giovedì 20 marzo 2025

Euripide, Baccanti – Introduzione di Dodds – cap. III: IL POSTO DELLE BACCANTI NELL’OPERA DI EURIPIDE – Maturità 2025

qui l’intera introduzione in PDF


III. IL POSTO DELLE BACCANTI NELL’OPERA DI EURIPIDE

Dopo la messa in scena dell’Oreste nella primavera del 408 Euripide lasciò Atene, per non tornare più: egli aveva accettato l’invito di Archelao, il re ellenizzante dei semi-barbari Macedoni, che era ansioso di rendere la sua corte un centro di cultura greca. Il poeta aveva più di 70 anni e, come abbiamo ragione di credere, era un uomo deluso. Se gli elenchi dei vincitori costituissero una prova, egli come drammaturgo era stato piuttosto privo di successo; era diventato il bersaglio dei poeti comici; e in un’Atene travagliata da venti anni di crescenti disastri bellici, la sua critica esplicita alla demagogia e al potere politico dovette procurargli molti nemici. Può esserci certamente del vero nella tradizione conservata in un frammento di Filodemo – φασὶν ἀχθόμενον αὐτὸν ἐπὶ τῷ σχεδὸν πάντας ἐπιχαίρειν πρὸς Ἀρχέλαον ἀπελθεῖν1. In Macedonia continuò a scrivere, mettendo in scena l’Archelao, un dramma su un antenato eponimo del suo ospite, che potè essere rappresentato nel nuovo teatro costruito da Archelao a Dione. E quando morì, nell’inverno del 407-406, tre nuove tragedie furono trovate fra le sue carte: le Baccanti, lAlcmeone a Corinto (ora perduta) e l’Ifigenia in Aulide – quest’ultima forse incompiuta. In seguito questi drammi furono allestiti ad Atene dal figlio (o nipote) del poeta, Euripide il giovane, e vinsero il primo premio. La supposizione così creatasi che le Baccanti furono completate, se non concepite, in Macedonia ricava sostegno dai riferimenti elogiativi alla Pieria (vv. 409-11 n.) e alla valle del Ludia (vv. 568-75 n.) – regioni entrambe che Euripide verosimilmente visitò, perché Dione era situata nella prima e Ege, capitale della Macedonia, nella seconda. Non penso tuttavia che sia probabile che il dramma fosse in origine immaginata per un pubblico macedone: le allusioni a teorie e controversie contemporanee dei vv. 201-203, 270-271, 274 sqq., 890 sqq., e altrove (vedi commento), sono sicuramente indirizzate orecchie ateniesi; e noi abbiamo visto che in questo periodo il problema sociale della religione orgiastica era di forte attualità ad Atene almeno quanto in Macedonia.

Perché Euripide, infaticabile innovatore e sperimentatore come era sempre stato, lascia come ultima eredità ai suoi compatrioti questo prodigio di dramma, attuale ancorché profondamente tradizionale, “vecchio stampo” sia per stile e struttura, sia negli eventi che rappresentava, ancorché carico di una inquietante tensione emotiva? Aveva egli qualche lezione che desiderava impartire loro? La maggior parte dei suoi sedicenti interpreti hanno pensato così, sebbene non sono riusciti ad accordarsi sulla natura di tale lezione. Siccome il dramma mette in mostra la potenza di Dioniso e il terribile fato di coloro che gli si oppongono, la prima spiegazione che si è presentata agli studiosi fu che il poeta avesse avuto (o ritenuto opportuno simulare) una conversione in punto di morte: le Baccanti erano una “palinodia”, una ritrattazione di quell’ “ateismo”, di cui Aristofane aveva accusato il suo autore (Tesmoforiazuse, 450 sq.)2; erano state scritte per difendere Euripide dall’accusa di empietà che presto avrebbe sopraffatto il suo amico Socrate (Tyrwhitt, Schoene), o per giustificarlo con il pubblico su questioni nelle quali era stato frainteso” (Sandys), o a partire da una genuina convinzioneche la religione non dovesse essere esposta alle sottigliezze del ragionamento” (K. O. Müller), in quanto egli non aveva trovato nessuna soddisfazione nel suo non credere” (Paley). Piuttosto stranamente, pare che editori che erano buoni cristiani siano stati gratificati da questa idea della conversione in extremis del loro poeta all’ortodossia pagana; e questa, o qualcosa di simile, rimase l’opinione prevalente fino alla fine del diciannovesimo secolo3. In questo periodo sorse una generazione che, avendo tutta una serie differente di pregiudizi, ammirò Euripide per tutt’altre ragioni e cercò di rendere le Baccanti conformi alle proprie vedute con una radicale reinterpretazione. Sottolineando correttamente che Cadmo e Tiresia sono mediocri rappresentanti dell’ortodossia e che Dioniso si comporta con spietata crudeltà non solo contro i suoi oppositori, Penteo e Agave, ma anche con il suo sostenitore Cadmo, essi conclusero che la morale vera della tragedia fosse tantum religio potuit suadere malorum4. Tale interpretazione, il cui germe appare già in Patin, fu sviluppata nell’ultima decade del secolo da Wilamowitz e Bruhn in Germania, da Decharme e Weil in Francia; e più tardi (con elaborazioni fantasiose loro proprie) da Norwood e Verrall in Inghilterra. La devota sincerità dei canti corali, per questi critici un affronto e un ostacolo, fu spiegata in vari modi come una concessione al superstizioso pubblico macedone (Weil), o come una riuscita caratterizzazione di fanatismo (Wilamowitz).

I più accorti fra i critici recenti hanno riconosciuto l’inadeguatezza sia della teoria della “palinodia” sia di quella rivale. Ciascuna tesi si adatta ad alcuni fatti, ma manifestamente non si adatta ad altri: cioè entrambe sono troppo grossolane.

(a) Uno studio più preciso dell’opera del poeta nel suo complesso non rivela nessun brusco volta-faccia, come la tesi della “palinodia” postulava. Da una parte il suo interesse e la sua simpatetica comprensione per la religione orgiastica non risalgono al suo periodo macedone: la cosa appare già nel canto degli iniziati nei Cretesi (fr. 472), nell’ode sui misteri della Madre della Montagna nell’Elena (1301 sqq.) e nei resti di un’ode nell’Ipsipile (frr. 57, 58 Arnim = 31, 32 Hunt). L’Elena fu rappresentata nel 412, l’Ipsipile qualche anno dopo; i Cretesi invece sembrano essere opera anteriore. I cori delle Baccanti sono quindi l’ultima e più compiuta espressione di sentimenti che avevano ossessionato5 Euripide per almeno sei anni prima della sua morte, e forse per molto di più. Così anche gli attacchi alla “ingegnosità”6 e l’elogio alla saggezza istintiva della gente semplice, che ha sorpreso i critici delle Baccanti, non sono in realtà niente di nuovo. Dall’altra parte, la discrepanza fra le norme morali implicite nei miti e quelle dell’umanità civilizzata, su cui molti dei personaggi di Euripide richiamano l’attenzione, non è ignorata nelle Baccanti. La vendetta di Dioniso è tanto crudele e indiscriminata quanto quella di Afrodite nell’Ippolito. In entrambe le tragedie un umile adoratore della divinità protesta contro questa immoralità, e protesta invano (Baccanti, 1348-1349). E poi entrambi i drammi finiscono con le simpatie del pubblico concentrate solamente sulle vittime del dio. Non è così che Euripide, o chiunque altro, avrebbe composto una palinodia7.

(b) Non dobbiamo però saltare alla conclusione che Euripide guardò a Afrodite e Dioniso come demóni o come finzioni. A una tale interpretazione delle Baccanti un fatale ostacolo è la caratterizzazione di Penteo. Se il culto dionisiaco è una superstizione immorale e niente più, segue che Penteo è uno dei martiri dell’illuminismo. Ma è molto più facile denigrare Dioniso che riabilitare Penteo. Alcuni critici razionalisti hanno tentato questa seconda impresa, ma ci vuole proprio una visione ottusa per scoprire in lui il difensore della fede coniugale”, un personaggio uniformemente simpatico”. Euripide avrebbe plausibilmente potuto rappresentarlo così; egli avrebbe potuto sicuramente fare di lui un secondo Ippolito, fanatico, ma di un fanatismo toccante ed eroico. Egli non ha scelto di farlo così. E infatti gli ha conferito i tratti di un tipico tiranno da tragedia: mancanza di autocontrollo (vv. 214, 343 sqq., 620 sq., 670 sq.); inclinazione a credere il peggio sulla base del sentito dire (221 sqq.) o senza prove (255 sqq.); brutalità nei confronti degli inermi (231, 241, 511 sqq., 796 sq.); e una stolta fiducia nella forza fisica come mezzo per risolvere problemi spirituali (781-786 n.). In aggiunta il poeta gli ha dato il dissennato orgoglio razziale di una Ermione (483-484 n.) e la curiosità sessuale di un voyeur (222-223 n., 957-960 n.)8. Non è così che si rappresentano i martiri dell’illuminismo9. Né tali martiri in punto di morte ritrattano la loro fede come fa Penteo (1120 sq.).

Che dire del divino Straniero? Egli sfoggia ovunque qualità antitetiche a quelle del suo antagonista umano: in ciò risiede la particolare efficacia delle scene di conflitto. Penteo è agitato, irascibile, pieno di una morbosa eccitazione; lo Straniero mantiene dall’inizio alla fine una calma imperturbabile e sorridente (ἡσυχία, vv. 621-622) – una calma che noi troviamo dapprima toccante, poi vagamente inquietante, alla fine indescrivibilmente sinistra (vv. 439, 1020-1023). Penteo fa affidamento su uno spiegamento di forze militari; l’unica arma dello Straniero è il potere invisibile che alberga dentro di lui. Alla σοφία del re, alla ‘ingegnosità’ o ‘realismo’, che vorrebbe misurare ogni cosa col metro volgare di un’esperienza ordinaria, egli oppone un altro genere di σοφία, la saggezza che, essendo essa stessa una parte dell’ordine delle cose, conosce quell’ordine e il posto dell’uomo in esso. In tutti questi modi lo Straniero è caratterizzato come un personaggio soprannaturale, in contrasto col suo avversario fin troppo umano: ἡσυχία, σεμνότης10 e saggezza sono le qualità che sopra a tutte le altre gli artisti greci dell’età classica cercavano di incarnare nelle figure divine della loro immaginazione. Lo Straniero si comporta οἷα δὴ θεός, come un dio greco si comporterebbe: egli è il corrispondente di quell’essere sereno e pieno di dignità che noi vediamo su certi vasi a figure rosse, o in opere di scultura d’ispirazione attica11.

Ma lo Straniero non è semplicemente un essere idealizzato, estraneo al mondo dell’uomo; egli è Dioniso, l’incarnazione di quelle tragiche contraddizioni – gioia e orrore, discernimento e follia, gaiezza innocente e tenebrosa crudeltà – che, come abbiamo visto, sono implicite in ogni religione di tipo dionisiaco. Dalla prospettiva della moralità umana perciò egli è e deve essere una figura ambigua. Guardandolo da questa prospettiva, Cadmo alla fine della tragedia condanna esplicitamente la sua mancanza di cuore. Ma la sua condanna è tanto futile quanto lo è la simile condanna di Afrodite nell’Ippolito. Infatti, come Afrodite, Dioniso è una “persona”, o un agente morale, solo per necessità scenica. Ciò che Afrodite è realmente il poeta ce l’ha detto chiaramente: φοιτᾷ δ' ἀν' αἰθέρ', ἔστι δ' ἐν θαλασσίῳ / κλύδωνι Κύπρις, πάντα δ' ἐκ ταύτης ἔφυ· / ἥδ’ ἐστὶν ἡ σπείρουσα καὶ διδοῦσ' ἔρον, / οὗ πάντες ἐσμὲν οἱ κατὰ χθόν' ἔκγονοι (Euripide, Ippolito, 447 sqq.)12. Chiedersi se Euripide “credesse” in questa Afrodite non ha senso, tanto quanto chiedersi se egli credesse” nel sesso. Le cose non stanno diversamente con Dioniso. Come la “morale” dell’Ippolito è che il sesso è cosa sulla quale non puoi permetterti di fare errori, così la “morale” delle Baccanti è che noi ignoriamo a nostro rischio l’esigenza per lo spirito umano di un’esperienza dionisiaca. Per chi non chiude la propria mente di fronte ad essa, un’esperienza di tal genere può essere una sorgente profonda di potenziamento spirituale e di εὐδαιμονία13. Chi, invece, reprime l’esigenza dentro di sé o ne impedisce il soddisfacimento ad altri, la trasforma14 col proprio atto in una potenza disintegrante e distruttiva, una cieca forza naturale che spazza via l’innocente con il colpevole. Una volta che ciò è accaduto, è troppo tardi per ragionamenti o proteste: nella giustizia dell’uomo c’è posto per la pietà, ma non ce n’è alcuno nella giustizia della Natura; al nostro “Dovresti”, come sua risposta è sufficiente il semplice “Devi”; noi non abbiamo nessuna scelta, se non accettare quella risposta e resistere come possiamo15.

Se questo, o qualcosa di simile, è il pensiero che sta alla base della tragedia, segue che il goffo interrogativo posto dai critici del diciannovesimo secolo – Euripide era ‘per’ Dioniso o ‘contro’ di lui? – non ammette nessuna risposta in questi termini. Di per sé, Dioniso è al di là del bene e del male; per noi, come dice Tiresia (vv. 314-318)16, egli è ciò che noi facciamo di lui. L’interrogativo del diciannovesimo secolo poggiava di fatto sulla supposizione, comune alla scuola razionalista e ai suoi oppositori, e ancora troppo spesso posta, che Euripide fosse, come alcuni dei suoi critici, più interessato alla propaganda che ai compiti propri del drammaturgo. Questa supposizione la ritengo falsa. Ciò che è vero è che in molti dei suoi drammi egli cercò di infondere nuova vita nei miti tradizionali, riempiendoli di un contenuto nuovo e contemporaneo – riconoscendo negli eroi di antiche storie i corrispondenti di tipi del quinto secolo e riformulando situazioni del mito nei termini dei conflitti del quinto secolo. Come abbiamo visto, qualcosa del genere può essere stato il proposito nelle Baccanti. Ma nelle sue migliori tragedie Euripide usò questi conflitti non per fare propaganda, bensì come un drammaturgo dovrebbe fare17, per ricavare la tragedia dalla loro tensione. Non ci fu mai uno scrittore che più palesemente mancò della fede di un propagandista per soluzioni facili e totali. Il suo metodo prediletto è assumere un punto di vista unilaterale, una nobile mezza verità, per mostrare la sua nobiltà, e poi mostrare il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci – perché essa è dopo tutto solo una parte della verità18. E’ così che egli ci mostra nell’Ippolito la bellezza e la limitata insufficienza dell’ideale ascetico, nell’Eracle lo splendore della forza fisica e del coraggio e il suo precipitare in megalomania e rovina; è così che nei suoi drammi di vendetta – Medea, Ecuba, Elettra – la simpatia dello spettatore prima è rivolta al vendicatore e poi indotta ad estendersi alle sue vittime. Le Baccanti sono costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito il gioioso scoppio di vitalità che l’esperienza dionisiaca comporta, né attenuato l’orrore ferino del menadismo “nero”; deliberatamente egli guida il suo pubblico attraverso l’intera gamma delle emozioni, dalla simpatia per il dio perseguitato, attraverso l’eccitazione dei prodigi del palazzo e la macabra tragicommedia della scena del la toilette, a condividere, alla fine, la reazione di Cadmo contro quella giustizia inumana. E’ un errore chiedersi che cosa egli stia tentando di “dimostrare”: il suo proposito in questo, come in tutti i suoi più grandi drammi, non è di dimostrare qualcosa, ma di ampliare la nostra sensibilità – che è, come il Dr. Johnson diceva, il proposito proprio di un poeta.

Ciò che rende le Baccanti diverse dal resto delle opere di Euripide non è qualche innovazione nella tecnica o nell’atteggiamento intellettuale dell’autore. È piuttosto quello che sentì James Adam quando affermò che il dramma esprimeva una dimensione emotiva aggiunta” e che era pervasa da quel genere di gioiosa esaltazione che accompagna una nuova scoperta o illuminazione”19. E’ come se il rinnovato contatto con la natura nella selvaggia regione della Macedonia e il suo immaginare qui in nuove forme l’antica storia di prodigi, avessero fatto scattare qualche molla nella mente del vecchio poeta, ristabilendo un contatto con sorgenti nascoste di potere che egli aveva smarrito nell’ambiente consapevole di sé, ultra-intellettualizzato dell’Atene del tardo quinto secolo, e mettendolo in grado di trovare uno sfogo per sentimenti che per anni erano stati repressi nella sua coscienza senza conseguire completa espressione. Noi possiamo supporre che Euripide disse a se stesso in Macedonia proprio quanto Rilke disse a se stesso all’inizio del suo ultimo periodo:

Opera della vista è compiuta,

compi ora l’opera del cuore

sulle immagini prigioniere in te, perché tu

le hai sopraffatte ma non le conosci ancora.”20

La dimensione emotiva aggiunta” procede non da una conversione intellettuale, ma dall’opera del cuore: da una visione rivolta al nostro interno di immagini a lungo rimaste imprigionate nella mente.


1 De vitiis, col. 13, 4. Non è certo che queste parole si riferiscano ad Euripide, ma è altamente probabile. [N.d.T.] «Dicono che, amareggiato perché quasi tutti si rallegravano [dei suoi insuccessi], se ne andò da Archelao».

2 [N.d.T.] νῦν δ' οὗτος ἐν ταῖσιν τραγῳδίαις ποιῶν / τοὺς ἄνδρας ἀναπέπεικεν οὐκ εἶναι θεούς, «ora questo scrivendo versi nelle tragedie / ha persuaso gli uomini che non esistono dèi».

3 [N.d.T.] Tale è l’opinione di Nietzsche nella Nascita della tragedia, cap. 12: «Eliminare dalla tragedia quell’elemento dionisiaco originario e onnipotente, ed edificarla in modo puro e a nuovo su un’arte, un costume e una concezione del mondo non dionisiaci – è questa la tendenza di Euripide, che ci si svela ora in chiara luce.

Nella sera della sua vita Euripide stesso presentò ai suoi contemporanei nel modo più incisivo, con un mito, la questione del valore e del significato di questa tendenza. Deve in genere sussistere il dionisiaco? Non è da estirpare a forza dalla terra ellenica? Certo, ci dice il poeta, purché fosse possibile; ma il dio Dioniso è troppo potente: l'avversario più avveduto – come Penteo nelle Baccanti – viene insospettatamente incantato da lui e con questo incantesimo corre poi incontro al suo destino. Il giudizio dei due vecchi Cadmo e Tiresia sembra essere anche il giudizio del vecchio poeta: la riflessione degli individui più accorti non riesce a rovesciare quelle antiche tradizioni popolari, quella venerazione di Dioniso che eternamente si propaga, anzi di fronte a tali forze miracolose conviene mostrare almeno una partecipazione diplomaticamente prudente: con ciò comunque è ancora possibile che il dio si scandalizzi di un interessamento così tiepido e trasformi infine il diplomatico – come qui Cadmo – in un drago. Questo ci dice un poeta che con forza eroica si è opposto per tutta una lunga vita a Dioniso – al fine di chiudere la sua carriera, quando la vita è al termine, con una glorificazione del suo avversario e il proprio suicidio, simile a uno che sia preso dalle vertigini e che, solo per sfuggire all’orribile e non più tollerabile turbamento, si precipiti da una torre. Quella tragedia è una sconfessione della possibilità di realizzare la sua tendenza, ma ahimè! essa era già stata realizzata! Il miracolo era accaduto: quando il poeta ritrattò, la sua tendenza aveva già vinto, Dioniso era già stato cacciato dalla scena tragica, cacciato da una potenza demonica che parlava per bocca di Euripide. Anche Euripide era in certo senso solo maschera: la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate. È questo il nuovo contrasto: il dionisiaco e il socratico, e l'opera d'arte della tragedia greca perì a causa di esso. Per quanto Euripide cerchi poi di consolarci con la sua ritrattazione, non ci riesce: il più magnifico dei templi giace in rovina; a che ci giova il lamento del distruttore e la sua confessione che quello era stato il più bello di tutti i templi? E anche se Euripide è stato per punizione trasformato in drago dai giudici d’arte di tutti i tempi – chi potrebbe essere soddisfatto di questo miserabile compenso?».

4 [N.d.T.] Lucrezio, De rerum natura, I, 101, «A così grandi mali poté indurre la religione!».

5 Significativa in relazione a questo è la sua speciale predilezione per l’uso metaforico di βάκχη, βακχεύειν e termini connessi. Io ho contato oltre 20 esempi, contro 2 in Eschilo e 1 in Sofocle.

6 [N.d.T.] In inglese Dodds dice cleverness, mentre «saggezza» è wisdom. Sono le parole con cui traduce il v. 395 τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία, «cleverness is not wisdom»; io traduco «il sapere non è sapienza».

7 Uno può aggiungere che la supposta “conversione” all’ “ortodossia” avrebbe dovuto essere seguita da un’immediata sconfessione. Sicché una delle implicazioni dell’Ifigenia in Aulide – presumibilmente l’ultima opera del poeta, dato che sembra averla lasciata incompiuta – è certamente tantum religio… (cfr. il giudizio del corifeo, v. 1403 τὸ τῆς θεοῦ νοσεῖ, «la volontà della dea è malata»).

8 La libidinosa spectandorum secretorum cupido di Penteo era stata già notata da Hartung. È questa curiosità che lo consegna nelle mani dei suoi nemici (vedi commento alla scena della tentazione). Come Zielinski ha ben detto (N. Jhb., 1902, 646), forze primordiali insorgono contro di lui non solo a Tebe ma nel suo stesso petto.

9 Dobbiamo, naturalmente, evitare l’errore opposto di vedere in Penteo un cattivo del palcoscenico: se egli fosse questo, il poeta non potrebbe sollecitare la nostra pietà per lui come palesemente fa nell’ultimo episodio ([N.d.T.] vv. 1118-1121 Ἐγώ τοι, μῆτερ, εἰμί, παῖς σέθεν / Πενθεύς, ὃν ἔτεκες ἐν δόμοις Ἐχίονος· / οἴκτιρε δ' ὦ μῆτέρ με μηδὲ ταῖς ἐμαῖς / ἁμαρτίαισι παῖδα σὸν κατακτάνῃς, «Guarda, sono io, mamma, il figlio tuo / Penteo, che partorivi nella casa di Echione; / abbi pietà, madre, di me e per i miei / peccati non uccidere il figlio tuo»). Come mostrano i versi 45-46, egli è un uomo di religiosità convenzionale e conservatrice, non un contemptor deum come il Mezenzio di Virgilio ([N.d.T.] Eneide, VII, 648 contemptor divum Mezentius, re etrusco alleato di Turno), e crede di stare agendo nell’interesse dello stato. Ma né nella tragedia greca né nella vita reale le buone intenzioni salvano l’uomo dalle conseguenze di errore di giudizio.

10 [N.d.T.] ἡσυχία «tranquillità, calma» e σεμνότης «dignità», in latino gravitas.

11 [N.d.T.] Era quello che diceva Winckelmann, Pensieri sull’imitazione dell’arte greca: «Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell'espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata».

12 [N.d.T.] «si aggira nell’aria, è nel flutto / marino Cipride, tutte le creature nascono da questa; / è lei che semina e dà amore, / al quale tutti apparteniamo noi prole sulla terra».

13 [N.d.T.] «felicità».

14 [N.d.T.] È quanto dice Nietzsche, che infatti vede in Euripide (almeno nella Nascita della tragedia, in combutta con Socrate) il principio della decadenza: «Dover combattere contro gli istinti questa è la formula della décadance; fintantoché la vita è ascendente, felicità e istinto sono eguali» (Crepuscolo degli idoli. Il problema di Socrate, 11).

15 [N.d.T.] «La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata su caste. La tirannide della natura parte quindi da una base molto ampia, per terminare in un vertice assai aguzzo, e anche se alla plebe e alla canaglia, che non può tollerare nulla al di sopra di sé, riuscisse ad abbattere tutte le altre aristocrazie, essa non potrà far nulla contro di questa, senza neppur meritare un ringraziamento, poiché tale aristocrazia è davvero concessa dalla “grazia di Dio”» (Schopenhauer, Parerga e paralipomena I. Sulla filosofia delle università).

16 [N.d.T.] οὐχ ὁ Διόνυσος σωφρονεῖν ἀναγκάσει / γυναῖκας ἐς τὴν Κύπριν, ἀλλ' ἐν τῇ φύσει / [τὸ σωφρονεῖν ἔνεστιν εἰς τὰ πάντ' ἀεί] / τοῦτο σκοπεῖν χρή· καὶ γὰρ ἐν βακχεύμασιν / οὖσ ἥ γε σώφρων οὐ διαφθαρήσεται, «Non sarà Dioniso a costringere le donne / a essere caste nei confronti di Cipride, ma nell’indole / [risiede l’essere casti sempre in tutte le circostanze] / questo bisogna considerare; infatti anche se è / nei baccanali quella casta non si corromperà».

17 Cfr Virginia Woolf sull’Antigone: ([N.d.T.] Dodds, ovviamente, cita l’inglese, che riporto; quella che segue è la mia traduzione, priva di pretese) When the curtain falls we sympathise even with Creon himself. This result, to the propagandist undesirable ... suggests that if we use art to propagate political opinions, we must force the artist to clip and cabin his gift to do us a cheap and passing service. Literature will suffer the same mutilation that the mule has suffered; and there will be no more horses, «Quando cala il sipario noi simpatizziamo persino con Creonte stesso. Questo effetto, non desiderabile per il propagandista … suggerisce che se usiamo l’arte per propagandare opinioni politiche, dobbiamo forzare l’artista a tarpare e confinare i propri doni per farci un servizio scadente ed effimero. La letteratura subirà la medesima mutilazione che ha subito il mulo; e non ci saranno più cavalli» (Three Guineas, 302).

18 Cfr. Murray, Euripides and his age, 187.

19 The Religious Teachers of Greece, 316 sq. Cfr André Rivier, Essais sur le tragique d’Euripide, 96: “La rivelazione di un al di là liberato dalle nostre categorie morali e dalla nostra ragione, tale è il fatto religioso fondamentale su cui poggia la tragedia delle Baccanti” ([N.d.T.] Dodds ha il francese, la traduzione è mia). La profondità e sincerità del sentimento religioso espresso nei canti corali sono state recentemente enfatizzate da Festugière, Eranos, lv (1957), 127 sqq. Questo mi sembra giusto, fintantoché stiamo parlando di sentimenti e non di convinzioni. Ma resta perfettamente possibile che, come la mette Jaeger, “Euripide abbia imparato ad apprezzare la gioia di un’umile fede in una verità religiosa che oltrepassa tutti i limiti della comprensione, semplicemente perché egli non possedeva dentro se stesso nessuna fede felice” (Paideia, i. 352, trad. ingl.). [N.d.T.] Il testo italiano (Paideia, La Nuova Italia, 1953, I, cap. IV, Euripide e l’età sua, pagg. 600-601) è quello sottolineato: «Nelle Baccanti, opera postuma creata nella vecchiezza, si è voluto scoprire come un trovar-se-stesso dell’autore, un voluto rifugiarsi dal razionalismo dell’intelletto autonomo nella esperienza religiosa, nell’ebbrezza mistica. Anche qui si è troppo voluto trovar l’eco di una professione di fede personale. Per Euripide la rappresentazione lirico-drammatica dell’esperienza dionisiaca dell’estasi era già per se stessa un soggetto infinitamente grato, e dall’idea del conflitto tra questa suggestione religiosa collettiva, suscitante in coloro che afferrava forze ed istinti primordiali, e l’ordinamento razionale dello Stato e della società civile sorgeva per lo psicologo Euripide un problema tragico di efficacia e validità imperitura. Ma nemmeno nella vecchiezza egli toccò il porto” sicuro. La sua vita si chiude nell’alacre studio di questioni religiose. Nessuno ha colto l’irrazionalità dell'anima umana, anche sotto questo rispetto, più profondamente del poeta della critica razionale. Ma il mondo nel quale egli è immerso resta perciò privo di fede. Non è forse comprensibile come egli, movendo dalla sua comprensione universale e dalla sua scettica conoscenza di se stesso e del tempo suo, imparasse ad apprezzare, in tarda età, la felicità dell’umile fede in una verità religiosa oltrepassante i limiti della ragione, appunto non possedendola? Ancora non era venuto il tempo in cui tale atteggiamento del sapere di fronte alla fede potesse diventare fondamentale. Ma nelle Baccanti ne sono già profeticamente anticipati tutti i caratteri: il trionfo del meraviglioso e della conversione sull’intelletto; l’alleanza dell’individualismo con la religione contro lo Stato, che per la grecità classica aveva coinciso, con la sfera religiosa; il deificarsi immediato, vissuto, liberatore, dell’anima individuale, sciolta dai limiti d’ogni etica meramente legata alla legge».

20 [N.d.T.] R. M. RILKE, Svolta (Wendung), Poesie sparse in Poesie II (1908-1926), a cura di G. Baione, commento di A. Lavagetto, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, pp. 231-233.

Nessun commento:

Posta un commento