posto questa corona sul mio capo!
Questa corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: a voi, fratelli, getto questa corona! Io ho santificato il riso; uomini superiori, imparatemi – a ridere !».
Con questa autocitazione da Così parlò Zarathustra (parte quarta, Dell’uomo superiore, 17-20 passim) si conclude il tentativo di autocritica che comunque risulta più comprensibile dopo la lettura dell’opera.
A commento del concetto di «arte della consolazione metafisica» a cui contrappone l’arte dell’a consolazione dell’al di qua riporto alcuni passi in cui Nietzsche al filosofo metafisico per eccellenza, Platone, contrappone il realista per eccellenza, Tucidide.
Crepuscolo degli idoli (Quel che devo agli antichi, 2):
Non devo ai Greci assolutamente nessuna impressione di analoga intensità… essi non possono essere per noi quel che sono i Romani… Chi avrebbe mai imparato a scrivere da un greco? Chi lo avrebbe mai imparato senza i Romani? E non mi si opponga Platone… Platone, a quel che mi sembra, sconvolge tutte le forme dello stile, in questo egli è uno dei primi décadents dello stile… Platone è noioso… lo trovo così aberrante da tutti gli istinti fondamentali degli Elleni, così moralizzato, così anticipatamente cristiano… preferirei usare… la dura espressione di «alto ciarlatanismo» o, se è più gradito all’orecchio, di idealismo… Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è stato in ogni tempo, Tucidide. Tucidide, e forse, Il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà – non nella «ragione», e meno ancora nella «morale»… Contro la deplorevole tendenza ad abbellire i Greci, a idealizzarli, che il giovane «educato nei classici» si porta nella vita come ricompensa del suo ammaestramento liceale, non v’è cura così drastica come Tucidide. Lo si deve rivoltare rigo per rigo e decifrare i suoi nascosti pensieri. In lui la cultura dei sofisti, voglio dire la cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile, in mezzo alla frode morale e ideale delle scuole socratiche dilaganti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadance dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà – conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di sé – di conseguenza tiene sotto il suo dominio anche le cose».
In Aurora, 168 si esprime così:
Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male. Al contrario, egli vede nell'intimo di tutte le cose e di tutte le persone qualcosa di grande e lo vede in aggiunta ad esse, in quanto rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col nome dei suoi maestri, i Sofisti». Più avanti: «Onorare la realtà. Così Platone rifuggì dalla realtà e volle contemplare le cose solo nelle esangui immagini del pensiero; egli era tutto senso e sapeva con quale facilità i marosi del senso seppellivano la sua ragione».
Di Tucidide Nietzsche apprezza particolarmente anche lo stile, accostato a quello di Tacito (Umano, troppo umano II, Il viandante e la sua ombra, 144):
Lo stile dell'immortalità. Tanto Tucidide quanto Tacito – entrambi hanno pensato, nel redigere le loro opere, a una durata immortale di esse: lo si potrebbe indovinare, se non lo si sapesse altrimenti, già dal loro stile. L'uno credette di dare durevolezza ai suoi pensieri salandoli, l'altro condensandoli a forza di cuocerli; e nessuno dei due, sembra, ha fatto male i suoi conti».
Allo stesso tempo però a Platone è riconosciuta da Nietzsche nobiltà di pensiero perché il suo approccio razionale lo distingue dall’«intruglio plebeo»1 ostile alla ragione, quello degli uomini che sono veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit, «come le bestie, che la natura ha plasmato prone e obbedienti al ventre» (Sallustio, Bellum Catilinae, 1):
In cinque o sei cervelli comincia forse oggi ad albeggiare il pensiero che anche la fisica sia soltanto una interpretazione del mondo e un ordine imposto ad esso (secondo il nostro modo di vedere! – con licenza parlando) e non già una spiegazione del mondo: ma in quanto la fisica si fonda sulla fede nei sensi, essa vale come qualcosa di più e a lungo andare deve acquistare ancora maggior valore, cioè deve valere come spiegazione. Essa ha, dalla sua, la testimonianza degli occhi e delle dita [...] e ciò esercita su un’età dal fondamentale gusto plebeo l’effetto di un incantesimo [...] Viceversa, proprio nel recalcitrare all’evidenza sensibile consisteva l’incantesimo del modo platonico di pensare, il quale era un modo di pensare aristocratico [...] la plebaglia dei sensi, come diceva Platone (Al di là del bene e del male, Dei pregiudizi dei filosofi, 14).
Il passo a cui si riferisce si trova in Leggi, 689a-b: ταύτην τὴν διαφωνίαν λύπης τε καὶ ἡδονῆς πρὸς τὴν κατὰ λόγον δόξαν ἀμαθίαν φημὶ εἶναι τὴν ἐσχάτην, μεγίστην δέ, ὅτι τοῦ πλήθους ἐστὶ τῆς ψυχῆς· [b] τὸ γὰρ λυπούμενον καὶ ἡδόμενον αὐτῆς ὅπερ δῆμός τε καὶ πλῆθος πόλεώς ἐστιν, «questa dissonanza di dolore e piacere in relazione all’opinione secondo ragione io la dico ignoranza estrema e grandissima, in quanto è della maggior parte dell’anima; infatti la parte che soffre e prova piacere è, di essa, ciò che popolo e massa sono della città».
Nietzsche individua in Socrate l’origine plebea della filosofia platonica, in seguito nobilitata dal discepolo:
V’è qualcosa della morale platonica, che non appartiene propriamente a Platone, ma che pure si trova nella sua filosofia, si potrebbe dire, malgrado Platone stesso: vale a dire il socratismo, per cui egli era veramente troppo aristocratico. «Nessuno vuol fare del male a se stesso, perciò ogni azione cattiva è involontaria. Il malvagio, infatti, cagiona del male a se stesso: non lo farebbe se sapesse che il male è male. Conseguentemente il malvagio è cattivo soltanto per un suo errore: se lo si libera da questo errore, lo si rende necessariamente buono». Questo tipo di conclusione odora di plebaglia, la quale in colui che agisce con malvagità vede soltanto le conseguenze dolorose [...] Platone non ha lesinato i suoi sforzi per interpretare il principio del suo maestro in modo da trovarci dentro qualcosa di raffinato e di aristocratico, soprattutto se stesso (Al di là del bene e del male, Per la storia naturale della morale, 190).
1 Nietzsche, Così parlo Zarathustra, Parte quarta, Colloquio con i re, 1: «Davvero, è meglio vivere in mezzo a eremiti e caprai che insieme alla nostra plebe dorata falsa imbellettata, - anche se si chiama ‘buona società’, - anche se si chiama ‘nobiltà’ […] Un contadino sano, rozzo, astuto, testardo, tenace rimane, oggi, per me ancora il migliore e il preferito degli uomini: questa è, oggi, la specie più nobile. Il contadino, oggi, è il migliore; e la specie contadina dovrebbe dominare! Ma è il regno della plebe, – non mi lascio più ingannare. Plebe, però, vuol dire: intruglio. Intruglio plebeo: lì è tutto mescolato alla rinfusa».
Nessun commento:
Posta un commento