giovedì 10 ottobre 2024

Mito di Er – Platone, Repubblica, X, 614b-621d – 5° parte

 

ἐθεασάμεθα γὰρ οὖν δὴ καὶ τοῦτο τῶν δεινῶν θεαμάτων· ἐπειδὴ ἐγγὺς τοῦ στομίου ἦμεν μέλλοντες ἀνιέναι καὶ τἆλλα πάντα πεπονθότες, ἐκεῖνόν τε κατείδομεν ἐξαίφνης καὶ ἄλλους ‑ σχεδόν τι αὐτῶν τοὺς πλείστους τυράννους· ἦσαν δὲ καὶ ἰδιῶταί τινες τῶν [e] μεγάλα ἡμαρτηκότων ‑ οὓς οἰομένους ἤδη ἀναβήσεσθαι οὐκ ἐδέχετο τὸ στόμιον, ἀλλ' ἐμυκᾶτο ὁπότε τις τῶν οὕτως ἀνιάτως ἐχόντων εἰς πονηρίαν ἢ μὴ ἱκανῶς δεδωκὼς δίκην ἐπιχειροῖ ἀνιέναι.

«Vedemmo infatti anche questo tra i terribili spettacoli: dopo che eravamo vicino allo sbocco sul punto di risalire e dopo aver subito tutte le altre pene, scorgemmo quello all’improvviso e altri – la maggior parte di essi più o meno tiranni; c’erano anche dei privati cittadini, di quelli che avevano commesso grandi peccati – i quali, mentre pensavano che ormai sarebbero risaliti, lo sbocco non li accettava, ma muggiva ogni volta che tentava di risalire uno di quelli che erano così inguaribili per malvagità o che non aveva pagato a sufficienza il fio».

ἐνταῦθα δὴ ἄνδρες, ἔφη, ἄγριοι, διάπυροι ἰδεῖν, παρεστῶτες καὶ καταμανθάνοντες τὸ φθέγμα, τοὺς μὲν διαλαβόντες ἦγον, τὸν δὲ Ἀρδιαῖον καὶ ἄλλους [616] [a] συμποδίσαντες χεῖράς τε καὶ πόδας καὶ κεφαλήν, καταβαλόντες καὶ ἐκδείραντες, εἷλκον παρὰ τὴν ὁδὸν ἐκτὸς ἐπ' ἀσπαλάθων κνάμπτοντες, καὶ τοῖς ἀεὶ παριοῦσι σημαίνοντες ὧν ἕνεκά τε καὶ ὅτι εἰς τὸν Τάρταρον ἐμπεσούμενοι ἄγοιντο.”

«Là dunque,” disse, “c’erano uomini selvaggi, infuocati a vedersi, che stando nei pressi e comprendendo il muggito, afferrando alcuni li portavano via, mentre Ardieo e altri, dopo aver loro legato mani e piedi e testa, buttatili giù e scuoiatili, li trascinavano lungo la strada fuori dilaniandoli su arbusti spinosi [1], e significando a coloro che via via erano presenti per quali scopi e perché fossero portati via per essere precipitati nel Tartaro».

Qui viene descritta la pena di questi criminali totali, tra i quali spicca il tiranno rappresentato da Ardieo. Per Platone il tiranno rappresenta il massimo dell’ingiustizia in quanto nella sua anima prevale l’elemento appetitivo, τό ἐπιθυμητικόν su quello razionale, τὸ λογιτικόν e su quello animoso, τὸ θυμοειδής (sono, rispettivamente, il cavallo nero, l’auriga e il cavallo bianco del mito della biga alata nel Fedro). Così lo descrive Platone (Repubblica, IX, 573c) Τυραννικὸς δέ [...] ἀνὴρ ἀκριβῶς γίγνεται, ὅταν ἢ φύσει ἢ ἐπιτηδεύμασιν ἢ ἀμφοτέροις μεθυστικός τε καὶ ἐρωτικὸς καὶ μελαγχολικὸς γένηται, «Precisamente diventa tirannico un uomo, quando o per natura o per abitudini o entrambi diventa incline all’alcool e al sesso e alla depressione». La sua vita dunque sarà misera (576a): Ἐν παντὶ ἄρα τῷ βίῳ ζῶσι φίλοι μὲν οὐδέποτε οὐδενί, ἀεὶ δέ του δεσπόζοντες ἢ δουλεύοντες ἄλλῳ: ἐλευθερίας δὲ καὶ φιλίας ἀληθοῦς τυραννικὴ φύσις ἀεὶ ἄγευστος, «In tutta la vita dunque vivono amici mai di nessuno, sempre facendo i padroni o gli schiavi di un altro: la natura tirannica non gusta libertà né vera amicizia». In conclusione questa è la natura del tiranno (579d-e): Ἔστιν ἄρα τῇ ἀληθείᾳ, κἂν εἰ μή τῳ δοκεῖ, ὁ τῷ ὄντι τύραννος τῷ ὄντι δοῦλος τὰς μεγίστας θωπείας καὶ δουλείας [e] καὶ κόλαξ τῶν πονηροτάτων, καὶ τὰς ἐπιθυμίας οὐδ' ὁπωστιοῦν ἀποπιμπλάς, ἀλλὰ πλείστων ἐπιδεέστατος καὶ πένης τῇ ἀληθείᾳ φαίνεται, ἐάν τις ὅλην ψυχὴν ἐπίστηται θεάσασθαι, καὶ φόβου γέμων διὰ παντὸς τοῦ βίου, σφαδᾳσμῶν τε καὶ ὀδυνῶν πλήρης, εἴπερ τῇ τῆς πόλεως διαθέσει ἧς ἄρχει ἔοικεν. ἔοικεν δέ, «È dunque in verità, anche se a qualcuno non pare, il vero tiranno un vero schiavo caratterizzato dalle lusinghe e dagli asservimenti più grandi, adulatore dei più malvagi, e incapace di saziare le brame in nessun modo, ma si rivela bisognosissimo di moltissime cose e in verità povero, se uno sa osservare l’anima intera, e zeppo di paura durante tutta la vita, pieno di convulsioni e dolori, se appunto assomiglia alla condizione della città che governa; e vi assomiglia». 
Il tiranno è un bersaglio polemico costante, soprattutto tra gli scrittori ateniesi o che hanno aderito alla democrazia ateniese, come Erodoto. Così lo caratterizza per bocca di Otane (III, 80) nel dibattito costituzionale: νόμαιά τε κινέει πάτρια καὶ βιᾶται γυναῖκας κτείνει τε ἀκρίτους, «sovverte le tradizioni patrie e violenta le donne e uccide senza processo». Periandro, divenuto tiranno di Corinto, chiede consiglio a Trasibulo che risponde con un gesto (V, 92ζ): ἐκόλουε αἰεὶ ὅκως τινὰ ἴδοι τῶν ἀσταχύων ὑπερέχοντα, κολούων δὲ ἔρριπτε, ἐς ὃ τοῦ ληίου τὸ κάλλιστόν τε καὶ βαθύτατον διέφθειρε τρόπῳ τοιούτῳ, «recideva tutte le volte che ne vedeva una quella che sporgeva tra le spighe, e recidendole le gettava, finché non ebbe distrutto in tal modo la parte più bella e alta delle messi». Periandro capì che (92η) οἱ ὑπετίθετο Θρασύβουλος τοὺς ὑπερόχους τῶν ἀστῶν φονεύειν, ἐνθαῦτα δὴ πᾶσαν κακότητα ἐξέφαινε ἐς τοὺς πολιήτας· ὅσα γὰρ Κύψελος ἀπέλιπε κτείνων τε καὶ διώκων, Περίανδρός σφεα ἀπετέλεε. Μιῇ δὲ ἡμέρῃ ἀπέδυσε πάσας τὰς Κορινθίων γυναῖκας διὰ τὴν ἑωυτοῦ γυναῖκα Μέλισσαν, «gli suggeriva Trasibulo di uccidere quelli che si distinguevano tra i cittadini, e allora rivelò tutta la malvagità nei confronti loro: quanto infatti Cipselo aveva tralasciato nell’uccidere e nel perseguire, Periandro lo portò a termine. In un solo giorno fece spogliare tutte le donne di Corinto in onore di sua moglie». La mogli, morta, gli era apparsa in una visione dicendo che era nuda e aveva freddo perché non poteva usare le vesti che le avevano messo nel sepolcro. L’episodio, con protagonisti diversi si trova anche in Tito Livio (Ab urbe condita libri, I, 54): qui è Tarquinio il Superbo che dà consigli al figlio: inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse, «passeggiando in silenzio si dice che avesse abbattuto con una verga le cime dei papaveri che spuntavano»; il figlio dunque comprende quid vellet parens quidve praeciperet tacitis ambagibus, «cosa volesse il padre o cosa gli insegnasse con quei misteriosi silenzi» e quindi primores civitatis interemit, «tolse di mezzo i più eminenti della città».


1 Propriamente la pianta sarebbe «aspalato», in latino genista acanthoclada, una pianta spinosa, appunto.

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