domenica 12 gennaio 2025

La decadenza della cultura – prima posizione: Encolpio e Messalla – Satyricon, 1-2

 

[1] "Num alio genere Furiarum declamatores inquietantur, qui clamant: 'Haec vulnera pro libertate publica excepi; hunc oculum pro vobis impendi: date mihi ducem, qui me ducat ad liberos meos, nam succisi poplites membra non sustinent'? Haec ipsa tolerabilia essent, si ad eloquentiam ituris viam facerent.

«[1] Forse che sono turbati da un altro genere di Furie i declamatori che gridano: Queste ferite le ho ricevute per la libertà pubblica; questo occhio lho speso per voi: datemi una guida che mi conduca dai miei figli, infatti i tendini recisi non sostengono le membra? Queste cose sarebbero in sé tollerabili se aprissero la via a coloro che si accingono all’eloquenza».

Nunc et rerum tumore et sententiarum vanissimo strepitu hoc tantum proficiunt ut, cum in forum venerint, putent se in alium orbem terrarum delatos. Et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus, aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed mellitos verborum globulos, et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa.

«Ora per l’esagerazione degli argomenti e il vuotissimo strepito delle sentenze producono solo questo effetto, che, una volta giunti nel foro, pensano di essere stati trasportati in un altro mondo. E perciò io ritengo che i ragazzini nelle scuole diventino stupidissimi1, poiché nulla di ciò con cui abbiamo a che fare o ascoltano o vedono, ma pirati che stanno sulla spiaggia con le catene, ma tiranni che scrivono editti con cui ordinano ai figli di mozzare le teste dei propri padri, ma responsi dati per una pestilenza che dicono che siano immolate tre o più vergini, ma palline mielose di parole, e tutte cose dette e fatte quasi cosparse di papavero e sesamo2».

[2] "Qui inter haec nutriuntur, non magis sapere possunt quam bene olere qui in culina habitant. Pace vestra liceat dixisse, primi omnium eloquentiam perdidistis. Levibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet.

«[2] “Coloro che sono nutriti tra queste cose, non possono essere saggi più di quanto possano profumare coloro che abitano in cucina. Sia detto pure con vostra pace, primi tra tutti avete rovinato l’eloquenza. Suscitando certi giochetti con suoni dolci e vuoti, avete fatto in modo che il corpo dell’orazione si rammollisse e cadesse».

Nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. Et ne poetas quidem ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video. Grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit.

«I ragazzi non erano ancora imbrigliati dalle declamazioni3 quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare. Un maestro cresciuto nellombra non aveva ancora distrutto gli ingegni4, quando Pindaro e i nove lirici esitarono a cantare in versi omerici. E per non citare a testimoni solo i poeti, certamente vedo che né Platone né Demostene si sono accostati a questo genere di esercitazione. La grande e, per così dire, pudica orazione non è screziata né gonfia, ma si erge per naturale bellezza».

La figura dell’umbraticus doctor incarna il tipo dell’erudito, distaccato dalla realtà, il cui sapere sterile è il contrario della sapienza fertile, la cultura che potenzia la natura. Vedi τὸ σοφὸν δοὐ σοφία, «il sapere non è sapienza».

Viene poi definito un ideale di bellezza associato a naturalezza, argomento per il quale rimando alla pagina «Bellezza e semplicità».

Nuper ventosa istaec et enormis loquacitas Athenas ex Asia commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere adflavit, semelque corrupta regula eloquentia stetit et obmutuit. Ad summam, quis postea Thucydidis, quis Hyperidis ad famam processit?

«Ora questa chiacchiera inesauribile e piena d’aria è migrata dall’Asia ad Atene e gli animi dei giovani che si alzavano per grandi imprese come per un pestilenziale influsso astrale li ha contaminati con il suo alito, e una volta corrotta la regola l’eloquenza si arrestò e ammutolì. Insomma, chi in seguito giunse alla fama di Tucidide, chi a quella di Iperide?»

Ac ne carmen quidem sani coloris enituit, sed omnia quasi eodem cibo pasta non potuerunt usque ad senectutem canescere. Pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit.»

«E neppure la poesia brillò di un sano colore, ma tutti i generi quasi si fossero cibate del medesimo cibo non poterono imbiancare fino alla vecchiaia. Anche la pittura non ebbe un esito diverso, dopo che l’audacia degli Egizi trovò la scorciatoia di un’arte tanto grande.”»


1 Argomentazioni analoghe adduce Messalla, nel Dialogus de oratoribus, che complessivamente ha una posizione simile a quella di Petronio: nunc adulescentuli nostri deducuntur in scholas […] [in] quibus non facile dixerim utrumne locus ipse an condiscipuli an genus studiorum plus mali ingeniis adferant, «ora i nostri fanciulli sono condotti in scuole […] nelle quali non potrei dire facilmente se arrechi più male alle intelligenze il luogo in sé o i compagni di classe o il tipo di studi» (Dialogus de oratoribus, XXXV)

2 L’accusa è quella di distacco dalla realtà, di un sapere che non potenzia la natura perché non è al servizio della vita. Cfr. Dialogus de oratoribus, XXXV: duo genera materiarum apud rhetoras tractantur, suasoriae et controversiae […] sequitur autem, ut materiae abhorrenti a veritate declamatio quoque adhibeatur. Sic fit ut tyrannicidarum praemia aut vitiatarum electiones aut pestilentiae remedia aut incesta matrum aut quidquid in schola cotidie agitur, in foro vel raro vel numquam, ingentibus verbis persequantur, «due generi di esposizioni sono trattati presso i retori, suasoriae et controversiae […] segue poi che a un’esposizione a cui ripugna la verità viene applicata anche una declamazione. Così accade che sono trattati con parole grosse premi ai tirannicidi o le scelte di fanciulle sedotte o rimedi per una pestilenza o incesti delle madri o qualsiasi cosa avvenga quotidianamente a scuola, nel foro raramente o anche mai».

3 (Dialogus de oratoribus, XXXII) Et Cicero his, ut opinor, verbis refert, quidquid in eloquentia effecerit, id se non rhetorum [officinis], sed Academiae spatiis consecutum, «Anche Cicerone riferisce, come mi sembra, con queste parole, che qualsiasi risultato abbia ottenuto nell’eloquenza, egli lo ha raggiunto grazie non alle chiuse aule dei retori, ma agli aperti spazi dell’Accademia» (cfr. Cicerone, Orator, III, 12: fateor me oratorem, si modo sim aut etiam quicumque sim, non ex rhetorum officinis sed ex Academiae spatiis exstitisse, «ammetto che se io sono risultato un oratore, sempre che lo sia o anche di qualunque valore sia, grazie non alle chiuse aule dei retori, ma agli aperti spazi dell’Accademia»).

4 Al contrario apud maiores nostros iuvenis ille, qui foro et eloquentiae parabatur, imbutus iam domestica disciplina, refertus honestis studiis deducebatur a patre vel a propinquis ad eum oratorem, qui principem in civitate locum obtinebat. […] Magnus ex hoc usus, multum constantiae, plurimum iudicii iuvenibus statim contingebat, in media luce studentibus atque inter ipsa discrimina […] [5] Ita nec praeceptor deerat, optimus quidem et electissimus, qui faciem eloquentiae, non imaginem praestaret, «presso i nostri antenati quel ragazzo che si preparava al foro e all’eloquenza, imbevuto già a casa di disciplina, colmo di nobili studi, era condotto dal padre o dai parenti da quell’oratore che possedeva il primato in città […] Da questo derivava subito molta esperienza, molta costanza, moltissima capacità di giudizio ai ragazzi che studiavano in piena luce e tra i pericoli stessi […] Così non mancava un maestro, ottimo certamente e sceltissimo, che presentasse l’aspetto vero dell’eloquenza, non l’ombra» (Dialogus de oratoribus, XXXIV).

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