venerdì 11 ottobre 2024

Mito di Er – Platone, Repubblica, X, 614b-621d – 10° parte


 ἔνθα δή, ὡς ἔοικεν, ὦ φίλε Γλαύκων, ὁ πᾶς κίνδυνος ἀνθρώπῳ, καὶ διὰ ταῦτα μάλιστα [c] ἐπιμελητέον ὅπως ἕκαστος ἡμῶν τῶν ἄλλων μαθημάτων ἀμελήσας τούτου τοῦ μαθήματος καὶ ζητητὴς καὶ μαθητὴς ἔσται, ἐάν ποθεν οἷός τ' ᾖ μαθεῖν καὶ ἐξευρεῖν τίς αὐτὸν ποιήσει δυνατὸν καὶ ἐπιστήμονα, βίον καὶ χρηστὸν καὶ πονηρὸν διαγιγνώσκοντα, τὸν βελτίω ἐκ τῶν δυνατῶν ἀεὶ πανταχοῦ αἱρεῖσθαι·

 «Qui, pertanto, oh caro Glaucone, c’è tutto il rischio * per un uomo, e per questo bisogna fare la massima attenzione che ciascuno di noi, trascurando gli altri apprendimenti, sia ricercatore e studioso di questo apprendimento, cioè se mai sia in grado di capire e trovare chi lo renderà capace e sapiente, distinguendo una vita buona e cattiva, nel scegliere sempre in ogni circostanza quella migliore tra le possibili».

Questo è uno degli snodi concettuali: qui infatti Socrate sospende la narrazione e si rivolge a Glaucone direttamente per porre l’accento sulla riflessione. 
Il punto è qui secondo me l’importanza che riveste la παιδεία, «l’educazione» e la figura del maestro. Mi pare di notare, nell’enfasi posta qui, l’affetto, la stima, la riconoscenza e, in una parola, l’ammirazione di Platone per il suo maestro: insomma, un tributo dovuto, condito di malinconia per il modo della sua morte, che evidentemente «ancor l’offende1». A tal proposito è interessante il finale del mito della caverna in cui Socrate si immagina la fine che farebbe uno che, liberatosi dalle catene dell’apparenza, volesse provare a liberare anche gli altri (Repubblica, VII, 517a): καὶ τὸν ἐπιχειροῦντα λύειν τε καὶ ἀνάγειν, εἴ πως ἐν ταῖς χερσὶ δύναιντο λαβεῖν καὶ ἀποκτείνειν, ἀποκτεινύναι ἄν; «e colui che tentasse di liberarli e condurli su, se mai potessero prenderlo tra le mani e ucciderlo, non lo ucciderebbero2?». 
Sull’importanza del maestro si sofferma anche Seneca, nel De vita beata, 1:

 Quam diu quidem passim uagamur non ducem secuti sed fremitum et clamorem dissonum in diuersa uocantium, conteretur uita inter errores breuis, etiam si dies noctesque bonae menti laboremus.

«Di certo finché vaghiamo qua e là seguendo non una guida ma il brusío e le grida dissonanti di quelli che ci chiamano in direzioni opposte, la vita si consumerà e tra gli errori sarà breve, anche se ci sforzassimo giorno e notte per una buona mente». 

«Decernatur itaque et quo tendamus et qua, non sine perito aliquo cui explorata sint ea in quae procedimus, quoniam quidem non eadem hic quae in ceteris peregrinationibus condicio est: in illis comprensus aliquis limes et interrogati incolae non patiuntur errare at hic tritissima quaeque uia et celeberrima maxime decipit. 

«Si stabilisca dunque sia dove tendere sia per dove, non senza una persona esperta3 per cui siano stati esplorati quei campi verso cui procediamo, perché certamente qui la condizione non è la medesima che negli altri viaggi: in quelli un sentiero riconosciuto e gli abitanti interrogati non consentono di sbagliare strada, mentre qui tutte le vie più sono battute e frequentate più traggono in inganno».


*    Su certe cose, però, vale la pena rischiare, come dice nel Fedone, 114c-d: 114c-d χρὴ […] πᾶν ποιεῖν ὥστε ἀρετῆς καὶ φρονήσεως ἐν τῷ βίῳ μετασχεῖν· καλὸν γὰρ τὸ ἆθλον καὶ ἡ ἐλπὶς μεγάλη. […] ἐπείπερ ἀθάνατόν γε ἡ ψυχὴ φαίνεται οὖσα, τοῦτο καὶ πρέπειν μοι δοκεῖ καὶ ἄξιον κινδυνεῦσαι οἰομένῳ οὕτως ἔχειν ‑ καλὸς γὰρ ὁ κίνδυνος, «È necessario fare di tutto per essere partecipi nella vita di virtù e intelligenza; bello è infatti il premio e grande la speranza. […] siccome in effetti l’anima sembra essere una cosa immortale, questo mi pare essere conveniente e per chi pensa che stiano così le cose vale la pena rischiare – bello è infatti il rischio».

Un concetto affine si trova anche in Seneca, De providentia, II, 2: Quis autem, uir modo et erectus ad honesta, non est laboris adpetens iusti et ad officia cum periculo promptus? Cui non industrio otium poena est?, «Chi, purché sia un uomo vero e indirizzato a imprese onorevole, non è desideroso di una giusta fatica e disposto a correre pericoli per i doveri? Per quale persona operosa l’ozio non è una punizione?».

 1 Dante, Inferno, V, vv. 100-102: «Amor, ch'al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e 'l modo ancor m’offende». Naturalmente è Francesca da Rimini.

 2 È difficile non pensare alla sorte di Socrate, condannato a morte nel 399 a.C. dal tribunale ateniese per empietà e corruzione dei giovani secondo Nietzsche giustamente perché aveva corrotto la tragedia in combutta con Euripide (La nascita della tragedia):

«Riconosciamo in Socrate lavversario di Dionisoe, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio» (cap. 12). 
«Che Socrate avesse uno stretto legame di tendenza con Euripide, non sfuggì all’antichità di quel tempo; e lespressione più eloquente di questo fiuto felice è quella leggenda circolante ad Atene, secondo cui Socrate usava aiutare Euripide a poetare. Dai partigiani del «buon tempo antico» i due nomi venivano pronunciati assieme, quando si trattava di enumerare i presunti corruttori del popolo: dal loro influsso seguiva che lantica e quadrata valentia di corpo e danimo, degna di Maratona, fosse sempre più sacrificata a un dubbio razionalismoin questo tono, mezzo di sdegno e mezzo di disprezzo, la commedia aristofanesca suole parlare di quegli uomini. [...] Socrate, come avversario dellarte tragica, si asteneva dal frequentare la tragedia, mettendosi fra gli spettatori soltanto quando veniva rappresentato un nuovo dramma di Euripide» (cap. 13).

 3 Il riferimento, come prima ducem, è all’importanza di un maestro che ci guidi nei momenti cruciali della vita. Cfr. Epistulae, 94, 52: nonne apparet opus esse nobis aliquo advocato qui contra populi praecepta praecipiat?, «Non è forse evidente che abbiamo bisogno di un qualche difensore che che ci dia insegnamenti contrari a quelli della massa?»; e poco dopo (55): Sit ergo aliquis custos et aurem subinde pervellat abigatque rumores et reclamet populis laudantibus, «Ci sia dunque un guardiano e ci tiri di quando in quando le orecchie e tenga lontani i luoghi comuni e alzi la voce contro le lodi della folla».

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