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(in aggiornamento)
Capitolo 6
Il canto popolare
L’indagine erudita ha stabilito che fu Archiloco a introdurre il canto popolare, da considerare in antitesi all’epos interamente apollineo, come il perpetuum vestigium dell’unione di apollineo e dionisiaco. Questo duplice impulso della natura lascia le sue tracce nel canto popolare come i moti orgiastici di un popolo si eternano nella musica; dunque dobbiamo considerare le correnti dionisiache il sostrato e il presupposto del canto popolare.
Il conto popolare rappresenta per noi prima d’ogni altra cosa uno specchio musicale del mondo, una melodia primordiale, che cerca poi per sé un’apparenza di sogno parallela e la esprime nella poesia. La melodia è dunque l’elemento primario e universale.
La melodia genera da sé la poesia, in forme sempre nuove e diverse: questo è il significato della forma strofica. Per l’epos questo mondo di immagini della lirica, diseguale e irregolare, è da condannare.
Nella lirica il linguaggio imita la musica e con Archiloco comincia una nuova modalità poetica in contrapposizione a quella omerica, per cui la parola, l’immagine, il concetto cercano un’espressione analoga alla musica. Dunque d’ora in poi ci sono due correnti, che con la lingua imitano una il mondo dell’apparenza, l’altra il mondo della musica: per capirne la differenza basta confrontare la lingua di Omero con quella di Pindaro. Qui poi Nietzsche critica la concezione della musica descrittiva prendendo ad esempio Beethoven che designa una sua sinfonia pastorale e un movimento «scena in riva al ruscello», un altro «allegra riunione di contadini», cose che sono rappresentazioni simboliche nate dalla musica, non da essa imitate.
Questo processo per cui la musica si scarica in immagini, noi dobbiamo ora trasferirlo a una comunità popolare giovane e fresca, linguisticamente creativa, per giungere a intuire come nasca il canto popolare strofico e come l'intera facoltà del linguaggio venga eccitata dal nuovo principio dell'imitazione della musica.
Dunque la musica nello specchio delle immagini appare come volontà, intesa in senso schopenhaueriano, dunque in antitesi alla disposizione estetica. Però bisogna distinguere tra essenza e apparenza, perché nella sua essenza la musica non può essere volontà, non sarebbe arte: essa appare come volontà. Il lirico ha bisogno della potenza delle emozioni per trasferire la musica in immagini apollinee e quindi intende la natura e sé in essa come eterno volere; siccome però interpreta con immagini riposa nella tranquillità della contemplazione, sebbene il mondo contemplato mediante la musica turbini vorticosamente: quando vi scorge la sua stessa immagine, essa gli si mostra sotto forma di insoddisfazione perché il suo volere è un simbolo con cui interpreta la musica.
È questo il fenomeno del lirico: come genio apollineo egli interpreta la musica attraverso l'immagine della volontà, mentre egli stesso, completamente staccato dalla brama della volontà, è un puro e imperturbato occhio solare.
Tutta questa discussione si tiene ferma al principio che la lirica è altrettanto dipendente dallo spirito della musica, quanto la musica invece, nella sua assoluta illimitatezza, non ha bisogno dell’immagine e del concetto, ma solo li tollera accanto a sé.
La poesia non può dire nulla che già non sia compreso nella musica, la quale quindi, nel suo simbolismo cosmico (cfr. infra), non può realizzarsi nel linguaggio: essa si riferisce ai contrasti e ai dolori dell’uno originario, la volontà, dunque simboleggia una sfera che è al di sopra di ogni apparenza e anteriore ad ogni esperienza. In altri termine la musica è il simbolo di ciò che è trascendente e trascendentale. Ricavo, come secondo me anche Nietzsche, la spiegazione di questi due termini da Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Frammenti sulla storia della filosofia, 13:
Kant intende con trascendentale anzitutto il riconoscimento dell’a priori, e di ciò che è semplicemente formale nella nostra conoscenza, proprio in quanto tale; cioè il comprendere che siffatta conoscenza è indipendente dall'esperienza, e anzi impone ad essa la regola immutabile, secondo cui deve presentarsi. Tutto ciò è connesso poi alla comprensione del perché tale conoscenza sia questo e possa questo; il perché sta nel fatto che essa costituisce la forma del nostro intelletto, ossia la spiegazione va ricercata nella sua origine soggettiva: di conseguenza soltanto la critica della ragione pura è propriamente trascendentale. In contrapposizione a ciò, egli chiama trascendente l’uso, o piuttosto l’abuso, di quel lato puramente formale della nostra conoscenza, la sua estensione al di là della possibilità dell'esperienza: la stessa cosa è da lui anche designata con il termine «iperfisico». A dirla in breve, trascendentale significa quindi «anteriormente a ogni esperienza», trascendente invece «al di là di ogni esperienza».
Il linguaggio dunque, come organo dell’apparenza, non sarà mai in grado di esprimere l’interiorità della musica, ma rimarrà con essa in un contatto esteriore, malgrado tutta l’eloquenza possibile.
Riporto alcuni passi da Il mondo come volontà e rappresentazione, III, 52, che definiscono la musica come linguaggio universale:
Dopo che abbiamo concluso la nostra trattazione con la tragedia, la quale, al grado più alto di oggettivazione della volontà, ci mette davanti agli occhi con una grandiosità e una chiarezza spaventose proprio quel dissidio della volontà con se stessa; ci accorgiamo che, tuttavia, una delle belle arti è rimasta e doveva rimanere esclusa dalla nostra trattazione, dato che, nell'organizzazione sistematica della nostra esposizione, non c’era alcun luogo adeguato ad essa: si tratta della musica. Essa è completamente separata da tutte le altre arti. Noi non conosciamo in essa la copia, la riproduzione di questa o quella idea degli esseri del mondo; e tuttavia è un’arte così grande ed eccelsa, agisce in modo così potente nella più profonda intimità dell’uomo, e viene perciò compresa da lui in modo così completo e profondo, quasi fosse un linguaggio del tutto universale, capace di superare in chiarezza persino lo stesso mondo dell’intuizione, che certo noi in essa dobbiamo cercare ben più di un «exercitium aritmeticae occultum nescientis se numerare animi», come l'ha definita Leibniz! […] Dal nostro punto di vista, che si rivolge all'effetto estetico, dobbiamo dunque riconoscere alla musica un significato ben più serio e profondo, che concerne la più intima essenza del mondo e di noi stessi. […] L’oggettivazione adeguata della volontà sono le idee (platoniche); suscitare la loro conoscenza (il che è possibile solo con un cambiamento corrispondente nel soggetto conoscente) per mezzo della raffigurazione di singole cose (poiché le opere d’arte stesse sono pur sempre delle cose) è lo scopo di tutte le altre arti. Tutte oggettivano dunque la volontà in modo mediato, ossia per mezzo delle idee; e, dato che il nostro mondo altro non è che la manifestazione fenomenica dell’idea nella molteplicità, resa possibile dall'ingresso nel principium individuationis (la forma della conoscenza che è possibile all’individuo come tale), ne segue che la musica, procedendo oltre le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora. […] La musica è infatti un’oggettivazione, un’immagine della volontà nella sua interezza immediata come il mondo stesso, anzi, come le idee. […] La musica non è dunque in nessun modo, come sono le altre arti, l'immagine delle idee, bensì l’immagine della volontà stessa; […] proprio per questo l'effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello prodotto dalle altre arti: le altre ci parlano soltanto delle ombre, la musica invece dell’essenza delle cose.
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