Capitolo 4
Arte come illusione dell’illusione,
la Trasfigurazione di Raffaello e i quattro periodi artistici
Per comprendere meglio l’artista ingenuo è utile l’analogia col sogno. Partiamo dal presupposto che chi sogna vive nel mondo dell’illusione e ne trae piacere; perché ciò sia possibile bisogna che abbia completamente dimenticato la veglia con il suo terribile assillo. La valutazione comune è che rispetto alla vita del sogno abbia la preminenza assoluta quella della veglia e che questa sia degna di essere vissuta. Nietzsche però ribalta, paradossalmente, tale valutazione: qui il linguaggio e i concetti sono molto schopenhaueriani. Parte da una supposizione metafisica per cui l’uno originario, la cosa in sé, eternamente condannato alla sofferenza nelle sue contraddizioni (la volontà di Schopenhauer)1 abbia un costante bisogno, per liberarsi2, della visione estasiante, della gioiosa illusione, che noi, da essa dominati, sentiamo come il divenire della realtà empirica. Così concepita la nostra realtà empirica è una nostra rappresentazione dell’uno originario, dunque il sogno, in quanto rappresentazione di questa realtà che è a sua volta rappresentazione, si può considerare illusione dell’illusione; di conseguenza, essendo l’illusione piacevole, il sogno è un’illusione doppiamente piacevole.
Per questo motivo l’intimo nocciolo della natura trae quell’indescrivibile piacere dall’artista ingenuo e dall’opera d’arte ingenua, che parimenti è solo «illusione dell’illusione».
È il ribaltamento della condanna platonica dell’arte in quanto imitazione di un’imitazione. Raffaello nella trasfigurazione nella sua Trasfigurazione rappresenta nella metà inferiore col fanciullo ossesso e le sofferenze degli altri uomini il rispecchiarsi del dolore originario come fondamento del mondo: questa rappresentazione è un primo grado di illusione, dalla quale si eleva un nuovo mondo illusorio, non visto da quelli dominati dalla prima illusione.
Qui abbiamo davanti ai nostri occhi, per un altissimo simbolismo artistico, quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la terribile saggezza di Sileno, e comprendiamo, per intuizione, la loro reciproca necessità. Ma qui Apollo ci viene incontro di nuovo come la divinizzazione del principium individuationis, in cui soltanto si adempie il fine eternamente raggiunto dall’uno originario, la sua liberazione attraverso l’illusione.
Ci viene mostrato con gesti sublimi quanto sia necessario tutto il mondo dell’affanno affinché l’individuo possa creare la visione liberatrice e quindi stare seduto tranquillo nella sua barca in mezzo al mare.
La divinizzazione dell’individuazione conosce una sola legge, l’individuo, con l’osservanza dei suoi limiti, cioè la misura che, per poter essere mantenuta esige la conoscenza di sé. Viceversa il suo opposto, l’eccesso, è considerato extraapollineo, cioè barbarico, o preapollineo, cioè titanico. Prometeo viene punito per il suo eccessivo amore per gli uomini, Edipo per il suo eccesso di conoscenza: così Apollo interpretava il passato. Sulla ὕβρις intellettuale di Edipo in effetti insiste Sofocle in particolare quando il figlio di Laio rivendica di aver risolto l’enigma della Sfinge senza contributo da parte degli dèi (Edipo re, 396-98):
ἀλλ' ἐγὼ μολών,
ὁ μηδὲν εἰδὼς Οἰδίπους, ἔπαυσά νιν,
γνώμῃ κυρήσας οὐδ' ἀπ' οἰωνῶν μαθών·
«ma io dopo essere giunto, / io Edipo che non sapevo niente, la feci cessare, / avvalendomi dell'intelligenza e non avendo appreso nulla dal volo degli uccelli».
«Titanico» e «barbarico» appariva al Greco apollineo altresì l’effetto provocato dal dionisiaco, senza comunque che potesse negare di essere egli stesso intimamente affine… Tutta la sua esistenza, e così ogni bellezza e moderazione, poggiava su un fondamento – mascherato – di sofferenza e di conoscenza… Ed ecco che Apollo non poteva vivere senza Dioniso!
Immaginiamo ora la reazione del mondo apollineo, costruito sull’illusione e la moderazione, davanti alle feste dionisiache caratterizzate da estasi ed eccesso e nelle quali
tutto l’eccesso della natura si palesasse in gioia, dolore e conoscenza… Le Muse delle arti dell’«illusione» impallidirono davanti a un’arte che nella sua ebbrezza diceva la verità […] L’individuo con tutti i suoi limiti e le sue misure sprofondò qui nell’oblio di sé degli stati dionisiaci e i dimenticò i canoni apollinei. L’eccesso si svelò come verità… E così dovunque penetrasse il dionisiaco, l’apollineo venne scalzato e distrutto.
D’altra parte dove Apollo resistette al primo impatto la sua maestà si impose con più rigidità:
Posso spiegarmi infatti la Stato dorico e l’arte dorica soltanto come un continuo campo di battaglia dell’apollineo.
Dunque, ricapitolando, distinguiamo 4 grandi periodi: l’età del bronzo (dionisiaca), dominata dalle titanomachie e dalla sapienza silenica; il mondo omerico (apollineo) dominato dalla bellezza; il ritorno del dionisiaco con lo sviluppo del ditirambo nella lirica arcaica; infine la reazione apollinea nella rigida maestà dell’arte e della visione del mondo doriche. Tuttavia questi quattro periodi sono inseriti in un disegno supremo che va oltre l’arte dorica:
e qui si offre ai nostri sguardi l’opera d’arte sublime e celebrata della tragedia attica e del ditirambo drammatico, come la meta comune dei due istinti, il cui misterioso connubio si è glorificato, dopo una lunga lotta precedente, in una tale creatura – che è insieme Antigone e Cassandra.
1 Cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 27: Così vediamo dovunque nella natura conflitto, lotta e alternanza di vittorie, e proprio in questo, d’ora in avanti, riconosceremo più chiaramente l’essenziale discordia della volontà con se stessa. […] Questo conflitto si perpetua in tutta quanta la natura; di più: è solo grazie ad esso che la natura esiste: «εἰ γὰρ μὴ ἦν τὸ νεῖκος ἐν τοῖς πράγμασιν, ἓν ἂν ἦν ἅπαντα, ὡς φησίν Ἐμπεδοκλῆς» (nam si non inesset in rebus contentio, unum omnia essent, ut ait Empedocles, Aristotele, Metafisica, B, 5); questo stesso conflitto, infatti, è proprio la manifestazione dell’essenziale discordia della volontà con se stessa. Il livello più chiaro di visibilità questa lotta universale lo raggiunge nel mondo animale, che ha come proprio nutrimento il mondo vegetale e nel quale, inoltre, ogni animale diventa preda e nutrimento di un altro […] la volontà di vivere vive così in generale di se stessa e, sotto diverse forme, è il nutrimento di se stessa, sino a che, alla fine, la specie umana, poiché è riuscita a sopraffare tutte le altre, considera la natura come se fosse stata fabbricata a proprio uso e consumo; e tuttavia anche questa stessa specie, come vedremo nel quarto libro, manifesta in modo spaventosamente chiaro in se stessa quella lotta, quella discordia interiore della volontà, giustificando il detto homo homini lupus.
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