Nel passo che segue Tacito esprime l’amara consapevolezza che la materia storica che ha a disposizione non gli consente di affrontare temi di ampio respiro, come invece era possibile in un tempo non lontano; di conseguenza il suo impegno non può che limitarsi agli spazi chiusi del palazzo, unico luogo in cui si determinano le decisioni in base ali umori dei potenti. Da qui però nasce uno degli aspetti peculiari di Tacito, cioè l’acume psicologico, come nota Montaigne.
Annales, IV, 32
Pleraque eorum quae rettuli quaeque referam parva forsitan et levia memoratu videri non nescius sum: sed nemo annalis nostros cum scriptura eorum contenderit qui veteres populi Romani res composuere. Ingentia illi bella, expugnationes urbium, fusos captosque reges, aut si quando ad interna praeverterent, discordias consulum adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis et optimatium certamina libero egressu memorabant: nobis in arto et inglorius labor; immota quippe aut modice lacessita pax, maestae urbis res et princeps proferendi imperi incuriosus erat. non tamen sine usu fuerit introspicere illa primo aspectu levia ex quis magnarum saepe rerum motus oriuntur.
«La maggior parte delle cose che ho riferito e che riferirò non sono inconsapevole che sembrano piccole forse e poco significative a ricordarsi: ma nessuno può paragonare i nostri annali con gli scritti di coloro che hanno composto le antiche imprese del popolo romano. Quelli ricordavano grandi guerre, espugnazioni di città, re messi in fuga e catturati, o se a volte si volgevano ai fatti interni, le discordie dei consoli contro i tribuni, leggi agrarie e frumentarie, le contese della plebe e degli ottimati spaziando liberamente: per noi la fatica è in un ambito ristretto e priva di gloria; il fatto è che la pace era immobile o poco provocata, triste la situazione della città e il principe poco preoccupato di estendere l’impero. Può tuttavia essere non privo di utilità gettare lo sguardo dentro quei fatti a prima vista poco significativi dai quali spesso nascono i moventi di grandi imprese».
Montaigne dunque è di parere opposto a quello di Tacito (Saggi, III, 8): «Ho appena finito di leggere d'un fiato la storia di Tacito […] Non conosco autore che introduca in una storia di eventi pubblici tante considerazioni sui costumi e le inclinazioni particolari. [c] E penso il contrario di quel che pensa lui: che dovendo in particolar modo seguire le vite degli imperatori del suo tempo, […] aveva una materia più forte e attraente da trattare e da narrare che se avesse dovuto parlare di battaglie e sconvolgimenti universali; tanto che spesso lo trovo sterile, quando sorvola rapidamente su quelle belle morti, come se temesse di annoiarci con il loro numero e la lunghezza del racconto. [B] Questo tipo di storia è di gran lunga il più utile: i moti pubblici dipendono piuttosto dalla condotta della fortuna, quelli privati dalla nostra. È più un giudizio che un'esposizione di storia: ci sono più precetti che racconti. Non è un libro da leggere, è un libro da studiare e da imparare; è così pieno di sentenze che ve ne sono a dritto e a rovescio: è un vivaio di riflessioni morali e politiche, per profitto e ornamento di coloro che occupano un posto nel governo del mondo. Egli perora sempre con ragioni solide e vigorose, in modo acuto e sottile, secondo lo stile ricercato del tempo; amavano tanto agghindarsi che quando non trovavano acutezza e finezza nelle cose, la traevano dalle parole. Si avvicina non poco alla scrittura di Seneca; lui mi sembra più polputo, Seneca più acuto1. […] Se i suoi scritti dicono qualcosa delle sue qualità, era un grand’uomo, retto e coraggioso, non di una virtù superstiziosa, ma filosofica e generosa».
Di seguito il secondo passo a cui allude Montaigne, nel quale Tacito, apprestandosi a narrare la serie di morti eccellenti (tra cui quella di Petronio) seguite alla fallita congiura dei Pisoni, ripropone il concetto già espresso in precedenza (nobis in arto e inglorius labor).
Annales, XVI, 16
Etiam si bella externa et obitas pro re publica mortis tanta casuum similitudine memorarem, meque ipsum satias cepisset aliorumque taedium expectarem, quamvis honestos civium exitus, tristis tamen et continuos aspernantium: at nunc patientia servilis tantumque sanguinis domi perditum fatigant animum et maestitia restringunt.
«Anche se ricordassi, in una così grande somiglianza di situazioni, guerre esterne e morti affrontate in difesa dello stato, la nausea si sarebbe impossessata addirittura di me e mi aspetterei la noia degli altri, i quali sdegnano le morti dei cittadini, onorevoli quanto vuoi, tuttavia tristi e continue: ma ora la passività da schiavi e così tanto sangue perduto in patria logorano l’animo e lo attanagliano nell’afflizione».
1 Il giudizio di Montaigne sullo stile di Tacito è sulla linea di quello di Nietzsche, che lo associa però a Tucidide: «144. Lo stile dell'immortalità. Tanto Tucidide quanto Tacito – entrambi hanno pensato, nel redigere le loro opere, a una durata immortale di esse: lo si potrebbe indovinare, se non lo si sapesse altrimenti, già dal loro stile. L'uno credette di dare durevolezza ai suoi pensieri salandoli, l'altro condensandoli a forza di cuocerli; e nessuno dei due, sembra, ha fatto male i suoi conti» (Umano, troppo umano II).
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