Docente di greco e latino al Liceo Classico «Marco Minghetti» di Bologna. Scrivo sulla rivista online «Altri Territori»: www.altriterritori.com. Ho pubblicato per Barbera Editore una traduzione dei libri VIII e IX dell’«Etica Nicomachea» di Aristotele (2005)
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venerdì 31 gennaio 2025
Giovanni Ghiselli: Introduzione alla tragedia parte sesta. Ancora da...
Giovanni Ghiselli: Introduzione alla tragedia parte quinta.
Giovanni Ghiselli: Introduzione alla tragedia parte quarta.
giovedì 30 gennaio 2025
Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 7 – completo
Capitolo 7
La funzione del coro
A questo punto bisogna affrontare il labirinto dell’origine della tragedia greca. La tradizione antica ci dice che è nata dal coro e in origine era solo coro. In effetti così riferisce Aristotele (Poetica, 1449a):
γενομένη δ' οὖν ἀπ' ἀρχῆς αὐτοσχεδιαστικῆς ‑ καὶ αὐτὴ καὶ ἡ κωμῳδία, καὶ ἡ μὲν ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, ἡ δὲ ἀπὸ τῶν τὰ φαλλικὰ ἃ ἔτι καὶ νῦν ἐν πολλαῖς τῶν πόλεων διαμένει νομιζόμενα ‑ κατὰ μικρὸν ηὐξήθη προαγόντων ὅσον ἐγίγνετο φανερὸν αὐτῆς· καὶ πολλὰς μεταβολὰς μεταβαλοῦσα ἡ τραγῳδία ἐπαύσατο, ἐπεὶ ἔσχε τὴν αὑτῆς φύσιν. καὶ τό τε τῶν ὑποκριτῶν πλῆθος ἐξ ἑνὸς εἰς δύο πρῶτος Αἰσχύλος ἤγαγε καὶ τὰ τοῦ χοροῦ ἠλάττωσε καὶ τὸν λόγον πρωταγωνιστεῖν παρεσκεύασεν· τρεῖς δὲ καὶ σκηνογραφίαν Σοφοκλῆς.
«Essendo nata dunque da un principio di improvvisazione – sia questa sia la commedia, e l’una da coloro che intonavano il ditirambo, l’altra dalle processioni falliche che ancora oggi in molte tra le città rimangono in uso – a poco a poco crebbe, sviluppando (i poeti) quanto di essa diveniva manifesto; e dopo aver compiuto molti cambiamenti la tragedia cessò di mutare, quando entrò in possesso della propria natura. E il numero degli attori condusse da uno a due Eschilo per primo e diminuì le parti del coro e dispose la parola a essere protagonista; Sofocle portò gli attori a tre e introdusse la scenografia».
È necessario allora scrutare nel cuore di questo coro e individuarne la funzione. Da rifiutare è sicuramente l’interpretazione politica che vede nel coro una rappresentanza del popolo che incarna lo spirito della democrazia ateniese contro la prepotenza dei re; potrebbe essere dedotta da un’affermazione di Aristotele, ma non ha relazione con l’origine della tragedia. Qui si riferisce forse a Problemata, XIX, 922b dove si legge che gli attori sulla scena sono
ἡρώων μιμηταί· οἱ δὲ ἡγεμόνες τῶν ἀρχαίων μόνοι ἦσαν ἥρωες, οἱ δὲ λαοὶ ἄνθρωποι, ὧν ἐστὶν ὁ χορός,«sono imitatori di eroi; tra gli antichi solo i capi erano eroi, mentre i popoli erano uomini, di cui è composto il coro».
In ogni caso anche per come lo leggiamo nella forma codificata da eschilo e Sofocle
È una bestemmia il parlare di un presentimento della «rappresentanza costituzionale del popolo».
Molto più famosa la definizione di A. W. Schlegel come «spettatore ideale»1:
A. W. Schlegel… ci raccomanda di considerare il coro in certo senso come il compendio e l’estratto della folla degli spettatori, come lo «spettatore ideale»… un’affermazione rozza e non scientifica, ma brillante, che però ha ricevuto il suo splendore solo dalla forma concentrata della sua espressione, dalla prevenzione prettamente germanica a favore di tutto ciò che viene detto «ideale».
Innanzitutto se lo confrontiamo col coro nel pubblico del teatro non troviamo nulla che a forza di essere idealizzato possa trovare riscontro nel coro. Poi l’idea condivisa che lo spettatore debba sempre essere consapevole della finzione scenica cozza con la constatazione che il coro invece percepisce la rappresentazione come realtà. Al contrario crediamo in uno spettatore esteticamente disposto in grado di intendere l’opera d’arte come tale, cioè in quanto finzione. Inoltre il fatto che la tragedia in origine fosse solo coro senza scena non si concilia con il coro di spettatori ideali.
Un’idea molto migliore è quella di Shiller nella famosa prefazione alla Sposa di Messina in cui
considerava il coro come muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica.
Schiller notava che la convenzionalità del tempo, dell’architettura e del linguaggio metrico non fossero delle licenze poetiche ma l’essenza di ogni poesia.
L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte.
Dunque il coro si muove su un terreno ideale: il Greco si è fabbricato un finto stato di natura con finti esseri naturali e la tragedia, fondata su questo, fin dall’inizio era svincolata dal realismo. Non è però un mondo di fantasia.
Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto.
Con il satiro nasce la tragedia e attraverso di lui parla la saggezza dionisiaca.
Il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia – lo dico fin d’ora – per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi.
Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé – la vita.
Ho riportato un’ampio passo perché oltre ad essere chiaro è anche molto bello da leggere.
L’estasi dionisiaca contiene un elemento letargico, in cui, con il crollo delle barriere e dei limiti soliti dell’esistenza, si oblia il vissuto individuale. Così in quei momenti la dimensione dionisiaca e quella della realtà quotidiana si separano; ma non appena quest’ultima ritorna alla coscienza suscita nausea e produce una negazione ascetica della volontà.
In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini. La conoscenza uccide l'azione, per agire occorre essere avvolti nell'illusione – questa è la dottrina di Amleto.
Vediamo i passi di Shakespeare, che sono due, a cui allude Nietzsche.
Amleto, III, 1, 82-88:
Thus conscience does make cowards of us all,
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o'er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pitch and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.
Amleto, I, 5, 196-97:
The time is out of joint. O cursèd spite,
That ever I was born to set it right!
Amleto è stato interpretato in vari modi, come archetipo dell’eroe moderno in contrapposizione a quello antico (Pirandello); in chiave psicanalitica (Freud); in chiave estetica (Wilde). Vediamo queste interpretazioni nelle parole degli autori.
Pirandello2 vede manifestarsi in Amleto la perdita delle certezze e delle sicurezze che avevano caratterizzato il mondo antico:
— La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! — venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. — Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.— La tragedia d’Oreste?— Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.— Non saprei, — risposi, stringendomi ne le spalle.— Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.— E perché?— Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto — Beate le marionette, — sospirai, — su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.
Il buco nel cielo di carta del teatrino può essere paragonato allo squarcio nel velo di Maya, dunque alla perdita del principium individuationis dominato dall’illusione e dall’apparenza.
Freud3 interpreta Amleto psicanaliticamente:
Secondo la concezione tuttora prevalente, che risale a Goethe, Amleto rappresenta il tipo d'uomo la cui vigorosa forza d'agire è paralizzata dalla forza opprimente dell'attività mentale ("la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero", III, 1). Secondo altri, il poeta ha tentato di descrivere un carattere morboso, indeciso, che rientra nell'ambito della nevrastenia. Senonché, la finzione drammatica dimostra che Amleto non deve affatto apparirci come una persona incapace di agire in generale. Lo vediamo agire due volte, la prima in un improvviso trasporto emotivo, quando uccide colui che sta origliando dietro il tendaggio, una seconda volta in modo premeditato, quasi perfido, quando con tutta la spregiudicatezza del principe rinascimentale manda i due cortigiani alla morte a lui stesso destinata. Che cosa dunque lo inibisce nell'adempimento del compito che lo spettro del padre gli ha assegnato? Appare qui di nuovo chiara la spiegazione: la particolare natura di questo compito. Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull'uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l'uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi.
Infine Oscar Wilde4 vede in Amleto il ribaltamento del realismo in arte, per cui non è l’arte a imitare la vita ma è la vita a imitare l’arte:
La vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita […] Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare […] I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele […] Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij.
Ma la dottrina di Amleto secondo cui la conoscenza uccide l’azione non è da intendere nel senso di un eccesso di riflessività che toglie tempestività all’agire, ma è la vera conoscenza della verità raccapricciante che toglie motivo all’agire, tanto per Amleto quanto per l’uomo dionisiaco, il quale ormai nella contemplazione dell’atrocità o assurdità dell’essere comprende il simbolismo del destino di Ofelia e la sapienza silenica e ne prova disgusto5.
Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime come repressione artistica dell’atrocità e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo, ecco l'azione salvatrice dell'arte greca.
1 Cfr. A. W. SCHLEGEL, Corso di letteratura drammatica (tr. it. Genova, 1977) lezione III, pp. 59-60 sgg.: «Bisogna riguardare il Coro come la personificazione de’ pensieri morali che ispira l'azione, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla egli stesso in nome di tutta l’umanità intera [...] Noi abbiamo già veduto che li Ateniesi, per una conseguenza del loro spirito democratico [bei ihrem republikanischen Geiste], pensavano che qualunque importante azione aver dovesse una sorta di publicità [...] Voleasi che il Coro […] fosse il rappresentante dello spirito nazionale e quindi il difensore degli interessi dell’umanità: in somma il Coro era lo spettatore ideale».
2 Il fu Mattia Pascal, XII, L’occhio e Papiano.
3 L’interpretazione dei sogni, trad. it. Bollati Boringhieri, Torini 2019, pp. 250-251.
4 La decadenza della menzogna (del 1889), trad. it. Mondadori.
5 Cfr. Schopenhauer, Parerga e paralipomena II, 336: «I sentimenti nobili, cioè non volgari, anzi i sentimenti sublimi, vengono introdotti, anche nel dramma, mediante la conoscenza in contrasto con la volontà, in quanto la conoscenza si innalza liberamente al di sopra di tutti quei moti della volontà, che anzi diventano oggetto delle sue riflessioni, come si può vedere specialmente in quasi tutte le opere di Shakespeare, ma soprattutto nell'Amleto. Se poi la conoscenza s’innalza fino al punto dal quale intuisce la nullità di ogni volere e di ogni aspirazione, e in seguito a ciò la volontà si annulla da se stessa, allora davvero il dramma diventa propriamente tragico, e con ciò veramente sublime, ottenendo il tal modo il suo supremo scopo».
Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 7 – 2° parte
L’estasi dionisiaca contiene un elemento letargico, in cui, con il crollo delle barriere e dei limiti soliti dell’esistenza, si oblia il vissuto individuale. Così in quei momenti la dimensione dionisiaca e quella della realtà quotidiana si separano; ma non appena quest’ultima ritorna alla coscienza suscita nausea e produce una negazione ascetica della volontà.
In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini. La conoscenza uccide l'azione, per agire occorre essere avvolti nell'illusione – questa è la dottrina di Amleto.
Vediamo i passi di Shakespeare, che sono due, a cui allude Nietzsche.
Amleto, III, 1, 82-88:
Thus conscience does make cowards of us all,
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o'er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pitch and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.
Amleto, I, 5, 196-97:
The time is out of joint. O cursèd spite,
That ever I was born to set it right!
Amleto è stato interpretato in vari modi, come archetipo dell’eroe moderno in contrapposizione a quello antico (Pirandello); in chiave psicanalitica (Freud); in chiave estetica (Wilde). Vediamo queste interpretazioni nelle parole degli autori.
Pirandello (Il fu Mattia Pascal, XII, L’occhio e Papiano) vede manifestarsi in Amleto la perdita delle certezze e delle sicurezze che avevano caratterizzato il mondo antico:
— La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! — venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. — Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.
— La tragedia d’Oreste?
— Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
— Non saprei, — risposi, stringendomi ne le spalle.
— Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
— E perché?
— Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto — Beate le marionette, — sospirai, — su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.
Il buco nel cielo di carta del teatrino può essere paragonato allo squarcio nel velo di Maya, dunque alla perdita del principium individuationis dominato dall’illusione e dall’apparenza.
Freud interpreta Amleto psicanaliticamente (L'interpretazione dei sogni, pp. 250-251):
Secondo la concezione tuttora prevalente, che risale a Goethe, Amleto rappresenta il tipo d'uomo la cui vigorosa forza d'agire è paralizzata dalla forza opprimente dell'attività mentale ("la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero", III, 1). Secondo altri, il poeta ha tentato di descrivere un carattere morboso, indeciso, che rientra nell'ambito della nevrastenia. Senonché, la finzione drammatica dimostra che Amleto non deve affatto apparirci come una persona incapace di agire in generale. Lo vediamo agire due volte, la prima in un improvviso trasporto emotivo, quando uccide colui che sta origliando dietro il tendaggio, una seconda volta in modo premeditato, quasi perfido, quando con tutta la spregiudicatezza del principe rinascimentale manda i due cortigiani alla morte a lui stesso destinata. Che cosa dunque lo inibisce nell'adempimento del compito che lo spettro del padre gli ha assegnato? Appare qui di nuovo chiara la spiegazione: la particolare natura di questo compito. Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull'uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l'uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi.
Infine Oscar Wilde vede in Amleto il ribaltamento del realismo in arte, per cui non è l’arte a imitare la vita ma è la vita a imitare l’arte (La decadenza della menzogna, del 1889):
La vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita...Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare...I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele...Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij.
mercoledì 29 gennaio 2025
Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 7 – 1° parte
Qui il percorso completo in PDF
(in aggiornamento)
Capitolo 7
La funzione del coro
A questo punto bisogna affrontare il labirinto dell’origine della tragedia greca. La tradizione antica ci dice che è nata dal coro e in origine era solo coro. In effetti così riferisce Aristotele (Poetica, 1449a):
γενομένη δ' οὖν ἀπ' ἀρχῆς αὐτοσχεδιαστικῆς ‑ καὶ αὐτὴ καὶ ἡ κωμῳδία, καὶ ἡ μὲν ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, ἡ δὲ ἀπὸ τῶν τὰ φαλλικὰ ἃ ἔτι καὶ νῦν ἐν πολλαῖς τῶν πόλεων διαμένει νομιζόμενα ‑ κατὰ μικρὸν ηὐξήθη προαγόντων ὅσον ἐγίγνετο φανερὸν αὐτῆς· καὶ πολλὰς μεταβολὰς μεταβαλοῦσα ἡ τραγῳδία ἐπαύσατο, ἐπεὶ ἔσχε τὴν αὑτῆς φύσιν. καὶ τό τε τῶν ὑποκριτῶν πλῆθος ἐξ ἑνὸς εἰς δύο πρῶτος Αἰσχύλος ἤγαγε καὶ τὰ τοῦ χοροῦ ἠλάττωσε καὶ τὸν λόγον πρωταγωνιστεῖν παρεσκεύασεν· τρεῖς δὲ καὶ σκηνογραφίαν Σοφοκλῆς.
«Essendo nata dunque da un principio di improvvisazione – sia questa sia la commedia, e l’una da coloro che intonavano il ditirambo, l’altra dalle processioni falliche che ancora oggi in molte tra le città rimangono in uso – a poco a poco crebbe, sviluppando (i poeti) quanto di essa diveniva manifesto; e dopo aver compiuto molti cambiamenti la tragedia cessò di mutare, quando entrò in possesso della propria natura. E il numero degli attori condusse da uno a due Eschilo per primo e diminuì le parti del coro e dispose la parola a essere protagonista; Sofocle portò gli attori a tre e introdusse la scenografia».
È necessario allora scrutare nel cuore di questo coro e individuarne la funzione. Da rifiutare è sicuramente l’interpretazione politica che vede nel coro una rappresentanza del popolo che incarna lo spirito della democrazia ateniese contro la prepotenza dei re; potrebbe essere dedotta da un’affermazione di Aristotele, ma non ha relazione con l’origine della tragedia. Qui si riferisce forse a Problemata, XIX, 922b dove si legge che gli attori sulla scena sono
ἡρώων μιμηταί· οἱ δὲ ἡγεμόνες τῶν ἀρχαίων μόνοι ἦσαν ἥρωες, οἱ δὲ λαοὶ ἄνθρωποι, ὧν ἐστὶν ὁ χορός,
«sono imitatori di eroi; tra gli antichi solo i capi erano eroi, mentre i popoli erano uomini, di cui è composto il coro».
In ogni caso anche per come lo leggiamo nella forma codificata da eschilo e Sofocle
È una bestemmia il parlare di un presentimento della «rappresentanza costituzionale del popolo».
Molto più famosa la definizione di A. W. Schlegel come «pettatore ideale»:
A. W. Schlegel… ci raccomanda di considerare il coro in certo senso come il compendio e l’estratto della folla degli spettatori, come lo «spettatore ideale»… un’affermazione rozza e non scientifica, ma brillante, che però ha ricevuto il suo splendore solo dalla forma concentrata della sua espressione, dalla prevenzione prettamente germanica a favore di tutto ciò che viene detto «ideale».
Innanzitutto se lo confrontiamo col coro nel pubblico del teatro non troviamo nulla che a forza di essere idealizzato possa trovare riscontro nel coro. Poi l’idea condivisa che lo spettatore debba sempre essere consapevole della finzione scenica cozza con la constatazione che il coro invece percepisce la rappresentazione come realtà. Al contrario crediamo in uno spettatore esteticamente disposto in grado di intendere l’opera d’arte come tale, cioè in quanto finzione. Inoltre il fatto che la tragedia in origine fosse solo coro senza scena non si concilia con il coro di spettatori ideali.
Un’idea molto migliore è quella di Shiller nella famosa prefazione alla Sposa di Messina in cui
considerava il coro come muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica.
Schiller notava che la convenzionalità del tempo, dell’architettura e del linguaggio metrico non fossero delle licenze poetiche ma l’essenza di ogni poesia.
L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte.
Dunque il coro si muove su un terreno ideale: il Greco si è fabbricato un finto stato di natura con finti esseri naturali e la tragedia, fondata su questo, fin dall’inizio era svincolata dal realismo. Non è però un mondo di fantasia.
Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto.
Con il satiro nasce la tragedia e attraverso di lui parla la saggezza dionisiaca.
Il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia – lo dico fin d’ora – per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi.
Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé – la vita.
Ho riportato un’ampio passo perché oltre ad essere chiaro è anche molto bello da leggere.
Giovanni Ghiselli: Introduzione alla tragedia greca. Terza parte.
Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 6
Qui il percorso completo in PDF
(in aggiornamento)
Capitolo 6
Il canto popolare
L’indagine erudita ha stabilito che fu Archiloco a introdurre il canto popolare, da considerare in antitesi all’epos interamente apollineo, come il perpetuum vestigium dell’unione di apollineo e dionisiaco. Questo duplice impulso della natura lascia le sue tracce nel canto popolare come i moti orgiastici di un popolo si eternano nella musica; dunque dobbiamo considerare le correnti dionisiache il sostrato e il presupposto del canto popolare.
Il conto popolare rappresenta per noi prima d’ogni altra cosa uno specchio musicale del mondo, una melodia primordiale, che cerca poi per sé un’apparenza di sogno parallela e la esprime nella poesia. La melodia è dunque l’elemento primario e universale.
La melodia genera da sé la poesia, in forme sempre nuove e diverse: questo è il significato della forma strofica. Per l’epos questo mondo di immagini della lirica, diseguale e irregolare, è da condannare.
Nella lirica il linguaggio imita la musica e con Archiloco comincia una nuova modalità poetica in contrapposizione a quella omerica, per cui la parola, l’immagine, il concetto cercano un’espressione analoga alla musica. Dunque d’ora in poi ci sono due correnti, che con la lingua imitano una il mondo dell’apparenza, l’altra il mondo della musica: per capirne la differenza basta confrontare la lingua di Omero con quella di Pindaro. Qui poi Nietzsche critica la concezione della musica descrittiva prendendo ad esempio Beethoven che designa una sua sinfonia pastorale e un movimento «scena in riva al ruscello», un altro «allegra riunione di contadini», cose che sono rappresentazioni simboliche nate dalla musica, non da essa imitate.
Questo processo per cui la musica si scarica in immagini, noi dobbiamo ora trasferirlo a una comunità popolare giovane e fresca, linguisticamente creativa, per giungere a intuire come nasca il canto popolare strofico e come l'intera facoltà del linguaggio venga eccitata dal nuovo principio dell'imitazione della musica.
Dunque la musica nello specchio delle immagini appare come volontà, intesa in senso schopenhaueriano, dunque in antitesi alla disposizione estetica. Però bisogna distinguere tra essenza e apparenza, perché nella sua essenza la musica non può essere volontà, non sarebbe arte: essa appare come volontà. Il lirico ha bisogno della potenza delle emozioni per trasferire la musica in immagini apollinee e quindi intende la natura e sé in essa come eterno volere; siccome però interpreta con immagini riposa nella tranquillità della contemplazione, sebbene il mondo contemplato mediante la musica turbini vorticosamente: quando vi scorge la sua stessa immagine, essa gli si mostra sotto forma di insoddisfazione perché il suo volere è un simbolo con cui interpreta la musica.
È questo il fenomeno del lirico: come genio apollineo egli interpreta la musica attraverso l'immagine della volontà, mentre egli stesso, completamente staccato dalla brama della volontà, è un puro e imperturbato occhio solare.
Tutta questa discussione si tiene ferma al principio che la lirica è altrettanto dipendente dallo spirito della musica, quanto la musica invece, nella sua assoluta illimitatezza, non ha bisogno dell’immagine e del concetto, ma solo li tollera accanto a sé.
La poesia non può dire nulla che già non sia compreso nella musica, la quale quindi, nel suo simbolismo cosmico (cfr. infra), non può realizzarsi nel linguaggio: essa si riferisce ai contrasti e ai dolori dell’uno originario, la volontà, dunque simboleggia una sfera che è al di sopra di ogni apparenza e anteriore ad ogni esperienza. In altri termine la musica è il simbolo di ciò che è trascendente e trascendentale. Ricavo, come secondo me anche Nietzsche, la spiegazione di questi due termini da Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Frammenti sulla storia della filosofia, 13:
Kant intende con trascendentale anzitutto il riconoscimento dell’a priori, e di ciò che è semplicemente formale nella nostra conoscenza, proprio in quanto tale; cioè il comprendere che siffatta conoscenza è indipendente dall'esperienza, e anzi impone ad essa la regola immutabile, secondo cui deve presentarsi. Tutto ciò è connesso poi alla comprensione del perché tale conoscenza sia questo e possa questo; il perché sta nel fatto che essa costituisce la forma del nostro intelletto, ossia la spiegazione va ricercata nella sua origine soggettiva: di conseguenza soltanto la critica della ragione pura è propriamente trascendentale. In contrapposizione a ciò, egli chiama trascendente l’uso, o piuttosto l’abuso, di quel lato puramente formale della nostra conoscenza, la sua estensione al di là della possibilità dell'esperienza: la stessa cosa è da lui anche designata con il termine «iperfisico». A dirla in breve, trascendentale significa quindi «anteriormente a ogni esperienza», trascendente invece «al di là di ogni esperienza».
Il linguaggio dunque, come organo dell’apparenza, non sarà mai in grado di esprimere l’interiorità della musica, ma rimarrà con essa in un contatto esteriore, malgrado tutta l’eloquenza possibile.
Riporto alcuni passi da Il mondo come volontà e rappresentazione, III, 52, che definiscono la musica come linguaggio universale:
Dopo che abbiamo concluso la nostra trattazione con la tragedia, la quale, al grado più alto di oggettivazione della volontà, ci mette davanti agli occhi con una grandiosità e una chiarezza spaventose proprio quel dissidio della volontà con se stessa; ci accorgiamo che, tuttavia, una delle belle arti è rimasta e doveva rimanere esclusa dalla nostra trattazione, dato che, nell'organizzazione sistematica della nostra esposizione, non c’era alcun luogo adeguato ad essa: si tratta della musica. Essa è completamente separata da tutte le altre arti. Noi non conosciamo in essa la copia, la riproduzione di questa o quella idea degli esseri del mondo; e tuttavia è un’arte così grande ed eccelsa, agisce in modo così potente nella più profonda intimità dell’uomo, e viene perciò compresa da lui in modo così completo e profondo, quasi fosse un linguaggio del tutto universale, capace di superare in chiarezza persino lo stesso mondo dell’intuizione, che certo noi in essa dobbiamo cercare ben più di un «exercitium aritmeticae occultum nescientis se numerare animi», come l'ha definita Leibniz! […] Dal nostro punto di vista, che si rivolge all'effetto estetico, dobbiamo dunque riconoscere alla musica un significato ben più serio e profondo, che concerne la più intima essenza del mondo e di noi stessi. […] L’oggettivazione adeguata della volontà sono le idee (platoniche); suscitare la loro conoscenza (il che è possibile solo con un cambiamento corrispondente nel soggetto conoscente) per mezzo della raffigurazione di singole cose (poiché le opere d’arte stesse sono pur sempre delle cose) è lo scopo di tutte le altre arti. Tutte oggettivano dunque la volontà in modo mediato, ossia per mezzo delle idee; e, dato che il nostro mondo altro non è che la manifestazione fenomenica dell’idea nella molteplicità, resa possibile dall'ingresso nel principium individuationis (la forma della conoscenza che è possibile all’individuo come tale), ne segue che la musica, procedendo oltre le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora. […] La musica è infatti un’oggettivazione, un’immagine della volontà nella sua interezza immediata come il mondo stesso, anzi, come le idee. […] La musica non è dunque in nessun modo, come sono le altre arti, l'immagine delle idee, bensì l’immagine della volontà stessa; […] proprio per questo l'effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello prodotto dalle altre arti: le altre ci parlano soltanto delle ombre, la musica invece dell’essenza delle cose.