martedì 28 gennaio 2025

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 5

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Capitolo 5

L’io lirico

Il capitolo è un po’ ostico e molto astratto, ma si può sintetizzare così l’idea di fondo: affinché il lirico che dice «io» e parla di sé possa avere dignità artistica, bisogna che si sia fuso con l’universale e quindi pur parlando di sé parli in termini universali, cioè di tutti. Ora lo vediamo analiticamente.

Bisogna chiederci dove possiamo osservare per la prima volta il germe di quello che saranno la tragedia e il ditirambi drammatico. Gli antichi non hanno dubbi nel mettere uno accanto all’altro come progenitori e tedofori della poesia greca Omero e Archiloco.

Omero, il vecchio sognatore sprofondato in sé, il tipo dell'artista apollineo, ingenuo, guarda ora stupito la testa appassionata di Archiloco, il battagliero servitore delle Muse.

Εἰμὶ δ’ἐγὼ θεράπων μὲν Ἐνυαλίοιο ἄνακτος

καὶ Μουσέων ἐρατὸν δῶρον ἐπιστάμενος.

«Io sono servitore del signore Enialio / e conosco l’amabile dono delle Muse».

L’estetica moderna ha saputo aggiungere solo la contrapposizione tra oggettività epica e soggettività lirica. A Nietzsche non basta perché dall’arte esige soprattutto il superamento del soggettivo, la pura e disinteressata contemplazione: dunque bisogna risolvere il problema di come la lirica possa essere arte. Illuminante è un’osservazione di Shiller a proposito del suo processo poetico, per cui a ispirarlo non è l’immaginazione con una serie di pensieri logicamente consequenziali, ma una disposizione musicale; queste le parole citate:

«Da principio il sentimento è in me senza oggetto determinato e chiaro; quest’ultimo si forma solo più tardi. Precede una certa disposizione d’animo musicale, e solo a questa segue in me l’idea poetica» […] Aggiungiamo… il fenomeno più importante di tutta la lirica antica, l’unione, anzi l’identità… del lirico con il musicista – in confronto alla quale la nostra lirica moderna appare come il simulacro di un dio senza testa.

Ora possiamo spiegarci il lirico: come artista dionisiaco si è fuso con l’uno originario e ne forma l’esemplare come musica, che in seguito gli ridiventa visibile, sotto l’influsso apollineo, come un’immagine di sogno simbolica.

L’artista ha già annullato la sua soggettività nel processo dionisiaco: l’immagine che ora la sua unità col cuore del mondo gli mostra è una scena di sogno, che dà una figura sensibile a quella contraddizione e a quel dolore originari, oltreché alla gioia originaria dell’illusione. L’«io» del lirico risuona dunque dall’abisso dell’essere: la sua «soggettività» nel senso dell’estetica moderna è un’immaginazione.

Dunque nelle prime liriche non danzano davanti a noi le passioni di Archiloco ma Dioniso e le Menadi.

vediamo l'invasato, inebriato Archiloco sprofondato nel sonno (il sonno come è descritto da Euripide nelle Baccanti, il sonno sugli alti pascoli alpestri, nel sole di mezzogiorno1) ed ecco che Apollo gli si accosta e lo tocca con l’alloro.

Qui Nietzsche allude prima al fr. 120 West2:

ὡς Διωνύσου ἄνακτος καλὸν ἐξάρξαι μέλος

οἶδα διθύραμβον οἴνῳ συγκεραυνωθεὶς φρένας.

«Poiché il bel canto del signore Dioniso so intonate / il ditirambo, quando sono quando sono fulminato dal vine nella mente»,

poi alle Baccanti di Euripide, il discorso del primo messaggero2 (vv. 677-689):

ἀγελαῖα μὲν βοσκήματ' ἄρτι πρὸς λέπας

μόσχων ὑπεξήκριζον, ἡνίχ' ἥλιος

ἀκτῖνας ἐξίησι θερμαίνων χθόνα.

ὁρῶ δὲ θιάσους τρεῖς γυναικείων χορῶν, 680

ὧν ἦρχ' ἑνὸς μὲν Αὐτονόη, τοῦ δευτέρου

μήτηρ Ἀγαυὴ σή, τρίτου δ' Ἰνὼ χοροῦ.

ηὗδον δὲ πᾶσαι σώμασιν παρειμέναι,

αἱ μὲν πρὸς ἐλάτης νῶτ' ἐρείσασαι φόβην,

αἱ δ' ἐν δρυὸς φύλλοισι πρὸς πέδῳ κάρα 685

εἰκῇ βαλοῦσαι σωφρόνως, οὐχ ὡς σὺ φῂς

ᾠνωμένας κρατῆρι καὶ λωτοῦ ψόφῳ

θηρᾶν καθ' ὕλην Κύπριν ἠρημωμένας.

«Poco fa scalavo la montagna portando al pascolo / le mandrie dei bovini, quando il sole / emette i raggi riscaldando la terra. / E vedo tre tiasi di cori femminili, / dei quali uno lo guidava Autonoe, il secondo / tua madre Agave, il terzo coro Ino. / Dormivano tutte con i corpi rilassati, / alcune avendo appoggiato la schiena alla chioma di un abete, / altre avendo gettato alla buona il capo a terra / sulle foglie di una quercia, castamente, non come dici tu, / cioè che in preda al vino con una coppa e a suon di flauto / andassero a caccia di Cipride per il bosco, appartate».

Ora l’incantesimo dionisiaco-musicale sprizza del dormiente produce tutte le suo poesie con al vertice tragedia e ditirambo drammatico. L’epico procede solo per immagini, gode nella loro esclusiva contemplazione e dallo specchio dell’illusione è protetto dall’immedesimarsi con esse. Il genio lirico invece nello stato mistico dell’alienazione di sé produce delle immagini che sono lui stesso fuso con l’uno originario ed è per questo che può dire «io» senza essere soggettivo in senso moderno e quindi può penetrare al fondo delle cose.

In verità Archiloco, l’uomo passionalmente acceso, l’uomo che ama e che odia, è solo una visione del genio, che già non è più Archiloco ma genio del mondo, e che esprime simbolicamente in quell’immagine dell’uomo Archiloco il suo dolore primigenio; mentre l’uomo Archiloco che vuole e desidera soggettivamente non potrà mai e poi mai essere poeta.

Dunque sbagliava Schopenhauer a considerare la disposizione lirica come risultante dalla dialettica di soggettivo e oggettivo, volere e contemplare, stato non estetico e stato estetico mescolati insieme. Così infatti la descrive in Mondo come volontà e rappresentazione, III, 51, p. 295:

la specifica essenza della canzone, in senso stretto, è la seguente. - E il soggetto della volontà, ossia il proprio volere, ciò che riempie la coscienza del cantore, spesso come un volere libero, soddisfatto (gioia), ma ancora piú spesso come un volere contrastato (tristezza), sempre come affetto, passione, inquietudine dell'animo. Accanto a ciò, tuttavia, e insieme a ciò, il cantore diventa, alla vista della natura che lo circonda, consapevole di sé come soggetto del puro conoscere libero dalla volontà, la cui imperturbabile, beata tranquillità si trova ora in contrasto con la spinta impetuosa del volere sempre limitato, sempre bisognoso: è propriamente il sentimento di questo contrasto, di questo alterno gioco, che trova espressione nell'insieme della canzone e che costituisce, in generale, la disposizione lirica. In essa è come se il puro conoscere si avvicinasse a noi per liberarci dal volere e dalla sua spinta impetuosa. Lo seguiamo, ma solo per pochi istanti: sempre di nuovo il volere, la memoria dei nostri scopi personali, ci strappa alla quiete della contemplazione; ma ecco che a strapparci sempre di nuovo dalla volontà è la bellezza dell'ambiente circo-stante, nella quale ci si offre la pura conoscenza priva di volontà. Perciò nella canzone e nella disposizione d'animo lirica si realizza una meravigliosa fusione reciproca tra il volere (l'interesse personale per i propri fini) e la pura intuizione dell'ambiente che ci si presenta: vengono cercate e immaginate delle corrispondenze tra l'uno e l'altra; la disposizione d'animo soggettiva, l' affezione della volontà, comunica i suoi colori sull'ambiente intuito, e quest’ultimo, reciprocamente, comunica ad essa i propri: la canzone autentica reca la traccia di tutto questo stato d’animo così mescolato e contrastante.

Invece l’individuo che vuole egoisticamente non può essere all’origine dell’arte ma può solo esserne l’avversario. Infatti il soggetto che è divenuto artista non è più un soggetto perché si è liberato della propria individualità ed è un medium attraverso cui l’uno originario si libera nell’illusione. La commedia dell’arte della vita non è rappresentata per noi e che non siamo noi i creatori di quel mondo dell’arte: al massimo siamo delle immagini artistiche del vero creatore e trovare la nostra dignità come opere d’arte –

giacché solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati.

Tuttavia noi non abbiamo coscienza di questo nostro significato e quindi anche la nostra conoscenza dell’arte è illusoria perché come soggetti del conoscere, immersi nel principium individuationis, non siamo fusi con l’essere creatore che si gode lo spettacolo della commedia dell’arte.

Solo in quanto nell’atto della creazione artistica il genio si fonde con quell’artista originario del mondo, il primo sa qualcosa dell’essenza eterna dell’arte […] in tal caso egli è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporaneamente poeta, attore e spettatore.


1 Frasi come queste ha stimolato l’arida critica di Wilamowitz (Filologia dell’avvenire! Nietzsche, Rhode, Wilamowitz, Wagner, La polemica sull'arte tragica, Firenze, Sansoni, 1972 (a cura di F. Serpa) pag. 227, nota 1): «il sonno dei pascoli che descrive Euripide nelle Baccanti» (p. 85) – davvero, caro signor N., costui sarebbe il miserabile poeta che Lei ci vuol far credere, se mettesse in versi tali sciocchezze. Ricordi Ella che chi vuole dormire, non si stende al sole del meriggio bensì all’ombra. Rilegga Ba. 677 e 684 e ammetta di non aver compreso il passo».

2 In questo discorso, come nella parodo, viene rappresentato il culto dionisiaco canalizzato, mentre nel discorso del secondo messaggero viene rappresentato la frenesia repressa e dunque esplosa.

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