Εἰπόντος δὲ ταῦτα τὸν πρῶτον λαχόντα ἔφη εὐθὺς ἐπιόντα τὴν μεγίστην τυραννίδα ἑλέσθαι, καὶ ὑπὸ ἀφροσύνης τε καὶ λαιμαργίας οὐ πάντα ἱκανῶς ἀνασκεψάμενον ἑλέσθαι, ἀλλ' [c] αὐτὸν λαθεῖν ἐνοῦσαν εἱμαρμένην παίδων αὑτοῦ βρώσεις καὶ ἄλλα κακά· ἐπειδὴ δὲ κατὰ σχολὴν σκέψασθαι, κόπτεσθαί τε καὶ ὀδύρεσθαι τὴν αἵρεσιν, οὐκ ἐμμένοντα τοῖς προρρηθεῖσιν ὑπὸ τοῦ προφήτου· οὐ γὰρ ἑαυτὸν αἰτιᾶσθαι τῶν κακῶν, ἀλλὰ τύχην τε καὶ δαίμονας καὶ πάντα μᾶλλον ἀνθ' ἑαυτοῦ.
«Dopo che quello ebbe detto queste cose, (Er) disse che il primo sorteggiato subito andava a scegliere la più grande tirannide, e per stoltezza e avidità scelse senza aver considerato tutto a sufficienza, ma gli sfuggì che era contenuto il destino di divorare i propri figli e altri mali: dopo che ebbe esaminato con calma, si batteva e si lamentava della scelta, non attenendosi alle parole dette prima dall’araldo: infatti non incolpava se stesso dei mali, ma la sorte e gli dèi e tutto tranne se stesso».
εἶναι δὲ αὐτὸν τῶν ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἡκόντων, ἐν τεταγμένῃ πολιτείᾳ ἐν τῷ προτέρῳ βίῳ βεβιωκότα, ἔθει [d] ἄνευ φιλοσοφίας ἀρετῆς μετειληφότα.
«Era egli di quelli che erano giunti dal cielo, che aveva vissuto nella vita precedente in una costituzione ben ordinata, che aveva partecipato della virtù per abitudine senza filosofia».
ὡς δὲ καὶ εἰπεῖν, οὐκ ἐλάττους εἶναι ἐν τοῖς τοιούτοις ἁλισκομένους τοὺς ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἥκοντας, ἅτε πόνων ἀγυμνάστους· τῶν δ' ἐκ τῆς γῆς τοὺς πολλούς, ἅτε αὐτούς τε πεπονηκότας ἄλλους τε ἑωρακότας, οὐκ ἐξ ἐπιδρομῆς τὰς αἱρέσεις ποιεῖσθαι.
«E, per così dire, non erano in numero minore a essere colti in tali situazioni coloro che erano giunti dal cielo, in quanto non allenati alle sofferenze; invece i più tra quelli che erano arrivati dalla terra, siccome avevano sofferto essi stessi e avevano visto altri (soffrire), facevano le scelte non di fretta».
Qui è espresso il topos del πάθει μάθος, la cui formulazione con queste efficaci parole risale a Eschilo, Agamennone, 177, ma si trova in molti altri autori:
Esiodo, Opere e giorni, vv. 217-218
δίκη δ' ὑπὲρ ὕβριος ἴσχει
ἐς τέλος ἐξελθοῦσα· παθὼν δέ τε νήπιος ἔγνω.
«Ma giustizia prevale sulla prepotenza, / quando alla fine arriva; anche uno stolto comprende soffrendo».
Eschilo, Agamennone, 177
Ζῆνα δέ τις προφρόνως ἐπινίκια κλάζων
τεύξεται φρενῶν τὸ πᾶν,
τὸν φρονεῖν βροτοὺς ὁδώ-
σαντα, τὸν πάθει μάθος
θέντα κυρίως ἔχειν.
«Chi intona a Zeus con gioia il canto della vittoria / otterrà in tutto saggezza, / Zeus che ha avviato i mortali ad essere saggi, / che ha stabilito come legge principale / attraverso la sofferenza la comprensione».
Eschilo, Prometeo, 391
ἡ σή, Προμηθεῦ, συμφορὰ διδάσκαλος
«La tua disgrazia, Prometeo, è maestra».
Sofocle, Edipo a Colono, 567-68
ἔξοιδ’ ἀνὴρ ὢν χὤτι τῆς ἐς αὔριον
οὐδὲν πλέον μοι σοῦ μέτεστιν ἡμέρας.
«So di essere un uomo e che il giorno di / domani non appartiene affatto più a me che a te».
Un’affermazione di umanesimo esemplare, come quella di Antigone:
Sofocle, Antigone, 523
Οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.
«Sono nata per condividere non certo l’odio, ma l’amore».
Euripide, Medea, 34
ἔγνωκε δ' ἡ τάλαινα συμφορᾶς ὕπο
«Ha compreso l'infelice dalla disgrazia»
Euripide, Alcesti, 940
ἄρτι μανθάνω
«ora comprendo»
Questa di Admeto nell’Alcesti è una resipiscenza tardiva, dopo essersi pentito per aver fatto morire la moglie al posto suo.
Polibio, Storie, I, 35, 7
δυεῖν γὰρ ὄντων τρόπων πᾶσιν ἀνθρώποις τῆς ἐπὶ τὸ βέλτιον μεταθέσεως, τοῦ τε διὰ τῶν ἰδίων συμπτωμάτων καὶ τοῦ διὰ τῶν ἀλλοτρίων, ἐναργέστερον μὲν εἶναι συμβαίνει τὸν διὰ τῶν οἰκείων περιπετειῶν, ἀβλαβέστερον δὲ τὸν διὰ τῶν ἀλλοτρίων.
«Essendo infatti due i modi del cambiamento in meglio per tutti gli uomini, uno attraverso le sventure proprie e l'altro attraverso quelle altrui, succede che sia più evidente (efficace) quello attraverso le peripezie personali, ma meno dannoso quello attraverso le peripezie altrui».
Didone ne è un altro esempio, commovente in quanto Enea non ricambia la sua umanità. Quando il Troiano, bisognoso di aiuto, le si presenta così lei lo conforta:
Eneide, 630
Non ignara mali, miseris succurrere disco.
«Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri».
Queste invece le ultime parole di Enea a Didone viva (EneideI, IV, vv. 360-361):
Desine meque tuis incendere teque querelis:
Italiam non sponte sequor.
«Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia».
Nietzsche, Umano, troppo umano, I
Parte terza, La vita religiosa
109. Dolore è conoscenza. Ora la tragedia è questa, che non si può credere a quei dogmi della religione e della metafisica, se si porta nel cuore e nella mente il severo metodo della verità, e d'altra parte si è divenuti attraverso l'evoluzione dell'umanità così delicati, eccitabili e sofferenti, da aver bisogno di mezzi di salute e di consolazione della più alta specie; dal che sorge quindi il pericolo che l'uomo si dissangui sulla verità conosciuta. Ciò esprime Byron in versi immortali:
Sorrow is knowledge: they who know the most
Must mourn the deepest o’er the fatal truth,
The Tree of Knowledge is not that of life.1
Contro tali cure, nessun mezzo giova più dell'evocare, almeno per le ore più tristi e buie dell'anima, la solenne leggerezza di Orazio, e del dire a se stessi con lui:
quid aeternis minorem
consiliis animum fatigas?
Cur non sub alta vel platano vel hac
pinu iacentes...2
[...] Quei dolori possono essere veramente penosi, ma senza dolori non si può diventare una guida e un educatore dell'umanità.
Nietzsche, Umano, troppo umano, II
Parte prima, Opinioni e sentenze
48. Aver molta gioia. Chi ha molta gioia, dev'essere un brav'uomo: ma forse non è il più intelligente, benché raggiunga proprio ciò che il più intelligente con tutta la sua intelligenza cerca di raggiungere.
Nietzsche, La gaia scienza, libro primo
13. Per la teoria del sentimento di potenza. … il dolore si pone sempre il problema della causa, mentre il piacere tende ad arrestarsi su se stesso e a non guardarsi indietro.
Nietzsche, Genealogia della morale
seconda dissertazione, «colpa», «cattiva coscienza» e simili, 3
«Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare resta nella memoria» – è questo un assioma della più antica (purtroppo anche più longeva) psicologia sulla terra…
1 «Dolore è la conoscenza: coloro che conoscono più di tutti / devono soffrire più profondamente di tutti per questa fatale verità, / l'albero della conoscenza non è quello della vita» (Byron, Manfredi, I, 1, 11-13).
2 fugit retro / levis iuventas et decor, arida / pellente lascivos amores / canitie facilemque somnum. / Non semper idem floribus est honor / vernis neque uno luna rubens nitet / voltu: quid aeternis minorem / consiliis animum fatigas? / Cur non sub alta vel platano vel hac / pinu iacentes (11-14) sic temere et rosa / canos odorati capillos,/ dum licet, Assyriaque nardo / potamus uncti? «Fugge dietro a noi la leggera gioventù e la grazia, mentre l'arida / vecchiaia scaccia i lascivi amori / e il facile sonno. / Non è sempre la stessa la bellezza dei fiori / primaverili né la luna rosseggiante risplende con un solo / volto: perché stanchi con eterni progetti / un cuore che è più piccolo? / Perché, sdraiati così alla buona sotto un alto platano / o sotto questo pino / coi capelli grigi profumati di rosa / e unti di nardo assiro, / finché è possibile, perché non beviamo?» (Orazio, Odi, II, 11, vv. 5-17).
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