sabato 25 gennaio 2025

Pericle – discorsi e ritratto in Tucidide

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Primo discorso – I, 140-144

Si tratta del primo dei tre discorsi riportati da Tucidide ed è quello dell’entrata in guerra nel 431 a.C.-

I, 139, 5

παρελθὼν Περικλῆς ὁ Ξανθίππου, ἀνὴρ κατ' ἐκεῖνον τὸν χρόνον πρῶτος Ἀθηναίων, λέγειν τε καὶ πράσσειν δυνατώτατος, παρῄνει τοιάδε.

«Fattosi avanti Pericle figlio di Santippo, l’uomo che in quel tempo era il primo degli Ateniesi, e il più capace nel parlare e nell’agire, faceva queste esortazioni».

I, 141, 5

αἱ δὲ περιουσίαι τοὺς πολέμους μᾶλλον ἢ αἱ βίαιοι ἐσφοραὶ ἀνέχουσιν.

«I capitali sostengono le guerre più delle imposte forzose».

I, 142, 1

Μέγιστον δέ, τῇ τῶν χρημάτων σπάνει κωλύσονται, ὅταν σχολῇ αὐτὰ ποριζόμενοι διαμέλλωσιν· τοῦ δὲ πολέμου οἱ καιροὶ οὐ μενετοί.

«Ma la cosa più importante, saranno ostacolati dalla scarsità di denaro, quando, procurandolselo con lentezza, indugeranno; le occasioni1 della guerra invece non aspettano».

I, 143, 5

μέγα γὰρ τὸ τῆς θαλάσσης κράτος καὶ νῦν χρὴτὴν μὲν γῆν καὶ οἰκίας ἀφεῖναι, τῆς δὲ θαλάσσης καὶ πόλεως φυλακὴν ἔχειν, καὶ Πελοποννησίοις ὑπὲρ αὐτῶν ὀργισθέντας πολλῷ πλέοσι μὴ διαμάχεσθαιτήν τε ὀλόφυρσιν μὴ οἰκιῶν καὶ γῆς ποιεῖσθαι, ἀλλὰ τῶν σωμάτων· οὐ γὰρ τάδε τοὺς ἄνδρας, ἀλλ' οἱ ἄνδρες ταῦτα κτῶνται.

«Infatti è una gran cosa il dominio del mare… E ora è necessario che… lasciamo perdere la terra e le case, facciamo invece la guardia al mare e alla città, e quando saremo adirati per queste cose non dovremo combattere coi Peloponnesiaci che sono molti di più… e non dovremo lamentarci delle case e della terra, ma dei cadaveri: non queste cose infatti acquistano gli uomini, ma gli uomini queste2».

I, 144, 1-4

μᾶλλον γὰρ πεφόβημαι τὰς οἰκείας ἡμῶν ἁμαρτίας ἢ τὰς τῶν ἐναντίων διανοίαςεἰδέναι δὲ χρὴ ὅτι ἀνάγκη πολεμεῖν,ἔκ τε τῶν μεγίστων κινδύνων ὅτι καὶ πόλει καὶ ἰδιώτῃ [4] μέγισται τιμαὶ περιγίγνονταιὧν οὐ χρὴ λείπεσθαι, ἀλλὰ τούς τε ἐχθροὺς παντὶ τρόπῳ ἀμύνεσθαι καὶ τοῖς ἐπιγιγνομένοις πειρᾶσθαι αὐτὰ μὴ ἐλάσσω παραδοῦναι.

«Infatti ho paura più dei nostri propri errori che dei piani degli avversari… Bisogna rendersi conto che fare la guerra è una necessità,… e che dai più grandi pericoli derivano sia per una città sia per un singolo i più grandi onori… Bisogna non essere da meno di quelli, ma difenderci dai nemici in ogni modo e provare a consegnare ai posteri tale potenza non diminuita».


Secondo discorso - II 35-46

λόγος ἐπιτάφιος

Questo secondo discorso è il più famoso: fu pronunciato alla fine del primo anno di guerra per commemorare i caduti. Si può considerare il manifesto dell’Atene periclea all’apice del suo splendore.

II, 35, 23

χαλεπὸν γὰρ τὸ μετρίως εἰπεῖν ἐν ᾧ μόλις καὶ ἡ δόκησις τῆς ἀληθείας βεβαιοῦται. ὅ τε γὰρ ξυνειδὼς καὶ εὔνους ἀκροατὴς τάχ' ἄν τι ἐνδεεστέρως πρὸς ἃ βούλεταί τε καὶ ἐπίσταται νομίσειε δηλοῦσθαι, ὅ τε ἄπειρος ἔστιν ἃ καὶ πλεονάζεσθαι, διὰ φθόνον, εἴ τι ὑπὲρ τὴν αὑτοῦ φύσιν ἀκούοι. μέχρι γὰρ τοῦδε ἀνεκτοὶ οἱ ἔπαινοί εἰσι περὶ ἑτέρων λεγόμενοι, ἐς ὅσον ἂν καὶ αὐτὸς ἕκαστος οἴηται ἱκανὸς εἶναι δρᾶσαί τι ὧν ἤκουσεν· τῷ δὲ ὑπερβάλλοντι αὐτῶν φθονοῦντες ἤδη καὶ ἀπιστοῦσιν.

«È difficile infatti parlare con la giusta misura in una situazione in cui a stento viene confermata la presunzione della verità. Infatti l’ascoltatore consapevole e benevolo potrebbe forse pensare che qualche aspetto sia illustrato in modo piuttosto carente rispetto a ciò che vuole e sa, e quello inesperto, per invidia, che ce ne siano alcuni anche esagerati, se sente qualcosa di al di sopra della propria natura. Fino a questo punto infatti sono tollerabili le lodi pronunciate su altri, nella misura in cui ciascuno pensa di essere capace egli stesso di fare qualcuna delle cose che ha sentito dire; quanto invece a ciò che eccede le proprie capacità provando subito invidia neanche vi credono».

II, 36, 1

τὴν γὰρ χώραν οἱ αὐτοὶ αἰεὶ οἰκοῦντες διαδοχῇ τῶν ἐπιγιγνομένων μέχρι τοῦδε ἐλευθέραν δι' ἀρετὴν παρέδοσαν.

«Infatti abitando sempre gli stessi la regione l’hanno consegnata alla successione dei posteri libera fino a questo momento grazie alla virtù»

II, 36, 4

ἀπὸ δὲ οἵας τε ἐπιτηδεύσεως ἤλθομεν ἐπ' αὐτὰ καὶ μεθ' οἵας πολιτείας καὶ τρόπων ἐξ οἵων μεγάλα ἐγένετο, ταῦτα δηλώσας πρῶτον εἶμι καὶ ἐπὶ τὸν τῶνδε ἔπαινον.

«Ma a partire da quale stile di vita siamo giunti a questa potenza e con quale costituzione grazie a quali inclinazioni divenne grande, dopo aver dimostrato questo per prima cosa andrò anche all’elogio di questi».

II, 37, 1

'Χρώμεθα γὰρ πολιτείᾳ οὐ ζηλούσῃ τοὺς τῶν πέλας νόμους, παράδειγμα δὲ μᾶλλον αὐτοὶ ὄντες τισὶν ἢ μιμούμενοι ἑτέρους. καὶ ὄνομα μὲν διὰ τὸ μὴ ἐς ὀλίγους ἀλλ' ἐς πλείονας οἰκεῖν δημοκρατία κέκληται· μέτεστι δὲ κατὰ μὲν τοὺς νόμους πρὸς τὰ ἴδια διάφορα πᾶσι τὸ ἴσον, κατὰ δὲ τὴν ἀξίωσιν, ὡς ἕκαστος ἔν τῳ εὐδοκιμεῖ, οὐκ ἀπὸ μέρους τὸ πλέον ἐς τὰ κοινὰ ἢ ἀπ' ἀρετῆς προτιμᾶται, οὐδ' αὖ κατὰ πενίαν, ἔχων γέ τι ἀγαθὸν δρᾶσαι τὴν πόλιν, ἀξιώματος ἀφανείᾳ κεκώλυται.

«Ci avvaliamo di una costituzione che non emula le leggi dei vicini, ma siamo noi un un esempio per alcuni piuttosto che imitare gli altri. E di nome, per il fatto gestisce il governo non per pochi ma per la maggioranza, è chiamata democrazia4; secondo le leggi poi verso le discordie private c’è l’uguaglianza per tutti, mentre secondo la reputazione, in base a come ciascuno è considerato bravo in qualche campo, e non per il partito più che per il valore, viene preferito negli incarichi pubblici, né d’altra parte secondo la povertà, se almeno può fare qualcosa di buono per la città, è ostacolato dall’oscurità della sua posizione sociale5».

II, 37, 3

ἀνεπαχθῶς δὲ τὰ ἴδια προσομιλοῦντες τὰ δημόσια διὰ δέος μάλιστα οὐ παρανομοῦμεν, τῶν τε αἰεὶ ἐν ἀρχῇ ὄντων ἀκροάσει καὶ τῶν νόμων, καὶ μάλιστα αὐτῶν ὅσοι τε ἐπ' ὠφελίᾳ τῶν ἀδικουμένων κεῖνται καὶ ὅσοι ἄγραφοι ὄντες αἰσχύνην ὁμολογουμένην φέρουσιν.

«Mentre trattiamo i rapporti privati senza offendere nelle questioni pubbliche non violiamo le leggi soprattutto per paura, dando ascolto a coloro che di volta in volta ricoprono una carica e alle leggi, e soprattuto a quelle che sono in vigore per la tutela delle vittime di ingiustizia e a quelle che, pur essendo non scritte, procurano unanime disonore».


Leggi scritte e leggi non scritte


II, 38, 1

Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῇ γνώμῃ ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις [2] τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει.

«Inoltre ci siamo procurati per lo spirito moltissimi sollievi dalle fatiche, facendo uso di gare6 e feste sacre, e di eleganti edifici privati, il cui godimento quotidiano scaccia la pena7».

II, 39, 1

πιστεύοντες οὐ ταῖς παρασκευαῖς τὸ πλέον καὶ ἀπάταις ἢ τῷ ἀφ' ἡμῶν αὐτῶν ἐς τὰ ἔργα εὐψύχῳ·

«siccome confidiamo nei preparativi e nei tranelli non più che nel nostro ardimento verso le azioni».

II, 39, 4

καίτοι εἰ ῥᾳθυμίᾳ μᾶλλον ἢ πόνων μελέτῃ καὶ μὴ μετὰ νόμων τὸ πλέον ἢ τρόπων ἀνδρείας ἐθέλομεν κινδυνεύειν, περιγίγνεται ἡμῖν τοῖς τε μέλλουσιν ἀλγεινοῖς μὴ προκάμνειν.

«Per altro se preferiamo rischiare con noncuranza più che con esercizio alle fatiche e non con le leggi più che con il vigore dei caratteri, ce ne deriva di non abbatterci in anticipo per i dolori futuri8».

II, 40, 1-2

[1] Φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ' εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας· πλούτῳ τε ἔργου μᾶλλον καιρῷ ἢ λόγου κόμπῳ χρώμεθα, καὶ τὸ πένεσθαι οὐχ ὁμολογεῖν τινὶ αἰσχρόν, [2] ἀλλὰ μὴ διαφεύγειν ἔργῳ αἴσχιον. ἔνι τε τοῖς αὐτοῖς οἰκείων ἅμα καὶ πολιτικῶν ἐπιμέλεια, καὶ ἑτέροις πρὸς ἔργα τετραμμένοις τὰ πολιτικὰ μὴ ἐνδεῶς γνῶναι· μόνοι γὰρ τόν τε μηδὲν τῶνδε μετέχοντα οὐκ ἀπράγμονα, ἀλλ' ἀχρεῖον νομίζομεν, καὶ οἱ αὐτοὶ ἤτοι κρίνομέν γε ἢ ἐνθυμούμεθα ὀρθῶς τὰ πράγματα, οὐ τοὺς λόγους τοῖς ἔργοις βλάβην ἡγούμενοι, ἀλλὰ μὴ προδιδαχθῆναι μᾶλλον λόγῳ πρότερον ἢ ἐπὶ ἃ δεῖ ἔργῳ ἐλθεῖν.

«Amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza; usiamo la ricchezza9 più come occasione di agire che come vanteria10 di parole, e essere povero non è una vergogna ammetterlo, ma piuttosto è una vergogna non evitarlo con l’operosità. Nelle medesime persone c’è la cura degli affari privati e insieme di quelli pubblici, e per gli altri che sono rivolti a delle attività è possibile conocere le questioni politiche adeguatamente; noi soli consideriamo chi non partecipa in nulla a questi problemi non pacifico, ma inutile11, e proprio noi giudichiamo o esaminiamo correttamente i fatti, considerando un danno per le azioni non i discorsi, ma se mai non essere istruiti in anticipo con la parola prima cioè di giungere a ciò che si deve compiere con lazione».


La bellezza coniugata alla semplicità


Tucidide associa la semplicità anche alla nobiltà (III, 83, 1) quando parla della guerra civile a Corcira: Οὕτω πᾶσα ἰδέα κατέστη κακοτροπίας διὰ τὰς στάσεις τῷ Ἑλληνικῷ, καὶ τὸ εὔηθες, οὗ τὸ γενναῖον πλεῖστον μετέχει, καταγελασθὲν ἠφανίσθη, «Così ogni forma di malignità si produsse nel mondo greco a causa delle guerre civili, e la semplicità, di cui per lo più partecipa la nobiltà, derisa sparì».

II, 40, 3

διαφερόντως γὰρ δὴ καὶ τόδε ἔχομεν ὥστε τολμᾶν τε οἱ αὐτοὶ μάλιστα καὶ περὶ ὧν ἐπιχειρήσομεν ἐκλογίζεσθαι· ὃ τοῖς ἄλλοις ἀμαθία μὲν θράσος, λογισμὸς δὲ ὄκνον φέρει. κράτιστοι δ' ἂν τὴν ψυχὴν δικαίως κριθεῖεν οἱ τά τε δεινὰ καὶ ἡδέα σαφέστατα γιγνώσκοντες καὶ διὰ [4] ταῦτα μὴ ἀποτρεπόμενοι ἐκ τῶν κινδύνων. 

«Infatti ci distinguiamo dagli altri anche in questo così da osare sempre noi al massimo e a calcolare sulle azioni che intendiamo intraprendere; e in ciò per gli altri l’ignoranza porta spavalderia e il calcolo titubanza12. Ma fortissimi d’animo si dovrebbero giudicare giustamente coloro che conoscono nel modo più chiaro gli aspetti terribili e quelli piacevoli e non per questi si distolgono dai pericoli».

II, 40, 4-5

καὶ τὰ ἐς ἀρετὴν ἐνηντιώμεθα τοῖς πολλοῖς· οὐ γὰρ πάσχοντες εὖ, ἀλλὰ δρῶντες κτώμεθα τοὺς φίλους. βεβαιότερος δὲ ὁ δράσας τὴν χάριν ὥστε ὀφειλομένην δι' εὐνοίας ᾧ δέδωκε σῴζειν· ὁ δὲ ἀντοφείλων ἀμβλύτερος, εἰδὼς οὐκ ἐς χάριν, ἀλλ' ἐς [5] ὀφείλημα τὴν ἀρετὴν ἀποδώσων. καὶ μόνοι οὐ τοῦ ξυμφέροντος μᾶλλον λογισμῷ ἢ τῆς ἐλευθερίας τῷ πιστῷ ἀδεῶς τινὰ ὠφελοῦμεν.

«Anche in fatto di benemerenza ci contrapponiamo ai più: infatti non ricevendo un beneficio, ma facendolo acquistiamo gli amici. È più saldo chi ha fatto un favore, così da conservare, per mezzo della benvolenza verso colui a cui l’ha concesso, la gratitudine dovutagli da costui; chi invece è in debito è più lento, sapendo che ricambierà la benemerenza non per fare un favore, ma per dovere13. E siamo i soli ad aiutare senza paura qualcuno non per calcolo di convenienza più che per fede nella libertà».

II, 41, 1

'Ξυνελών τε λέγω τήν τε πᾶσαν πόλιν τῆς Ἑλλάδος παίδευσιν εἶναι.

«Riassumendo dico che tutta la città è la scuola dell’Ellade».


Terzo discorso - II 60-64

II, 60, 2-4; 5-6

ἐγὼ γὰρ ἡγοῦμαι πόλιν πλείω ξύμπασαν ὀρθουμένην ὠφελεῖν τοὺς ἰδιώτας ἢ καθ' ἕκαστον τῶν πολιτῶν εὐπραγοῦσαν, [3] ἁθρόαν δὲ σφαλλομένην. καλῶς μὲν γὰρ φερόμενος ἀνὴρ τὸ καθ' ἑαυτὸν διαφθειρομένης τῆς πατρίδος οὐδὲν ἧσσον ξυναπόλλυται, κακοτυχῶν δὲ ἐν εὐτυχούσῃ πολλῷ μᾶλλον [4] διασῴζεται.

[…]

καίτοι ἐμοὶ τοιούτῳ ἀνδρὶ ὀργίζεσθε ὃς οὐδενὸς ἥσσων οἴομαι εἶναι γνῶναί τε τὰ δέοντα καὶ ἑρμηνεῦσαι ταῦτα, φιλόπολίς τε καὶ χρημάτων [6] κρείσσων. ὅ τε γὰρ γνοὺς καὶ μὴ σαφῶς διδάξας ἐν ἴσῳ καὶ εἰ μὴ ἐνεθυμήθη·

«Io infatti penso che una città giovi di più ai privati quando ha successo tutta quanta rispetto a quando è felice in ciascun singolo cittadino, ma nel suo insieme fallisce. Infatti un uomo che se la passi bene a livello di individuo quando la patria va in rovina non di meno perisce insieme a quella, mentre se ha una cattiva sorte in una città fortunata molto di più si salva

[…]

Eppure vi adirate con me, un uomo siffatto, che non è inferiore, penso, a nessuno nell’esprimere i giudizi dovuti e nel darne spiegazione, amante della città e superiore al denaro. Infatti chi esprime giudizi e non li spiega con chiarezza è in una condizione uguale a quella in cui sarebbe se non li avesse pensati».

II, 62, 4

αὔχημα μὲν γὰρ καὶ ἀπὸ ἀμαθίας εὐτυχοῦς καὶ δειλῷ τινὶ ἐγγίγνεται, καταφρόνησις δὲ ὃς ἂν καὶ γνώμῃ πιστεύῃ τῶν ἐναντίων προύχειν, [5] ὃ ἡμῖν ὑπάρχει.

«Infatti la fierezza nasce anche da un’ignoranza fortunata e anche in un vigliacco, mentre il disprezzo nasce in chi confidi, e a ragion veduta, di essere superiore agli avversari, cosa che noi abbiamo».

II, 63, 2

ἧς οὐδ' ἐκστῆναι ἔτι ὑμῖν ἔστιν, εἴ τις καὶ τόδε ἐν τῷ παρόντι δεδιὼς ἀπραγμοσύνῃ ἀνδραγαθίζεται· ὡς τυραννίδα γὰρ ἤδη ἔχετε αὐτήν, ἣν [3] λαβεῖν μὲν ἄδικον δοκεῖ εἶναι, ἀφεῖναι δὲ ἐπικίνδυνοντὸ γὰρ ἄπραγμον οὐ σῴζεται μὴ μετὰ τοῦ δραστηρίου τεταγμένον, οὐδὲ ἐν ἀρχούσῃ πόλει ξυμφέρει, ἀλλ' ἐν ὑπηκόῳ, ἀσφαλῶς δουλεύειν.

«E non vi è neppure più possibile rinunciarvi14, se uno, avendo paura nel momento presente, si comporta da uomo per bene anche in questo, volendo stare in pace; infatti ormai possedete un impero che è come una tirannide, che sembra ingiusto aver conquistato, ma rischioso lasciar andare… la pace infatti non si salva se non si è schierata insieme all’attività energica, ed essere schiavi nella sicurezza non conviene in una città che comanda, ma in una sottomessa».

II, 64, 3; 5-6

γνῶτε δὲ ὄνομα μέγιστον αὐτὴν ἔχουσαν ἐν ἅπασιν ἀνθρώποις διὰ τὸ ταῖς ξυμφοραῖς μὴ εἴκειν,τὸ δὲ μισεῖσθαι καὶ λυπηροὺς εἶναι ἐν τῷ παρόντι πᾶσι μὲν ὑπῆρξε δὴ ὅσοι ἕτεροι ἑτέρων ἠξίωσαν ἄρχειν· ὅστις δὲ ἐπὶ μεγίστοις τὸ ἐπίφθονον λαμβάνει, ὀρθῶς βουλεύεται. μῖσος μὲν γὰρ οὐκ ἐπὶ πολὺ ἀντέχει, ἡ δὲ παραυτίκα τε λαμπρότης [6] καὶ ἐς τὸ ἔπειτα δόξα αἰείμνηστος καταλείπεται.

«Sappiate che la città gode di grandissima fama tra tutti gli uomini per il fatto di non cedere alle disgrazie… l’essere odiati e risultare molesti nel momento presente è capitato a tutti quelli che hanno preteso di dominare sugli altri; ma chi accetta l’invidia per scopi grandissimi, decide correttamente. L’odio infatti non dura per molto, mentre lo splendore del momento e la fama per il futuro rimangono indimenticabili».


Ritratto postumo - II, 65, 5-9

ὅσον τε γὰρ χρόνον προύστη τῆς πόλεως ἐν τῇ εἰρήνῃ, μετρίως ἐξηγεῖτο καὶ ἀσφαλῶς διεφύλαξεν αὐτήν καὶ ἐπειδὴ ἀπέθανεν, ἐπὶ πλέον ἔτι [7] ἐγνώσθη ἡ πρόνοια αὐτοῦ ἡ ἐς τὸν πόλεμον. ὁ μὲν γὰρ ἡσυχάζοντάς τε καὶ τὸ ναυτικὸν θεραπεύοντας καὶ ἀρχὴν μὴ ἐπικτωμένους ἐν τῷ πολέμῳ μηδὲ τῇ πόλει κινδυνεύοντας ἔφη περιέσεσθαι· οἱ δὲ ταῦτά τε πάντα ἐς τοὐναντίον ἔπραξαν ἃ κατορθούμενα μὲν τοῖς ἰδιώταις τιμὴ καὶ ὠφελία μᾶλλον ἦν, σφαλέντα δὲ τῇ πόλει ἐς [8] τὸν πόλεμον βλάβη καθίστατο. αἴτιον δ' ἦν ὅτι ἐκεῖνος μὲν δυνατὸς ὢν τῷ τε ἀξιώματι καὶ τῇ γνώμῃ χρημάτων τε διαφανῶς ἀδωρότατος γενόμενος κατεῖχε τὸ πλῆθος ἐλευθέρως, καὶ οὐκ ἤγετο μᾶλλον ὑπ' αὐτοῦ ἢ αὐτὸς ἦγε, διὰ τὸ μὴ κτώμενος ἐξ οὐ προσηκόντων τὴν δύναμιν πρὸς ἡδονήν τι λέγειν, ἀλλ' ἔχων ἐπ' ἀξιώσει καὶ πρὸς ὀργήν τι ἀντειπεῖν ἐγίγνετό τε λόγῳ [10] μὲν δημοκρατία, ἔργῳ δὲ ὑπὸ τοῦ πρώτου ἀνδρὸς ἀρχή.

«Infatti per tutto il tempo in cui fu a capo della città durante la pace, la guidava con moderazione e la protesse con sicurezza… e dopo che morì, ancora di più fu riconosciuta la sua lungimiranza15 per la guerra. Egli infatti disse che se fossero stati tranquilli e si fossero curati della flotta e non avessero ingrandito l’impero nel corso della guerra né avessero fatto rischiare la città avrebbero prevalso16: quelli però fecero tutto il contrario… cose che se avessero avuto successo sarebbero state più un onore e un vantaggio per degli individui, mentre se fossero fallite avrebbero costituito per la città un danno alla guerra. La causa era il fatto che quello essendo potente grazie alla stima di cui godeva e all’ingegno ed essendo manifestamente incorruttibile, dominava la massa lasciandola libera, e non ne era guidato più di quanto non la guidasse, per il fatto che non diceva niente per compiacerla17 cercando di conquistare il potere con mezzi non convenienti, ma potendo, grazie alla reputazione, anche contraddirlo fino a farla adirare… Era a parole una democrazia, ma di fatto il dominio da parte del primo uomo».

Una valutazione negativa della figura di Pericle, ma in generale dei politici ateniesi, si trova nel Gorgia di Platone; così si rivolge Socrate a Callicle (518e-519a):

518 [e] ἐγκωμιάζεις ἀνθρώπους, οἳ τούτους εἱστιάκασιν εὐωχοῦντες ὧν ἐπεθύμουν. καί φασι μεγάλην τὴν πόλιν πεποιηκέναι αὐτούς· ὅτι δὲ οἰδεῖ καὶ ὕπουλός ἐστιν [519] [a] δι' ἐκείνους τοὺς παλαιούς, οὐκ αἰσθάνονται. ἄνευ γὰρ σωφροσύνης καὶ δικαιοσύνης λιμένων καὶ νεωρίων καὶ τειχῶν καὶ φόρων καὶ τοιούτων φλυαριῶν ἐμπεπλήκασι τὴν πόλιν· ὅταν οὖν ἔλθῃ ἡ καταβολὴ αὕτη τῆς ἀσθενείας, τοὺς τότε παρόντας αἰτιάσονται συμβούλους, Θεμιστοκλέα δὲ καὶ Κίμωνα καὶ Περικλέα ἐγκωμιάσουσιν, τοὺς αἰτίους τῶν κακῶν.

«Elogi uomini, che hanno nutrito questi18 ingrassandoli di ciò che bramavano. E dicono che quelli hanno reso grande la città; ma non si accorgono che a causa di quelli di un tempo è gofia e purulenta. Senza moderazione e senza giustizia, infatti, hanno riempito la città di porti e di arsenali e di mura e di tributi e simili fandonie; qualora poi giungesse il principio della decadenza, incolperanno i consiglieri presenti allora e elogeranno Temistocle e cimone e Pericle, i responsabili dei mali».

1 L’occasione è data dalla fortuna, a cui Machiavelli attribuisce la metà del potere (Principe, XXV): «E' non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne' nostri tempi per le variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi. E assimiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e' piani, rovinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all'impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l'impeto loro non sarebbe né dannoso né licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta e' sua impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini né e' ripari a tenerla». Poi conclude il capitolo aggiungendo che: «variando la fortuna e' tempi e stando li uomini ne' loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme e, come e' discordano, infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo: perché la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quegli che freddamente procedono: e però sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano».

2 Queste parole si possono considerare una esaltazione dello spirito sulla materia. Leopardi , in Il pensiero dominante (vv. 59-65) polemizza con la supremazia che la sua epoca attribuisce alla dimensione materiale: «Di questa età superba, / Che di vote speranze si nutrica, / Vaga di ciance, e di virtù nemica; / Stolta, che l'util chiede, / E inutile la vita / Quindi più sempre divenir non vede; / Maggior mi sento».

3 Cfr. Sallustio, Cat., 3: Sed in magna copia rerum aliud alii natura iter ostendit. Pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est; vel pace vel bello clarum fieri licet; et qui fecere et qui facta aliorum scripsere, multi laudantur. Ac mihi quidem, tametsi haudquaquam par gloria sequitur scriptorem et auctorem rerum, tamen in primis arduum videtur res gestas scribere: primum quod facta dictis exaequanda sunt; dehinc quia plerique, quae delicta reprehenderis, malevolentia et invidia dicta putant, ubi de magna virtute atque gloria bonorum memores, quae sibi quisque facilia factu putat, aequo animo accipit, supra ea veluti ficta pro falsis ducit, «… poi perché i più, i misfatti che hai puoi biasimare, li considerano dettati da malevolenza e invidia, quando fai menzione della grande virtù e gloria dei valolorosi, le azioni che ciascuno ritiene facili a compiersi da parte sua, le accetta tranquillamente, quelle che eccedono le proprie capacità le considera inventate come false»; e Tacito, Annales, IV, 18: beneficia eo usque laeta sunt dum videntur exolvi posse: ubi multum antevenere pro gratia odium redditur, «I benefici sono piacevoli fintanto che sembrano di poter essere ricambiati: quando oltrepassano di molto al posto della gratitudine viene restituito odio».

4 Erodoto (III, 80), nel discorso di Otane, usa il nome di ἰσονομίη: Πλῆθος δὲ ἄρχον πρῶτα μὲν οὔνομα πάντων κάλλιστον ἔχει, ἰσονομίην, «Ma un popolo che comanda ha il nome di gran lunga più bello di tutti, isonomia».

5 Cfr. art. 3 della nostra costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

6 Sullo spirito agonistico dei Greci riflette così Nietzsche (Umano, troppo umano, II, Parte seconda, Il viandante e la sua ombra): «226. Saggezza dei Greci. Poiché il voler vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni stima e gioia di uguaglianza, lo Stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioè delimitato un'arena dove quell'impulso doveva scaricarsi senza mettere in pericolo l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo Stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna.

7 A questo passo fa riferimento Nietzsche (La nascita della tragedia, Tentativo di autocritica, 4: «Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il suo grado di sensibilità,… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che proprio questo fosse vero e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre – da che cosa discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà di pessimismo nel Greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il terribile, il malvagio, l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all’esistenza, – da che cosa discenderebbe allora la tragedia?».

Sulla festa come tratto distintivo del mondo pagano: Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, trad. it. Mondadori, Milano, 1975, pag. 347: «Bisogna essere molto grossolani per non sentire la presenza di cristiani e di valori cristiani come un’oppressione, sotto la quale ogni vera atmosfera di festa se ne va al diavolo. Nella festa è compreso: orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione animale – tutti stati d’animo a cui il cristiano non può onestamente dire di sì. La festa è paganesimo per eccellenza».

Ancora Nietzsche in Umano, troppo umano, II, Opinioni e sentenze diverse: «187. Il mondo antico e la gioia. Gli uomini del mondo antico sapevano gioire meglio; noi sappiamo rattristarci meno; quelli riuscivano a trovare sempre nuovi motivi di sentirsi bene e di celebrare feste, impegnando tutta la loro ricchezza di acume e di riflessione, mentre noi rivolgiamo il nostro spirito alladempimento di compiti che mirano piuttosto alla liberazione dal dolore, alleliminazione delle cause di dispiacere. Quanto alle sofferenze dellesistenza, gli antichi cercavano di dimenticare, o di piegare in qualche modo il sentimento verso il piacevole; sicché a ciò essi cercavano di ovviare con palliativi, mentre noi affrontiamo le cause del soffrire e nel complesso preferiamo agire in senso profilattico. Forse noi stiamo costruendo solo le fondamenta, su cui uomini futuri costruiranno di nuovo anche il tempio della gioia».

8 Anche Seneca concorda sul fatto di non darsi troppo pensiero dei possibili mali futuri (Epistulae, 13): 5. Quaedam ergo nos magis torquent quam debent, quaedam ante torquent quam debent, quaedam torquent cum omnino non debeant; aut augemus dolorem aut praecipimus aut fingimus7. 'Quomodo' inquis 'intellegam, vana sint an vera quibus angor?' Accipe huius rei regulam: aut praesentibus torquemur aut futuris aut utrisque… 8. plerumque enim suspicionibus laboramus, et illudit nobis illa quae conficere bellum solet fama, multo autem magis singulos conficit, «5. Certe cose dunque ci tormentano più di quanto devono, certe ci tormentano prima di quanto devono, certe altre ci tormentano non dovendo affatto; o accresciamo il dolore o lo anticipiamo o lo inventiamo»… 7. “Come” tu dici “posso capire, se sono vani o veri i motivi per cui sono in ansia?” Ascolta una norma di questa cosa: o siamo tormentati da sofferenze presenti o da quelle future o da entrambe»… 8. Per lo più infatti soffriamo a causa di sospetti, e si prendono gioco di noi quelle fole che sono solite definire una guerra, ma molto di più definiscono gli individui». Infine conclude: 16. 'Inter cetera mala hoc quoque habet stultitia: semper incipit vivere., «16. Tra gli altri mali anche questo ha la stupidità: sempre incomincia a vivere».

9 Cfr. Senofonte, Economico, 1, 10-11; il problema posto è se le ricchezze siano un bene e Socrate risponde a Critobulo facendo la distinzione tra κεκτῆσθαι (possedere) e χρῆσθαι (usare): non basta possedere le ricchezze, bisogna saperle usare, cosa per cui ci vuole ἐπιστήμη (scienza, appunto): Ταὐτὰ ἄρα ὄντα τῷ μὲν ἐπισταμένῳ χρῆσθαι αὐτῶν ἑκάστοις χρήματά ἐστι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐ χρήματα· ὥσπερ γε αὐλοὶ τῷ μὲν ἐπισταμένῳ ἀξίως λόγου αὐλεῖν χρήματά εἰσι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐδὲν μᾶλλον ἢ ἄχρηστοι λίθοι, εἰ μὴ ἀποδιδοῖτό γε αὐτούς. τοῦτ' ἄρα φαίνεται ἡμῖν, ἀποδιδομένοις μὲν οἱ αὐλοὶ χρήματα, μὴ ἀποδιδομένοις δὲ ἀλλὰ κεκτημένοις οὔ, τοῖς μὴ ἐπισταμένοις αὐτοῖς χρῆσθαι. «le medesime cose che sono beni utili per chi sa fare uso di ciascuno di essi, per chi non ne sa fare uso sono beni inutili; come i flauti per chi sa suonarli in modo degno di considerazione sono beni utili, per chi non lo saa fare invece sono niente più che sassi inutili, a meno che non li venda. Questo dunque ci è chiaro: per coloro che non sanno usarli, i flauti sono beni utili se li vendono, ma se li possiedono senza venderli no».

Le ricchezze dunque sono utili solo in relazione all’uso che si è in grado di farne.

Anche Seneca rifletta su tale distinzione (Epistulae, 9, 14): Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est. «Voglio indicarti anche la distinzione di Crisippo. Dice che il sapiente non manca di nessuna cosa, e tuttavia ha bisogno di molte cose: “al contrario lo stolto non ha bisogno di nessuna cosa – infatti non sa usare nessuna cosa – però manca di tutte”. Il sapiente ha bisogno sia di mani sia di occhi sia di molte cose necessarie all’uso quotidiano, non manca di nessuna cosa; mancare di qualcosa infatti è proprio della necessità, niente è necessario per il sapiente».”

10 Cfr. Sofocle, Antigone, 127-128: Ζεὺς γὰρ μεγάλης γλώσσης κόμπους / ὑπερεχθαίρει, «Zeus detesta i vanti di una lingua superba». È la parodo in cui il coro mette in guardia dagli eccessi, aanche verbali.

11 Pochi anni dopo Platone, nella Repubblica (X, 620b), attribuisce una connotazione positiva al disimpegno politico, πόρρω δ᾽ ἐν ὑστάτοις ἰδεῖν τὴν τοῦ γελωτοποιοῦ Θερσίτου πίθηκον ἐνδυομένην. κατὰ τύχην δὲ τὴν Ὀδυσσέως λαχοῦσαν πασῶν ὑστάτην αἱρησομένην ἰέναι, μνήμῃ δὲ τῶν προτέρων πόνων φιλοτιμίας λελωφηκυῖαν ζητεῖν περιιοῦσαν χρόνον πολὺν βίον ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος, καὶ μόγις εὑρεῖν κείμενόν που καὶ παρημελημένον ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ εἰπεῖν ἰδοῦσαν ὅτι τὰ αὐτὰ ἂν ἔπραξεν καὶ πρώτη λαχοῦσα, καὶ ἁσμένην ἑλέσθαι, «L’anima di Ulisse andava a scegliere sorteggiata per case ultima tra tutte, ma per ricordo delle precedenti sofferenze, guarita dallambizione, cercava andando in giro per molto tempo una vita di un uomo privato sfaccendato, e a stento latrovò che giaceva da qualche parte e trascurata dagli altri, e disse vedendola che avrebbe fatto la stessa scelta anche sorteggiata per prima, e la prese contenta». Siamo nell’oltretomba dove le anime devono scegliere la vita in cui si reincarneranno, e lo fanno per lo più influenzate dalla pita precedente.

Qui, forse, nel rovesciare il rapporto tra sfera pubblica e privata, è anticipato quel sentimento di stanchezza post-filosofica di cui parla (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale. Il giocoso in Callimaco, pagg. 371-372): «Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici, mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici. La poesia piú antica tende a scoprire sempre nuovi lati dello spirito, e trova perciò una naturale continuazione nella conquista razionale dei campi che aveva da poco scoperto, cioè nella filosofia e nella scienza. Cosí l'epica ha, coi suoi miti eroici, posto le basi della storiografia jonica e formulando il problema dell'ἀρχή (arché) nei poemi teogonici e cosmologici, ha creato le premesse della filosofia jonica della natura. La lirica porta ad Eraclito, il dramma a Socrate e a Platone. Nel momento in cui sorgeva la poesia ellenistica, declinava la grande epoca d'incessante evoluzione dei sistemi filosofici. Il secolo IV aveva visto nascere le opere di Platone, di Aristotele e di Teofrasto, e alla fine del secolo erano state fondate le due scuole filosofiche piú importanti per i tempi futuri: il Giardino di Epicuro e la Stoa di Zenone. La filosofia aveva dunque raggiunto in Grecia i suoi risultati più alti, quando in un nuovo centro spirituale, in Alessandria d'Egitto, residenza dei Tolomei, si formò una cerchia di poeti, fra cui Teocrito e il piú notevole di tutti, Callimaco, i quali portarono la poesia a una nuova fioritura. Post-filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono piú nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall’universale (cfr. sopra, p. I41) e si rivolgono con amore al particolare».

12 Così commenta questa considerazione B. Knox (Atene, in La tragedia greca. Guida storica e critica, Bari, Laterza, 1988, pagg. 255-256): «la rapidità di azione combinata all’attenta riflessione che troviamo in Edipo trova un riflesso ad Atene nella fiducia nel dibattito che prepara all’azione, e non la impedisce, come accade a certuni»; seguono le parole di Pericle riguardo ai discorsi.

Cfr. I, 22, 2 τὰ δ' ἔργα τῶν πραχθέντων, «le azioni tra i fatti». Tucidide ha appena spiegato come si è regolato in relazione a ὅσα μὲν λόγῳ εἶπον ἕκαστοι, «quante cose disse ciascuno a parole»; le parole dunque sono una parte dei fatti e vengono prima delle azioni.

13 Come sappiamo Machiavelli (Principe, XVII) sostiene l’esatto contrario: «Nasce da questo una disputa, s'e' gli è meglio essere amato che temuto o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché e' gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell'uno de' dua. Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi del guadagno; e mentre fai loro bene e' sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e' figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto: ma quando ti si appressa, si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina. Perché le amicizie che si acquistono col prezzo, e non con grandezza e nobilità di animo, si meritano, ma elle non si hanno, e alli tempi non si possono spendere; e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gl'uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai».

14 All’egemonia, nominata prima.

15 Tale qualità è particolarmente apprezzata da Tucidide, che la attribuisce in massimo grado però a un altro condottiero ateniese (quello più ammirato), Temistocle (I, 138, 3): Ἦν γὰρ ὁ Θεμιστοκλῆς βεβαιότατα δὴ φύσεως ἰσχὺν δηλώσας καὶ διαφερόντως τι ἐς αὐτὸ μᾶλλον ἑτέρου ἄξιος θαυμάσαι· οἰκείᾳ γὰρ ξυνέσει καὶ οὔτε προμαθὼν ἐς αὐτὴν οὐδὲν οὔτ' ἐπιμαθών, τῶν τε παραχρῆμα δι' ἐλαχίστης βουλῆς κράτιστος γνώμων καὶ τῶν μελλόντων ἐπὶ πλεῖστον τοῦ γενησομένου ἄριστος εἰκαστής· καὶ ἃ μὲν μετὰ χεῖρας ἔχοι, καὶ ἐξηγήσασθαι οἷός τε, ὧν δ' ἄπειρος εἴη, κρῖναι ἱκανῶς οὐκ ἀπήλλακτο· τό τε ἄμεινον ἢ χεῖρον ἐν τῷ ἀφανεῖ ἔτι προεώρα μάλιστα. καὶ τὸ ξύμπαν εἰπεῖν φύσεως μὲν δυνάμει, μελέτης δὲ βραχύτητι κράτιστος δὴ οὗτος αὐτοσχεδιάζειν [4] τὰ δέοντα ἐγένετο, «Temistocle era infatti un uomo che aveva mostrato nel modo più sicuro forza di ingegno e fu in questo degno di ammirazione straordinariamente più di chiunque altro; infatti con la propria intelligenza senza aver appreso nulla per quella né prima né dopo, nelle risoluzioni immediate, con una brevissima riflessione era bravissimo e per le cose che sarebbero accadute era il migliore a fare congetture per la maggior parte del tempo futuro; e le questioni che aveva tra le mani, era anche in grado di spiegarle, mentre su quelle di cui non aveva esperienza, non si sottrasse dal formulare adeguatamente un giudizio; il meglio o il peggio, quando ancora era nell’oscurità, lo prevedeva benissimo. E per dirla tutta, per potenza d’ingegno e brevità di studio questo fu il più bravo a improvvisare le soluzioni di cui c’era bisogno».

Questa capacità di fare congetture si può assimilare alla «discrezione» di Guicciardini che così ne parla (Ricordi): «6. È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione. 186. Non si può in effetto procedere sempre con una regola indistinta e ferma. Se è molte volte inutile lo allargarsi nel parlare etiam cogli amici - dico di cose che meritino essere tenute segrete - da altro canto el fare che gli amici si accorghino che tu stai riservato con loro, è la via a fare che anche loro faccino el medesimo teco: perché nessuna cosa fa altrui confidarsi di te che el presupporsi che tu ti confidi di lui; e così, non dicendo a altri, ti togli la facultà di sapere da altri. Però e in questo e in molte altre cose bisogna procedere distinguendo la qualità delle persone, de' casi e de' tempi, e a questo è necessaria la discrezione: la quale se la natura non t'ha data, rade volte si impara tanto che basti con la esperienza; co' libri non mai».

In un altro dei Ricordi (191), pur mettendo in guardia contro la fretta nel valutare, elogia tuttavia la rapidità nell’eseguire: «Non si può biasimare gli uomini che siano lunghi nel risolversi, perché, se bene accaggiono delle cose nelle quali è necessario deliberare presto, pure per lo ordinario erra più chi delibera presto che chi delibera tardi. Ma da riprendere è sommamente la tardità dello essequire, poi che si è fatta la resoluzione, la quale si può dire che nuoca sempre e non giovi mai se non per acidente. E ve lo dico perché ve ne guardiate, atteso che in questo molti errano o per ignavia o per fuggire molestia o per altra cagione».

16 Cfr. supra il primo discorso (I, 143-144).

17 Questa compiacenza, da cui Pericle era esente e che implicitamente è attribuita ai demagoghi che gli sono succeduti, è rimproverata da Seneca alla filosofia (Epistulae, 52): 9. Quid enim turpius philosophia captante clamores?, «9. Cosa infatti è più vergognoso della filosofia che va a caccia di approvazione?» […] 11 Quanta autem dementia eius est quem clamores imperitorum hilarem ex auditorio dimittunt! Quid laetaris quod ab hominibus his laudatus es quos non potes ipse laudare?, «11. Quanto grande è poi la stoltezza di colui che le acclamazioni degli ignoranti congedano tutto contento! Perché ti rallegri del fatto di essere stato lodato da questi uomini che tu stesso non puoi lodare?» […] 14. <At> ad rem commoveantur, non ad verba composita; alioquin nocet illis eloquentia, si non rerum cupiditatem facit sed sui, «14. Ma si emozionino per la sostanza, non per le belle parole; altrimenti l’eloquenza nuocerà loro, se produce passione non per i contenuti ma per se stessa». […] 15. Damnum quidem fecisse philosophiam non erit dubium postquam prostituta est; sed potest in penetralibus suis ostendi, si modo non institorem sed antistitem nancta est, «15. Di certo non ci sarà dubbio che la filosofia ha cagionato un danno da quando si è prostituita; ma può mostrarsi nei suoi santuari, se solo ha trovato non un venditore ma un sacerdote».

18 Si riferisce ai cittadini ateniesi.

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