sabato 5 ottobre 2024

Bellezza e semplicità – prima redazione

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Il culto della bellezza unita alla semplicità

 In occasione delle celebrazioni tenutesi nel 430 a.C. per commemorare i caduti del primo anno di guerra1, Tucidide riporta il discorso che fece Pericle (il cosiddetto λόγος ἐπιτάφιος, il secondo dei tre discorsi riportati dallo storiografo). Per onorare i caduti Pericle celebra la patria per cui hanno combattuto definendola «scuola dell’Ellade» (II, 41, 1): 'Ξυνελών τε λέγω τήν τε πᾶσαν πόλιν τῆς Ἑλλάδος παίδευσιν εἶναι, «Riassumendo dico che tutta la città è la scuola dell’Ellade». Nei paragrafi che seguono il Pericle di Tucidide esprime la quintessenza della grecità:

II, 40, 1-2 
[1] Φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ' εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας· πλούτῳ τε ἔργου μᾶλλον καιρῷ ἢ λόγου κόμπῳ χρώμεθα, καὶ τὸ πένεσθαι οὐχ ὁμολογεῖν τινὶ αἰσχρόν, [2] ἀλλὰ μὴ διαφεύγειν ἔργῳ αἴσχιον. ἔνι τε τοῖς αὐτοῖς οἰκείων ἅμα καὶ πολιτικῶν ἐπιμέλεια, καὶ ἑτέροις πρὸς ἔργα τετραμμένοις τὰ πολιτικὰ μὴ ἐνδεῶς γνῶναι· μόνοι γὰρ τόν τε μηδὲν τῶνδε μετέχοντα οὐκ ἀπράγμονα, ἀλλ' ἀχρεῖον νομίζομεν, καὶ οἱ αὐτοὶ ἤτοι κρίνομέν γε ἢ ἐνθυμούμεθα ὀρθῶς τὰ πράγματα, οὐ τοὺς λόγους τοῖς ἔργοις βλάβην ἡγούμενοι, ἀλλὰ μὴ προδιδαχθῆναι μᾶλλον λόγῳ πρότερον ἢ ἐπὶ ἃ δεῖ ἔργῳ ἐλθεῖν. 
«Amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza; usiamo la ricchezza2 più come occasione di agire che come vanteria3 di parole, e essere povero non è una vergogna ammetterlo, ma piuttosto è una vergogna non evitarlo con l’operosità. Nelle medesime persone c’è la cura degli affari privati e insieme di quelli pubblici, e per gli altri che sono rivolti a delle attività è possibile conocsere le questioni politiche adeguatamente; noi soli consideriamo chi non partecipa in nulla a questi problemi non pacifico, ma inutile4, e proprio noi giudichiamo o esaminiamo correttamente i fatti, considerando un danno per le azioni non i discorsi, ma se mai non essere istruiti in anticipo con la parola prima cioè di giungere a ciò che si deve compiere con lazione».

 Sul culto della bellezza promosso da Pericle si sofferma anche Plutarco, parlando dei monumenti da lui lasciati in eredità ai posteri (Vita di Pericle, 13, 4-5):

καὶ μᾶλλον θαυμάζεται τὰ Περικλέους ἔργα, πρὸς πολὺν χρόνον ἐν ὀλίγῳ [5] γενόμενα. κάλλει μὲν γὰρ ἕκαστον εὐθὺς ἦν τότ' ἀρχαῖον, ἀκμῇ δὲ μέχρι νῦν πρόσφατόν ἐστι καὶ νεουργόν· οὕτως ἐπανθεῖ καινότης ἀεί τις, ἄθικτον ὑπὸ τοῦ χρόνου διατηροῦσα τὴν ὄψιν, ὥσπερ ἀειθαλὲς πνεῦμα καὶ ψυχὴν ἀγήρω5 καταμεμειγμένην τῶν ἔργων ἐχόντων. 
«E ancora di più sono ammirate le opere di Pericle, nate in poco tempo per una lunga durata. Per la belezza infatti ciascuna era già allora antica, mentre per il vertice raggiunto appare ancora oggi recente e appena ultimata; così è sempre in fiore una certa novità che mantiene l’aspetto intatto dal tempo, come se le opere avessero uno spirito sempreverde e infusa un’anima che non invecchia».

 Tale visione della bellezza si può associare a Caio Petronio, l’elegantiae arbiter identificato come l’autore del Satyricon, di cui ci parla Tacito negli Annales (XVI, 18):

illi dies per somnum, nox officiis et oblectamentis uitae transigebatur; utque alios industria, ita hunc ignauia ad famam protulerat, habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. Pro consule tamen Bithyniae et mox consul uigentem se ac parem negotiis ostendit. Dein reuolutus ad uitia seu uitiorum imitatione inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobauisset. 
«Egli trascorreva il giorno nel sonno, la notte negli affari e nei piaceri della vita; e come l’operosità aveva portato alla fama gli altri, questo ve lo aveva portato l’indolenza, ed era considerato non un debosciato e uno scialacquatore, come i più che danno fondo alle loro sostanze, ma uno dalla raffinatezza ricercata. E le sue parole e azioni quanto più erano disinvolte e presentavano una certa trascuratezza di sé, con tanto maggior favore erano accolte come manifestazione di semplicità. Tuttavia come proconsole in Bitinia e subito dopo come console si dimostrò energico e all’altezza dei compiti. Poi ritornato ai vizi o anche per imitazione dei vizi, fu ammesso tra i pochi intimi di Nerone, come arbitro di eleganza, tanto che il principe niente riteneva bello e delicato se non ciò che Petronio gli avesse approvato».

 La neglegentia di Petronio trova corrispondenza nella «magnifica negligenza che Ulrich, nel romanzo di Musil L’uomo senza qualità, riscontra nelle case dell’aristocrazia rispetto a quelle della borghesia (Parte seconda, Le stesse cose ritornano, 67. Diotima e Ulrich):

«Gli ambienti aristocratici erano i resti di un modo di vivere grandioso ma senza acqua corrente, e nelle case e nelle sale di riunione della ricca borghesia se ne vedeva ripetuta la copia, migliorata nel gusto e nei servizi igienici, ma alquanto sbiadita. Una casta dominante rimane sempre un poco barbarica; scorie e residui, che il fuoco del tempo non aveva bruciati, eran rimasti sparsi al loro posto nei castelli patrizi; vicino agli scaloni donore il piede calcava tavolati di legno dolce, e orrendi mobili nuovi se ne stavano placidi fra stupendi pezzi antichi. La classe degli arricchiti, invece, innamorata dei grandi, eccelsi momenti dei suoi predecessori, aveva fatto involontariamente una scelta più raffinata, Se un castello apparteneva a una famiglia borghese, non lo si vedeva soltanto provvisto di comodità moderne come un lampadario avito rivestito di fili elettrici, ma anche nellarredamento ben poco di bello era stato eliminato, e molte cose di valore erano state aggiunte, o per propria scelta o per consiglio indiscutibile di esperti. Quellaffinamento, ancor più che nei castelli, era evidente nelle abitazioni cittadine, che secondo il gusto del tempo erano arredate nello stile impersonale e fastoso dei transatlantici, ma in quel paese di raffinate ambizioni sociali conservavano - grazie a una patina inimitabile, allopportuno isolamento dei mobili o alla posizione dominante di un quadro su una parete - leco delicata ma chiara di una grande musica svanita 
Erano invitati insieme in residenze campestri, e Ulrich notò che vi si vedeva sovente mangiare la frutta con le mani, senza sbucciarla, mentre nelle case dell'alta borghesia il cerimoniale con coltello e forchetta era rigidamente osservato; la stessa osservazione si poteva fare a proposito della conversazione che quasi soltanto nelle case borghesi era signorile e distinta, mentre negli ambienti aristocratici prevalevano i discorsi disinvolti, senza pretese, alla maniera dei cocchieri. Le dimore borghesi erano più igieniche e razionali. Nei castelli patrizi d'inverno si gelava; le scale logore e strette non erano una rarità, e accanto a sontuose sale di ricevimento si trovavano camere da letto basse e ammuffite. Non esistevano montavivande né bagni per la servitù. Ma, a guardar bene, c'era proprio in questo un senso più eroico, il senso della tradizione e di una magnifica negligenza!».

 La neglegentia si può associare all’ἀμέλεια, la trascuratezza che l’Anonimo Del sublime attribuisce ai grandi talenti, contrapponendola alla piattezza priva di errori dei mediocri. Vediamo cosa dice al cap. 33.

L’autore in questo capitolo si chiede se sia [1] κρεῖττον ἐν ποιήμασι καὶ λόγοις μέγεθος ἐν ἐνίοις διημαρτημένον ἢ τὸ σύμμετρον μὲν ἐν τοῖς κατορθώμασιν ὑγιὲς δὲ πάντη καὶ ἀδιάπτωτον, «meglio negli scritti in versi e in prosa una grandezza che ha fallito in alcuni punti o la mediocrità nelle correttezze, sana ovunque e priva di cadute».

La risposta parte da questa considerazione: [2] αἱ ὑπερμεγέθεις φύσεις ἥκιστα καθαραί· ‹τὸ› γὰρ ἐν παντὶ ἀκριβὲς κίνδυνος μικρότητος, «le nature particolarmente grandi sono le meno pure: infatti la precisione in ogni aspetto diventa un rischio di meschinità», perché εἶναί τι χρὴ καὶ παρολιγωρούμενον, «bisogna che ci sia anche una certa trascuratezza»; così come è forse necessario anche τὸ τὰς μὲν ταπεινὰς καὶ μέσας φύσεις διὰ τὸ μηδαμῆ παρακινδυνεύειν μηδὲ ἐφίεσθαι τῶν ἄκρων ἀναμαρτήτους, τὰ δὲ μεγάλα ἐπισφαλῆ δι' αὐτὸ γίνεσθαι τὸ μέγεθος, «il fatto che le nature meschine e mediocri, non correndo mai rischi, senza mai sbagliare, non raggiungano le vette più alte, mentre i grandi talenti siano inclini a scivolare a causa della loro stessa grandezza».

Segue una riflessione un po’ sconsolata: [3] φύσει πάντα τὰ ἀνθρώπεια ἀπὸ τοῦ χείρονος ἀεὶ μᾶλλον ἐπιγινώσκεται καὶ τῶν μὲν ἁμαρτημάτων ἀνεξάλειπτος ἡ μνήμη παραμένει, τῶν καλῶν δὲ ταχέως ἀπορρεῖ, «per natura tutte le cose umane vengono sempre riconosciute piuttosto nel senso peggiore e il ricordo degli errori permane indelebile, mentre quello delle cose belle scorre via velocemente».

Quindi prosegue con le sue considerazioni su Omero.

[4] παρατεθειμένος δ' οὐκ ὀλίγα καὶ αὐτὸς ἁμαρτήματα καὶ Ὁμήρου καὶ τῶν ἄλλων ὅσοι μέγιστοι, καὶ ἥκιστα τοῖς πταίσμασιν ἀρεσκόμενος, ὅμως δὲ οὐχ ἁμαρτήματα μᾶλλον αὐτὰ ἑκούσια καλῶν ἢ παροράματα δι' ἀμέλειαν εἰκῆ που καὶ ὡς ἔτυχεν ὑπὸ μεγαλοφυΐας ἀνεπιστάτως παρενηνεγμένα, οὐδὲν ἧττον οἶμαι τὰς μείζονας ἀρετάς, εἰ καὶ μὴ ἐν πᾶσι διομαλίζοιεν, τὴν τοῦ πρωτείου ψῆφον μᾶλλον ἀεὶ φέρεσθαι, κἂν εἰ μηδενὸς ἑτέρου, τῆς μεγαλοφροσύνης αὐτῆς ἕνεκα· … ἄπτωτος ὁ Ἀπολλών‹ιος ἐν τοῖς› Ἀργοναύταις ποιητής...

«anche io stesso dopo aver raccolto non pochi errori sia di Omero sia degli altri quanti sono sommi, e non compiacendomi affatto delle loro cadute, tuttavia senza chiamarli errori volontari piuttosto che sviste dovute a noncuranza involontaria e casuale e distrattamente prodotte dalla grandezza del genio, ciò non di meno penso che le qualità maggiori, se anche non si mantengono uguali in tutte le parti, riportino sempre di più il voto più alto, se non altro, per la stessa grandezza di pensiero»… «Apollonio è poeta esente da cadute nelle Argonautiche»...

[5] ἆρ' οὖν Ὅμηρος ἂν μᾶλλον ἢ Ἀπολλώνιος ἐθέλοις γενέσθαι; … καὶ ἐν τραγῳδίᾳ Ἴων ὁ Χῖος ἢ νὴ Δία Σοφοκλῆς; … ὁ δὲ Πίνδαρος καὶ ὁ Σοφοκλῆς ὁτὲ μὲν οἷον πάντα ἐπιφλέγουσι τῇ φορᾷ, σβέννυνται δ' ἀλόγως πολλάκις καὶ πίπτουσιν ἀτυχέστατα.

«Ma vorresti essere Omero piuttosto o Apollonio? … e nella tragedia Ione di Chio o Sofocle, per Zeus? … Pindaro e Sofocle a volte per così dire infiammano tutto con il loro trasporto, ma spesso si spengono senza ragione e cadono nel modo più infelice».

In effetti nel Satyricon emerge un’idea di bellezza coniugata a semplicità e naturalezza che trova i suoi modelli in quelli che già nel I secolo d.C. erano considerati dei classici, contrapponendosi all’ostentazione dell’artificio (cap. 2):

Leuibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis eneruaretur et caderet. Nondum iuuenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides inuenerunt uerba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleuerat, cum Pindarus nouemque lyrici Homericis uersibus canere timuerunt. Et ne poetas quidem ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse uideo. Grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit. 
«Infatti suscitando certi giochetti con suoni leggeri e vuoti, avete fatto in modo che il corpo dell’orazione si rammollisse e cadesse. Non ancora i giovani erano imbrigliati dalle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare. Non ancora un maestro cresciuto nell’ombra aveva distrutto le intelligenze, quando Pindaro e i nove lirici esitarono a cantare con versi omerici. E per non citare solo i poeti a testimonianza, vedo che di certo né Platone né Demostene si sono mai accostati a questo genere di esercitazione. La grande e, per così dire, pudica orazione non è né screziata né gonfia, ma si eleva per naturale bellezza».

 Tucidide associa la semplicità anche alla nobiltà quando parla della guerra civile a Corcira (III, 83, 1):

Οὕτω πᾶσα ἰδέα κατέστη κακοτροπίας διὰ τὰς στάσεις τῷ Ἑλληνικῷ, καὶ τὸ εὔηθες, οὗ τὸ γενναῖον πλεῖστον μετέχει, καταγελασθὲν ἠφανίσθη, 
«Così ogni forma di malignità si produsse nel mondo greco a causa delle guerre civili, e la semplicità, di cui per lo più partecipa la nobiltà, derisa sparì».


1 Si tratta della guerra del Peloponneso che impegnò Atene e Sparta con i rispettivi alleati tra il 431 e il 404 a.C.. Si risolse con la disfatta di Atene.

2 Cfr. Senofonte, Economico, 1, 10-11; il problema posto è se le ricchezze siano un bene e Socrate risponde a Critobulo facendo la distinzione tra κεκτῆσθαι (possedere) e χρῆσθαι (usare): non basta possedere le ricchezze, bisogna saperle usare, cosa per cui ci vuole ἐπιστήμη (scienza, appunto): Ταὐτὰ ἄρα ὄντα τῷ μὲν ἐπισταμένῳ χρῆσθαι αὐτῶν ἑκάστοις χρήματά ἐστι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐ χρήματα· ὥσπερ γε αὐλοὶ τῷ μὲν ἐπισταμένῳ ἀξίως λόγου αὐλεῖν χρήματά εἰσι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐδὲν μᾶλλον ἢ ἄχρηστοι λίθοι, εἰ μὴ ἀποδιδοῖτό γε αὐτούς. τοῦτ' ἄρα φαίνεται ἡμῖν, ἀποδιδομένοις μὲν οἱ αὐλοὶ χρήματα, μὴ ἀποδιδομένοις δὲ ἀλλὰ κεκτημένοις οὔ, τοῖς μὴ ἐπισταμένοις αὐτοῖς χρῆσθαι. «le medesime cose che sono beni utili per chi sa fare uso di ciascuno di essi, per chi non ne sa fare uso sono beni inutili; come i flauti per chi sa suonarli in modo degno di considerazione sono beni utili, per chi non lo saa fare invece sono niente più che sassi inutili, a meno che non li venda. Questo dunque ci è chiaro: per coloro che non sanno usarli, i flauti sono beni utili se li vendono, ma se li possiedono senza venderli no».
 Le ricchezze dunque sono utili solo in relazione all’uso che si è in grado di farne.
 Anche Seneca rifletta su tale distinzione (Epistulae, 9, 14): Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est. «Voglio indicarti anche la distinzione di Crisippo. Dice che il sapiente non manca di nessuna cosa, e tuttavia ha bisogno di molte cose: “al contrario lo stolto non ha bisogno di nessuna cosa – infatti non sa usare nessuna cosa – però manca di tutte”. Il sapiente ha bisogno sia di mani sia di occhi sia di molte cose necessarie all’uso quotidiano, non manca di nessuna cosa; mancare di qualcosa infatti è proprio della necessità, niente è necessario per il sapiente».”

3 Cfr. Sofocle, Antigone, 127-128: Ζεὺς γὰρ μεγάλης γλώσσης κόμπους / ὑπερεχθαίρει, «Zeus detesta i vanti di una lingua superba». È la parodo in cui il coro mette in guardia dagli eccessi, aanche verbali.

4 Pochi anni dopo Platone, nella Repubblica (X, 620b), attribuisce una connotazione positiva al disimpegno politico, πόρρω δ᾽ ἐν ὑστάτοις ἰδεῖν τὴν τοῦ γελωτοποιοῦ Θερσίτου πίθηκον ἐνδυομένην. κατὰ τύχην δὲ τὴν Ὀδυσσέως λαχοῦσαν πασῶν ὑστάτην αἱρησομένην ἰέναι, μνήμῃ δὲ τῶν προτέρων πόνων φιλοτιμίας λελωφηκυῖαν ζητεῖν περιιοῦσαν χρόνον πολὺν βίον ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος, καὶ μόγις εὑρεῖν κείμενόν που καὶ παρημελημένον ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ εἰπεῖν ἰδοῦσαν ὅτι τὰ αὐτὰ ἂν ἔπραξεν καὶ πρώτη λαχοῦσα, καὶ ἁσμένην ἑλέσθαι, «L’anima di Ulisse andava a scegliere sorteggiata per case ultima tra tutte, ma per ricordo delle precedenti sofferenze, guarita dallambizione, cercava andando in giro per molto tempo una vita di un uomo privato sfaccendato, e a stento latrovò che giaceva da qualche parte e trascurata dagli altri, e disse vedendola che avrebbe fatto la stessa scelta anche sorteggiata per prima, e la prese contenta». Siamo nell’oltretomba dove le anime devono scegliere la vita in cui si reincarneranno, e lo fanno per lo più influenzate dalla vita precedente.
 Qui, forse, nel rovesciare il rapporto tra sfera pubblica e privata, è anticipato quel sentimento di stanchezza post-filosofica di cui parla Snell (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale. Il giocoso in Callimaco, pagg. 371-372):

«Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici, mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici. La poesia piú antica tende a scoprire sempre nuovi lati dello spirito, e trova perciò una naturale continuazione nella conquista razionale dei campi che aveva da poco scoperto, cioè nella filosofia e nella scienza. Cosí l'epica ha, coi suoi miti eroici, posto le basi della storiografia jonica e formulando il problema dell'ἀρχή (arché) nei poemi teogonici e cosmologici, ha creato le premesse della filosofia jonica della natura. La lirica porta ad Eraclito, il dramma a Socrate e a Platone. Nel momento in cui sorgeva la poesia ellenistica, declinava la grande epoca d'incessante evoluzione dei sistemi filosofici. Il secolo IV aveva visto nascere le opere di Platone, di Aristotele e di Teofrasto, e alla fine del secolo erano state fondate le due scuole filosofiche piú importanti per i tempi futuri: il Giardino di Epicuro e la Stoa di Zenone. La filosofia aveva dunque raggiunto in Grecia i suoi risultati più alti, quando in un nuovo centro spirituale, in Alessandria d'Egitto, residenza dei Tolomei, si formò una cerchia di poeti, fra cui Teocrito e il piú notevole di tutti, Callimaco, i quali portarono la poesia a una nuova fioritura. Post-filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono piú nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall’universale (cfr. sopra, p. I41) e si rivolgono con amore al particolare».

5 L’anima dei monumenti periclei non invecchia come non invecchia il dio grande dentro le leggi non scritte dell’Edipo re di Sofocle, vv. 863-871: Εἴ μοι ξυνείη φέροντι μοῖρα τὰν / εὔσεπτον ἁγνείαν λόγων / ἔργων τε πάντων, ὧν νόμοι πρόκεινται / ὑψίποδες, οὐρανίαν / δι αἰθέρα τεκνωθέντες, ὧν Ὄλυμπος / πατὴρ μόνος, οὐδέ νιν / θνατὰ φύσις ἀνέρων / ἔτικτεν, οὐδὲ μήποτε λά- / θα κατακοιμάσῃ· / μέγας ἐν τούτοις θεός, οὐδὲ γηράσκει, «Che sia con me la sorte di portare / la sacra purezza di parole / e di opere tutte, davanti alle quali sono stabilite leggi / sublimi, generate / attraverso l'etere celeste, delle quali Olimpo è l'unico padre, né le / partorì natura mortale di uomini, / né mai oblio / le addormenterà: / grande in queste il dio, e non invecchia».

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