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(in aggiornamento)
Capitolo 7
La funzione del coro
A questo punto bisogna affrontare il labirinto dell’origine della tragedia greca. La tradizione antica ci dice che è nata dal coro e in origine era solo coro. In effetti così riferisce Aristotele (Poetica, 1449a):
γενομένη δ' οὖν ἀπ' ἀρχῆς αὐτοσχεδιαστικῆς ‑ καὶ αὐτὴ καὶ ἡ κωμῳδία, καὶ ἡ μὲν ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, ἡ δὲ ἀπὸ τῶν τὰ φαλλικὰ ἃ ἔτι καὶ νῦν ἐν πολλαῖς τῶν πόλεων διαμένει νομιζόμενα ‑ κατὰ μικρὸν ηὐξήθη προαγόντων ὅσον ἐγίγνετο φανερὸν αὐτῆς· καὶ πολλὰς μεταβολὰς μεταβαλοῦσα ἡ τραγῳδία ἐπαύσατο, ἐπεὶ ἔσχε τὴν αὑτῆς φύσιν. καὶ τό τε τῶν ὑποκριτῶν πλῆθος ἐξ ἑνὸς εἰς δύο πρῶτος Αἰσχύλος ἤγαγε καὶ τὰ τοῦ χοροῦ ἠλάττωσε καὶ τὸν λόγον πρωταγωνιστεῖν παρεσκεύασεν· τρεῖς δὲ καὶ σκηνογραφίαν Σοφοκλῆς.
«Essendo nata dunque da un principio di improvvisazione – sia questa sia la commedia, e l’una da coloro che intonavano il ditirambo, l’altra dalle processioni falliche che ancora oggi in molte tra le città rimangono in uso – a poco a poco crebbe, sviluppando (i poeti) quanto di essa diveniva manifesto; e dopo aver compiuto molti cambiamenti la tragedia cessò di mutare, quando entrò in possesso della propria natura. E il numero degli attori condusse da uno a due Eschilo per primo e diminuì le parti del coro e dispose la parola a essere protagonista; Sofocle portò gli attori a tre e introdusse la scenografia».
È necessario allora scrutare nel cuore di questo coro e individuarne la funzione. Da rifiutare è sicuramente l’interpretazione politica che vede nel coro una rappresentanza del popolo che incarna lo spirito della democrazia ateniese contro la prepotenza dei re; potrebbe essere dedotta da un’affermazione di Aristotele, ma non ha relazione con l’origine della tragedia. Qui si riferisce forse a Problemata, XIX, 922b dove si legge che gli attori sulla scena sono
ἡρώων μιμηταί· οἱ δὲ ἡγεμόνες τῶν ἀρχαίων μόνοι ἦσαν ἥρωες, οἱ δὲ λαοὶ ἄνθρωποι, ὧν ἐστὶν ὁ χορός,
«sono imitatori di eroi; tra gli antichi solo i capi erano eroi, mentre i popoli erano uomini, di cui è composto il coro».
In ogni caso anche per come lo leggiamo nella forma codificata da eschilo e Sofocle
È una bestemmia il parlare di un presentimento della «rappresentanza costituzionale del popolo».
Molto più famosa la definizione di A. W. Schlegel come «pettatore ideale»:
A. W. Schlegel… ci raccomanda di considerare il coro in certo senso come il compendio e l’estratto della folla degli spettatori, come lo «spettatore ideale»… un’affermazione rozza e non scientifica, ma brillante, che però ha ricevuto il suo splendore solo dalla forma concentrata della sua espressione, dalla prevenzione prettamente germanica a favore di tutto ciò che viene detto «ideale».
Innanzitutto se lo confrontiamo col coro nel pubblico del teatro non troviamo nulla che a forza di essere idealizzato possa trovare riscontro nel coro. Poi l’idea condivisa che lo spettatore debba sempre essere consapevole della finzione scenica cozza con la constatazione che il coro invece percepisce la rappresentazione come realtà. Al contrario crediamo in uno spettatore esteticamente disposto in grado di intendere l’opera d’arte come tale, cioè in quanto finzione. Inoltre il fatto che la tragedia in origine fosse solo coro senza scena non si concilia con il coro di spettatori ideali.
Un’idea molto migliore è quella di Shiller nella famosa prefazione alla Sposa di Messina in cui
considerava il coro come muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica.
Schiller notava che la convenzionalità del tempo, dell’architettura e del linguaggio metrico non fossero delle licenze poetiche ma l’essenza di ogni poesia.
L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte.
Dunque il coro si muove su un terreno ideale: il Greco si è fabbricato un finto stato di natura con finti esseri naturali e la tragedia, fondata su questo, fin dall’inizio era svincolata dal realismo. Non è però un mondo di fantasia.
Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto.
Con il satiro nasce la tragedia e attraverso di lui parla la saggezza dionisiaca.
Il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia – lo dico fin d’ora – per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi.
Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé – la vita.
Ho riportato un’ampio passo perché oltre ad essere chiaro è anche molto bello da leggere.
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