Polibio presenta l’imperialismo romano come il fine a cui tende la storia e ne dà una specie di giustificazione per esempio in Storie VI, dove nel capitolo 50, nel parlare della costituzione di Licurgo, Polibio ne tesse l’elogio, ma solo se si vuole preservare la sicurezza e la libertà; poi prosegue:
εἰ δέ τις μειζόνων ἐφίεται, κἀκείνου κάλλιον καὶ σεμνότερον εἶναι νομίζει τὸ πολλῶν μὲν ἡγεῖσθαι, πολλῶν δ' ἐπικρατεῖν καὶ δεσπόζειν, πάντας δ' εἰς αὐτὸν ἀποβλέπειν [4] καὶ νεύειν πρὸς αὐτόν, τῇδέ πῃ συγχωρητέον τὸ μὲν Λακωνικὸν ἐνδεὲς εἶναι πολίτευμα, τὸ δὲ Ῥωμαίων διαφέρειν καὶ δυναμικωτέραν ἔχειν τὴν σύστασιν (50, 3-4),«se invece uno aspira a imprese maggiori, e ritiene che sia più bello e nobile di quello guidare molti, dominare e signoreggiare molti, che tutti guardino a lui e pieghino il capo davanti a lui, in questo caso bisogna ammettere che la forma di governo spartana è difettosa, mentre quella romana è superiore e ha una costituzione più forte».
Sallustio nell’Epistola di Mitridate lo condanna: Namque Romanis cum nationibus, populis, regibus cunctis una et ea vetus causa bellandi est, cupido profunda imperi et divitiarum, «e infatti i Romani hanno quell’unica e antica causa di fare la guerra con tutte le nationi, i popoli e i re, la brama illimitata di potere e ricchezza». Viene dunque smontata ogni possibile nobiltà delle ragioni dell’imperialismo.
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