vv. 511-567
(primo stasimo: riassunto)
vv. 511-514: ἀμφί μοι Ἴλιον, ὦ / Μοῦσα, καινῶν ὕμνων / ἄεισον ἐν δακρύοις ᾠδὰν ἐπικήδειον·, «O Musa, cantami intorno a Ilio / di inni nuovi / un canto funebre tra le lacrime».
Inizia qui il primo stasimo con un’invocazione alla Musa affinché canti nelle lacrime. È un primo accenno alla “poetica delle lacrime” ripresa poi nel secondo episodio, sempre dal corifeo.
vv. 568-629
(inizio secondo episodio: riassunto)
Viene qui sviluppata la “poetica delle lacrime”, cioè l’idea che la poesia deve consolare chi soffre con situazioni che grondano lacrime.
Così si esprime il coro ai vv. 608-609: ὡς ἡδὺ δάκρυα τοῖς κακῶς πεπραγόσι / θρήνων τ’ ὀδυρμοὶ μοῦσά θ’ ἣ λύπας ἔχει, «che cosa dolce le lacrime per chi è caduto nella miseria / e i gemiti dei lamenti e la musa che abbraccia le pene».
Il concetto si trova esposto in modo compiuto nella Medea, del 431 a.C.
Euripide, Medea, 194-204.
σκαιοὺς δὲ λέγων κοὐδέν τι σοφοὺς
τοὺς πρόσθε βροτοὺς οὐκ ἂν ἁμάρτοις,
οἵτινες ὕμνους ἐπὶ μὲν θαλίαις
ἐπί τ' εἰλαπίναις καὶ παρὰ δείπνοις
ηὕροντο βίῳ τερπνὰς ἀκοάς·
στυγίους δὲ βροτῶν οὐδεὶς λύπας 195
ηὕρετο μούσηι καὶ πολυχόρδοις
ὠιδαῖς παύειν, ἐξ ὧν θάνατοι
δειναί τε τύχαι σφάλλουσι δόμους.
καίτοι τάδε μὲν κέρδος ἀκεῖσθαι
μολπαῖσι βροτούς· ἵνα δ' εὔδειπνοι 200
δαῖτες, τί μάτην τείνουσι βοήν;
τὸ παρὸν γὰρ ἔχει τέρψιν ἀφ' αὑτοῦ
δαιτὸς πλήρωμα βροτοῖσιν.
«Dicendo stolti e per niente sapienti / i mortali di un tempo non sbaglieresti, / essi che trovarono per feste / e banchetti e durante le cene / inni (che sono) un piacevole ascoltare per la vita; / nessuno invece trovò (il modo di) far cessare / con la poesia e con i canti dai molti toni / le odiose sofferenze dei mortali, per le quali morti / e terribili casi abbattono le stirpi. / Eppure questo sì sarebbe un guadagno, sanare / coi canti i mortali; ma dove lauti / sono i banchetti, perché tendono la voce invano? / Infatti la già presente abbondanza della mensa / comprende da sé gioia per i mortali».
Troviamo una bella espressione di questa poetica anche nella letteratura latina, in, Virgilio, Eneide, I, vv. 459-62; Enea, naufragato va in esplorazione e si imbatte in un tempio dove sono istoriate le imprese di Greci e Troiani nella guerra di Troia, e trova consolazione nelle lacrime che compatiscono le sofferenze umane:
Constitit, et lacrimans, “Quis iam locus” inquit “Achate,
quae regio in terris nostri non plena laboris?
En Priamus! Sunt hic etiam sua praemia laudi;
sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt
«Si arrestò, e piangendo, ‘Che luogo ancora’ disse ‘Acate, / che regione sulla terra non è piena della nostra sofferenza? / Ecco Priamo! Ci sono anche qui le sue ricompense per la gloria; / ci sono le lacrime per le imprese e le vicende dei mortali toccano il cuore».
Ecuba constata affranta ai vv. 612-613:
ὁρῶ τὰ τῶν θεῶν, ὡς τὰ μὲν πυργοῦσ’ ἄνω / τὸ μηδὲν ὄντα, τὰ δὲ δοκοῦντ’ ἀπώλεσαν, «vedo il comportamento degli dèi, come innalzano / chi non vale nulla, mentre mandano in rovina chi è reputato».
Aggiunge poi al v. 616: τὸ τῆς ἀνάγκης δεινόν, «terribile il potere della necessità», rassegnata alla perdita di Cassandra portata via a forza. Andromaca però deve affligerla con l’ulteriore disgrazia della morte dell’alltra figlia Polissena, sgozzata sulla tomba di Achille da Aiace per vendicare la morte del Pelide (nell’Ecuba la protagonista cerca di dissuadere i Odisseo con queste parole (v. 278): μηδὲ κτάνητε· τῶν τεθνηκότων ἅλις, «non uccidetela: ce n’è abbastanza di morti».
vv. 630-683
ΑΝΔΡΟΜΑΧΗ
ὄλωλεν ὡς ὄλωλεν· ἀλλ’ ὅμως ἐμοῦ 630
ζώσης γ’ ὄλωλεν εὐτυχεστέρῳ πότμῳ.
È morta come è morta; ma comunque è mortacon un destino, per quanto sia, più fortunato di me che sono viva.
Εκ.
οὐ ταὐτόν, ὦ παῖ, τῷ βλέπειν τὸ κατθανεῖν·
τὸ μὲν γὰρ οὐδέν, τῷ δ’ ἔνεισιν ἐλπίδες.
Non è lo stesso, figlia, che vedere la luce l’essere morti;una cosa infatti è il nulla, nell’altra ci sono dentro speranze.
Αν.
ὦ μῆτερ, † ὦ τεκοῦσα †, κάλλιστον λόγον
ἄκουσον, ὥς σοι τέρψιν ἐμβαλῶ φρενί. 635
ANDROMACA
Madre, tu che hai partorito, ascolta un discorso
bellissimo, affinché ti infonda letizia nel cuore.
τὸ μὴ γενέσθαι τῷ θανεῖν ἴσον λέγω,
τοῦ ζῆν δὲ λυπρῶς κρεῖσσόν ἐστι κατθανεῖν.
Il non nascere io lo dico pari al morire,
mentre rispetto al vivere nel dolore è meglio morire22.
ἀλγεῖ γὰρ οὐδὲν † τῶν κακῶν ᾐσθημένος· †
ὁ δ’ εὐτυχήσας ἐς τὸ δυστυχὲς πεσὼν
ψυχὴν ἀλᾶται τῆς πάροιθ’ εὐπραξίας. 640
Infatti non soffre nulla chi non percepisce i mali;
invece chi avendo avuto fortuna poi è caduto nella sventura
ha perduto nell’anima il precedente successo.
κείνη δ’, ὁμοίως ὥσπερ οὐκ ἰδοῦσα φῶς,
τέθνηκε κοὐδὲν οἶδε τῶν αὑτῆς κακῶν.
Quella invece, proprio come se non avesse mai visto la luce,
è morta e non sa niente dei propri mali.
ἐγὼ δὲ τοξεύσασα τῆς εὐδοξίας
λαχοῦσα πλεῖον τῆς τύχης ἡμάρτανον.
Mentre io dopo aver mirato alla buona fama
e averla colta, a maggior ragione fallivo il bersaglio della fortuna.
ἃ γὰρ γυναιξὶ σώφρον’ ἔσθ’ ηὑρημένα, 645
ταῦτ’ ἐξεμόχθουν Ἕκτορος κατὰ στέγας.
Infatti i comportamenti prudenti inventati per le donne,
questi io mi affaticavo a praticare nella casa di Ettore.
πρῶτον μέν, ἔνθα—κἂν προσῇ κἂν μὴ προσῇ
ψόγος γυναιξίν—αὐτὸ τοῦτ’ ἐφέλκεται
κακῶς ἀκούειν, ἥτις οὐκ ἔνδον μένει,
τούτου παρεῖσα πόθον ἔμιμνον ἐν δόμοις· 650
Prima di tutto, dove – che sia presente o noil biasimo per le donne – il fatto in sé attiracattiva fama, cioè una che non rimane dentro,di questo appunto lasciando perdere il desiderio restavo in casa;ἔσω τε μελάθρων κομψὰ θηλειῶν ἔπη
οὐκ εἰσεφρούμην, τὸν δὲ νοῦν διδάσκαλον
οἴκοθεν ἔχουσα χρηστὸν ἐξήρκουν ἐμοί.
né dentro casa parole scaltre di femmineintroducevo, ma avendo come buon maestrola mia intelligenza bastavo a me stessa.γλώσσης τε σιγὴν ὄμμα θ’ ἥσυχον πόσει
παρεῖχον· ᾔδη δ’ ἁμὲ χρῆν νικᾶν πόσιν, 655
κείνῳ τε νίκην ὧν ἐχρῆν παριέναι.
Silenzio di lingua e sguardo pacato offrivoallo sposo; sapevo in cosa dovevo vincere lo sposo,e in cosa dovevo lasciare a quello la vittoria.καὶ τῶνδε κληδὼν ἐς στράτευμ’ Ἀχαιϊκὸν
ἐλθοῦσ’ ἀπώλεσέν μ’· ἐπεὶ γὰρ ᾑρέθην,
Ἀχιλλέως με παῖς ἐβουλήθη λαβεῖν
δάμαρτα· δουλεύσω δ’ ἐν αὐθεντῶν δόμοις. 660
E la fama23 di queste virtù, giunta all’esercito Acheomi ha rovinato; dopo che fui catturata infatti,il figlio di Achille volle prendermicome moglie; ma servirò in casa di assassini.κεἰ μὲν παρώσασ’ Ἕκτορος φίλον κάρα
πρὸς τὸν παρόντα πόσιν ἀναπτύξω φρένα,
κακὴ φανοῦμαι τῷ θανόντι· τόνδε δ’ αὖ
στυγοῦσ’ ἐμαυτῆς δεσπόταις μισήσομαι.
E se mettendo da parte il caro capo di Ettoreaprirò il cuore allo sposo attuale,apparirò spregevole con quello morto; d’altra parte odiandoquesto sarò in odio dei padroni della mia persona.καίτοι λέγουσιν ὡς μί’ εὐφρόνη χαλᾷ 665
τὸ δυσμενὲς γυναικὸς εἰς ἀνδρὸς λέχος·
ἀπέπτυσ’ αὐτήν, ἥτις ἄνδρα τὸν πάρος
καινοῖσι λέκτροις ἀποβαλοῦσ’ ἄλλον φιλεῖ.
Eppure dicono che una sola notte ammorbidiscela ripugnanza di una donna per il letto di un uomo;io caccio via a sputi quella che avendo respintol’uomo di prima per nuovi letti ama un altro.ἀλλ’ οὐδὲ πῶλος ἥτις ἂν διαζυγῇ
τῆς συντραφείσης, ῥᾳδίως ἕλξει ζυγόν. 670
καίτοι τὸ θηριῶδες ἄφθογγόν τ’ ἔφυ
ξυνέσει τ’ ἄχρηστον τῇ φύσει τε λείπεται.
Ma neppure una puledra, che venga separatada quella cresciuta insieme a lei, tirerà facilmente il giogo.Eppure la bestia è per natura priva di parolae incapace di usare l’intelligenza ed è inferiore per natura.σὲ δ’, ὦ φίλ’ Ἕκτορ, εἶχον ἄνδρ’ ἀρκοῦντά μοι
ξυνέσει γένει πλούτῳ τε κἀνδρείᾳ μέγαν·
ἀκήρατον δέ μ’ ἐκ πατρὸς λαβὼν δόμων 675
πρῶτος τὸ παρθένειον ἐζεύξω λέχος.
In te, Ettore mio, avevo l’uomo che mi bastavagrande per intelligenza stirpe ricchezza e coraggio;dopo avermi presa intatta dalla casa del padretu per primo aggiogasti (al tuo) il (mio) letto verginale.καὶ νῦν ὄλωλας μὲν σύ, ναυσθλοῦμαι δ’ ἐγὼ
πρὸς Ἑλλάδ’ αἰχμάλωτος ἐς δοῦλον ζυγόν.
E ora sei morto tu, mentre io sono portata via in navein Grecia come prigioniera di guerra a un giogo servile.ἆρ’ οὐκ ἐλάσσω τῶν ἐμῶν ἔχειν κακῶν
Πολυξένης ὄλεθρος, ἣν καταστένεις; 680
ἐμοὶ γὰρ οὐδ’ ὃ πᾶσι λείπεται βροτοῖς
ξύνεστιν ἐλπίς, οὐδὲ κλέπτομαι φρένας
πράξειν τι κεδνόν· ἡδὺ δ’ ἐστὶ καὶ δοκεῖν.
Non ha dunque mali minori dei mieila morte di Polissena, che tu compiangi?Con me infatti nemmeno ciò che rimane a tutti i mortaliresta, la speranza, né mi illudoche capiterà qualcosa di buono; comunque è dolce anche crederlo.
vv. 709-779
ΤΑΛΘΥΒΙΟΣ
Φρυγῶν ἀρίστου πρίν ποθ’ Ἕκτορος δάμαρ,709
μή με στυγήσῃς· οὐχ ἑκὼν γὰρ ἀγγελῶ. 710
Δαναῶν δὲ κοινὰ Πελοπιδῶν τ’ ἀγγέλματα . . . .
Moglie di Ettore, una volta, in precedenza, il migliore dei Frigi,non odiarmi: infatti non di mia volontà annuncerò
Αν.
τί δ’ ἔστιν; ὥς μοι φροιμίων ἄρχῃ κακῶν.
Τα.
ἔδοξε τόνδε παῖδα . . . πῶς εἴπω λόγον;
Cosa c’é? che preludio di mali mi inizi!
Mi parve che questo bambino… come posso dire l’ordine?
Αν.
μῶν οὐ τὸν αὐτὸν δεσπότην ἡμῖν ἔχειν;
Τα.
οὐδεὶς Ἀχαιῶν τοῦδε δεσπόσει ποτέ. 715
Forse che non avrà il nostro stesso padrone?
Nessuno degli Achei sarà mai suo padrone.
Αν.
ἀλλ’ ἐνθάδ’ αὐτοῦ λείψανον Φρυγῶν λιπεῖν;
Τα.
οὐκ οἶδ’ ὅπως σοι ῥᾳδίως εἴπω κακά.
Ma allora lasciarlo proprio qui, avanzo dei Frigi?
Non so come potrei dirti le sventure senza difficoltà.
Αν.
ἐπῄνεσ’ αἰδῶ, πλὴν ἐὰν λέγῃς καλά.
Τα.
κτενοῦσι σὸν παῖδ’, ὡς πύθῃ κακὸν μέγα.
Approvo il pudore, a meno che tu mi dica cose belle.
Uccideranno il tuo bambino, perché tu conosca il grande male.
Αν.
οἴμοι, γάμων τόδ’ ὡς κλύω μεῖζον κακόν. 720
Τα.
νικᾷ δ’ Ὀδυσσεὺς ἐν Πανέλλησιν λέγων . . .
Ahimé, questo che odo è un male veramente più grande delle nozze.
Odisseo vince quando parla tra tutti i Greci…
Αν.
αἰαῖ μάλ’· οὐ γὰρ μέτρια πάσχομεν κακά.
Τα.
λέξας ἀρίστου παῖδα μὴ τρέφειν πατρὸς . . .
Ahi ahi davvero: infatti subiamo mali senza misura.
Ha detto di non allevare il figlio di un padre valorosissimo…
Αν.
τοιαῦτα νικήσειε τῶν αὑτοῦ πέρι.
Τα.
ῥῖψαι δὲ πύργων δεῖν σφε Τρωικῶν ἄπο. 725
ἀλλ’ ὣς γενέσθω, καὶ σοφωτέρα φανῇ·
Possa avere una tale vittoria sui propri!
e che bisogna gettarlo giù dalle torri troiane.Ma così sia, e tu apparirai più saggia;
μήτ’ ἀντέχου τοῦδ’, εὐγενῶς δ’ ἄλγει κακοῖς,
μήτε σθένουσα μηδὲν ἰσχύειν δόκει.
non restare attaccata a questo, soffri dei mali con nobiltà,
e non credere di essere potente dato che non hai nessuna forza24.
ἔχεις γὰρ ἀλκὴν οὐδαμῇ. σκοπεῖν δὲ χρή·
πόλις τ’ ὄλωλε καὶ πόσις, κρατῇ δὲ σύ, 730
ἡμεῖς δὲ πρὸς γυναῖκα μάρνασθαι μίαν
οἷοί τε. τούτων οὕνεκ’ οὐ μάχης ἐρᾶν
οὐδ’ αἰσχρὸν οὐδὲν οὐδ’ ἐπίφθονόν σε δρᾶν,
οὐδ’ αὖ σ’ Ἀχαιοῖς βούλομαι ῥίπτειν ἀράς.
Infatti non hai sostegno da nessuna parte. Bisogna invece riflettere:
la città è morta e anche lo sposo, e tu sei un possesso,
noi invece di combattere nei confronti di una sola donna
siamo ben capaci. Perciò non voglio che tu ami la battaglia,
né che tu faccia qualcosa di turpe o odioso,
né ancora che tu scagli maledizioni contro gli Achei.
εἰ γάρ τι λέξεις ὧν χολώσεται στρατός, 735
οὔτ’ ἂν ταφείη παῖς ὅδ’ οὔτ’ οἴκτου τύχοι.
Se infatti dirai qualcosa di cui l’esercito si risentirà,
questo bambino non sarebbe sepolto e non otterrebbe compianto.
σιγῶσα δ’ εὖ τε τὰς τύχας κεκτημένη
τὸν τοῦδε νεκρὸν οὐκ ἄθαπτον ἂν λίποις
αὐτή τ’ Ἀχαιῶν πρευμενεστέρων τύχοις.
Tacendo invece e guadagnando bene la tua sorte
non lasceresti insepolto il cadavere di questo
e tu stessa troveresti gli Achei più benevoli.
Oh amatissimo, oh figlio straordinariamente onorato,morirai per mano dei nemici lasciandomi madre infelice,ti ucciderà la nobiltà del padre,la quale per gli altri è salvezza,ma il valore del padre non giunse a te al momento opportuno.ὦ λέκτρα τἀμὰ δυστυχῆ τε καὶ γάμοι, 745
οἷς ἦλθον ἐς μέλαθρον Ἕκτορός ποτε,
οὐ σφάγιον υἱὸν Δαναΐδαις τέξουσ’ ἐμόν,
ἀλλ’ ὡς τύραννον Ἀσιάδος πολυσπόρου.
Oh miei letti disgraziati e nozze,per le quali giunsi un tempo nella casa di Ettore,per partorire un figlio mio non come vittima per i Danai,ma come tiranno dell’Asia dai molti semi.ὦ παῖ, δακρύεις· αἰσθάνῃ κακῶν σέθεν;
τί μου δέδραξαι χερσὶ κἀντέχῃ πέπλων, 750
νεοσσὸς ὡσεὶ πτέρυγας ἐσπίτνων ἐμάς;
Oh figlio, tu piangi; ti rendi conto dei tuoi mali?Perché mi hai afferrata con le mani e ti attacchi ai pepli,come un pulcino rifugiandoti sotto le mie ali?οὐκ εἶσιν Ἕκτωρ κλεινὸν ἁρπάσας δόρυ
γῆς ἐξανελθὼν σοὶ φέρων σωτηρίαν,
οὐ συγγένεια πατρός, οὐκ ἰσχὺς Φρυγῶν·
λυγρὸν δὲ πήδημ’ ἐς τράχηλον ὑψόθεν 755
πεσὼν ἀνοίκτως, πνεῦμ’ ἀπορρήξεις σέθεν.
Non verrà Ettore dopo aver afferrato l’inclita lanciauscito dalla terra a portarti salvezza,non la nobiltà del padre, non la potenza dei Frigi;invece caduto a precipizio con funesto balzodall’alto spietatamente, strapperai via il respiro.ὦ νέον ὑπαγκάλισμα μητρὶ φίλτατον,
ὦ χρωτὸς ἡδὺ πνεῦμα· διὰ κενῆς ἄρα
ἐν σπαργάνοις σε μαστὸς ἐξέθρεψ’ ὅδε,
μάτην δ’ ἐμόχθουν καὶ κατεξάνθην πόνοις. 760
Oh tenero abbraccio carissimo alla madre,oh dolce respiro della carne; inutilmente dunquein fasce ti nutrì questo seno,invano mi affannavo e mi consumai nelle pene25.νῦν—οὔποτ’ αὖθις—μητέρ’ ἀσπάζου σέθεν,
πρόσπιτνε τὴν τεκοῦσαν, ἀμφὶ δ’ ὠλένας
ἕλισσ’ ἐμοῖς νώτοισι καὶ στόμ’ ἅρμοσον.
Ora – non ci sarà mai più un’altra volta – abbraccia la tua mamma,stringiti a chi ti ha partorito, avvolgi le bracciaintorno alle mie spalle e avvicina la bocca.ὦ βάρβαρ’ ἐξευρόντες Ἕλληνες κακά,
τί τόνδε παῖδα κτείνετ’ οὐδὲν αἴτιον; 765
Oh Greci che avete inventato barbare atrocità,perché uccidete questo bambino che non ha nessuna colpa?26ὦ Τυνδάρειον ἔρνος, οὔποτ’ εἶ Διός,
πολλῶν δὲ πατέρων φημί σ’ ἐκπεφυκέναι,
Ἀλάστορος μὲν πρῶτον, εἶτα δὲ Φθόνου,
Φόνου τε Θανάτου θ’ ὅσα τε γῆ τρέφει κακά.
ma da molti padri dico che sei nata,prima di tutto da Genio venticatore, poi da Astio,e da Strage e da Morte e da quanti mali nutre la terra.οὐ γάρ ποτ’ αὐχῶ Ζῆνά γ’ ἐκφῦσαί σ’ ἐγώ, 770
πολλοῖσι κῆρα βαρβάροις Ἕλλησί τε.
ὄλοιο· καλλίστων γὰρ ὀμμάτων ἄπο
αἰσχρῶς τὰ κλεινὰ πεδί’ ἀπώλεσας Φρυγῶν.
Infatti io non lo presumo mai che Zeus almeno abbia generato te,sciagura per molti barbari e Greci.Possa tu morire: infatti dai tuoi bellissimi occhihai turpemente mandato in rovina le gloriose piane dei Frigi.<ἀλλ’> ἄγετε φέρετε ῥίπτετ’, εἰ ῥίπτειν δοκεῖ·
δαίνυσθε τοῦδε σάρκας. ἔκ τε γὰρ θεῶν 775
διολλύμεσθα, παιδί τ’ οὐ δυναίμεθ’ ἂν
θάνατον ἀρῆξαι. κρύπτετ’ ἄθλιον δέμας
καὶ ῥίπτετ’ ἐς ναῦς· ἐπὶ καλὸν γὰρ ἔρχομαι
ὑμέναιον, ἀπολέσασα τοὐμαυτῆς τέκνον.
Sù prendetelo portatelo via, buttatelo giù, se vi sembra giusto buttarlo giù,banchettate con le sue carni. Infatti dagli dèisiamo annientati, e dal figlio non potremmotener lontana la morte. Coprite il mio misero corpoe buttatelo nelle navi; infatti vado verso un bel
matrimonio, dopo aver perduto la mia creatura.
22 Esempio di sapienza silenica. È il fondo originario della sensibilità greca, sensibilità così acuta che per rendere la vita sopportabile i Greci hanno dovuto giustificarla in chiave estetica: questa è la lettura che Nietzsche fa del canto XI dell’Odissea, quando Odisseo incontra Achille.
23 Qui Euripide rovescia la visione basata sulla «civiltà di vergogna» di cui parla Dodds in I Greci e l’irrazionale (cap. I, L’apologia di Agamennone): «alcuni antropologi americani ci hanno recentemente insegnato a distinguere le «civiltà di vergogna» dalle «civiltà di colpa», e la società descritta da Omero è sicuramente una civiltà di vergogna. Il bene supremo dell'uomo omerico non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, sta nel possesso della tīmē, la pubblica stima. “Perché dovrei combattere, domanda Achille, se nello stesso pregio (τιμή) sono il codardo e il prode?”. La più potente forza morale nota all'uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell'opinione pubblica, aidōs: αἰδέομαι Τρῶας, dice Ettore nel momento risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti». Nel caso di Ecuba la «pubblica stima» è proprio ciò che la rovina.
Concetti analoghi in Tacito, Agricola, 5, 4: intravitque animum militaris gloriae cupido, ingrata temporibus quibus sinistra erga eminentis interpretatio nec minus periculum ex magna fama quam ex mala, «e pervase il suo animo la brama di gloria militare, sgradita in tempi in cui veniva interpretata con malevolenza nei confronti di chi si distingueva né era minore il pericolo derivante da una fama grande di quello derivante da una cattiva» (Tacito sta descrivendo i tempi di Domiziano, principe tra l’81 e il 96, invidioso di chiunque potesse metterlo in ombra). Cfr. anche La Rochefoucauld, Massime, 29: Le mal que nous faisons ne nous attire pas tant de persécution et de haine que nos bonnes qualités, «Il male che facciamo non ci attira tante persecuzioni e odio quanto le nostre buone qualità».
24 Questo discorso di Taltibio sembra riecheggiare le argomentazioni enunciate ai Meli dagli ambasciatori Ateniesi, nel dialogo riportato da Tucidide; ricordiamo che la tragedia è stata composta e rappresentata pochi mesi dopo l’eccidio. Vediamone alcune. Storie, V, 89: δίκαια μὲν ἐν τῷ ἀνθρωπείῳ λόγῳ ἀπὸ τῆς ἴσης ἀνάγκης κρίνεται, δυνατὰ δὲ οἱ προύχοντες πράσσουσι καὶ οἱ ἀσθενεῖς ξυγχωροῦσιν, «il giusto in ragionamento umano è giudicato a partire da una pari necessità, mentre il possibile i superiori lo compiono e i deboli cedono»; 103, 2: ὃ ὑμεῖς ἀσθενεῖς τε καὶ ἐπὶ ῥοπῆς μιᾶς ὄντες μὴ βούλεσθε παθεῖν μηδὲ ὁμοιωθῆναι τοῖς πολλοῖς, οἷς παρὸν ἀνθρωπείως ἔτι σῴζεσθαι, ἐπειδὰν πιεζομένους αὐτοὺς ἐπιλίπωσιν αἱ φανεραὶ ἐλπίδες, ἐπὶ τὰς ἀφανεῖς καθίστανται μαντικήν τε καὶ χρησμοὺς καὶ ὅσα τοιαῦτα μετ᾽ ἐλπίδων λυμαίνεται, «e voi che siete deboli e avete una sola possibilità, non vogliate subire ciò [la distruzione totale] né essere assimilati ai più, i quali pur avendo la possibilità di salvarsi con mezzi umani, dopo che abbattuti li abbiano abbandonati le speranze visibili, ricorrono a quelle invisibili, la mantica e gli oracoli e quante cose siffatte rovinano insieme alle speranze»; infine riporto l’argomentazione finale, che poi è la teoria del diritto del più forte, esposta nel modo più spietatamente lucido (105, 2): [2] ἡγούμεθα γὰρ τό τε θεῖον δόξῃ τὸ ἀνθρώπειόν τε σαφῶς διὰ παντὸς ὑπὸ φύσεως ἀναγκαίας, οὗ ἂν κρατῇ, ἄρχειν: καὶ ἡμεῖς οὔτε θέντες τὸν νόμον οὔτε κειμένῳ πρῶτοι χρησάμενοι, ὄντα δὲ παραλαβόντες καὶ ἐσόμενον ἐς αἰεὶ καταλείψοντες χρώμεθα αὐτῷ, εἰδότες καὶ ὑμᾶς ἂν καὶ ἄλλους ἐν τῇ αὐτῇ δυνάμει ἡμῖν γενομένους δρῶντας ἂν ταὐτό, «noi riteniamo infatti che la divinità secondo l’opinione e l’umanità chiaramente in ogni circostanza per natura necessaria, laddove sia più forte, prevalga; e noi né avendo stabilito la legge né avendola usata per primi mentre era in vigore, ma avendola ereditata che già c’era e essendo destinati a lasciarla in eredità perché esista sempre, la usiamo, sapendo che anche voi e altri, se foste nella medesima condizione di potenza di noi, fareste lo stesso».
25 Questo verso è un’autocitazione: lo ritroviamo pressoché identico in Medea, 1029-1030 e in entrambe le tragedie è associato alla funzione materna: ἄλλως ἄρ' ὑμᾶς, ὦ τέκν', ἐξεθρεψάμην, / ἄλλως δ' ἐμόχθουν καὶ κατεξάνθην πόνοις, «invano dunque, o figli, vi nutrii, / invano mi affannavo e mi consumai nelle pene». È interessante notare che nelle Troiane la prospettiva è ribaltata rispetto alla Medea: in questa infatti si tratta dei figli che la madre intende uccidere ed è quindi rappresentato un contrasto interiore che sfocia in una vendetta personale; in quella invece si tratta della pena di una madre il cui figlio viene massacrato dai nemici in ossequio alla cinica logica della guerra.
26 Una simile condanna delle atrocità della guerra si trova in Ecuba, v. 278: μηδὲ κτάνητε· τῶν τεθνηκότων ἅλις, «non uccidetela: ce n’è abbastanza di morti». È Ecuba che scongiura Odisseo di non uccidere Polissena, la quale però, con grandissima nobiltà affronta il suo destino con queste parole (v. 378): τὸ γὰρ ζῆν μὴ καλῶς μέγας πόνος, «vivere senza bellezza è una grande fatica». Sofocle racconta nell Aiace che l’eroe eponimo della tragedia, che era il guerriero più valoroso dopo Achille, in virtù del suo valore aveva diritto alle armi di Achille, che era morto; Ulisse, però, con la sua abilità retorica convince gli Achei a consegnargliele. Aiace allora per l'umiliazione patita incappa in un momento di follia durante il quale stermina un gregge di pecore scambiate per uno stuolo di nemici. Per la vergogna decide di uccidersi dicendo che (479-80) ἀλλ' ἢ καλῶς ζῆν , ἢ καλῶς τεθνηκέναι / τὸν εὐγενῆ χρῆ, «è necessario che il nobile o viva nella bellezza o nella bellezza muoia», e così si uccide buttandosi sulla propria spada.
Questa, inoltre, non è solo una condanna delle atrocità della guerra, ma è anche una condanna dell’imperialismo pronunciata dal nemico: questi versi pronunciati da una troiana contro i Greci (non Achei o Danai) nel 415 a.C. ad Atene, non potevano non significare per gli spettatori Ateniesi una condanna dell’imminente, e destinata al disastro, spedizione in Sicilia (415-413 a.C.). In questa chiave tali versi si possono associare alla condanna dell’imperialismo romano pronunciata da un nemico come Calgaco in Agricola, 30: Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, et mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere, falsis nominibus imperium, atque, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, «I Romani, dei quali invano puoi evitare la superbia con la sottomissione e la docilità. Rapinatori del mondo, dopo che a loro che devastano tutto sono mancate le terre, scrutano il mare: se il nemico è ricco sono avidi, se è povero bramosi di potere, essi che non l’Oriente, non l’Occidente possono saziare: soli tra tutti bramano con uguale slancio ricchezza e povertà. Rubare, massacrare, rapire lo chiamano con falsi nomi impero e dove fanno un deserto lo chiamano pace».
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