Docente di greco e latino al Liceo Classico «Marco Minghetti» di Bologna. Scrivo sulla rivista online «Altri Territori»: www.altriterritori.com. Ho pubblicato per Barbera Editore una traduzione dei libri VIII e IX dell’«Etica Nicomachea» di Aristotele (2005)
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lunedì 31 marzo 2025
Giovanni Ghiselli: Cercare le cause più vere e quasi mai chiarite dal...

Nobis in arto et inglorius labor – Tacito e la storiografia – Maturità
Nel passo che segue Tacito esprime l’amara consapevolezza che la materia storica che ha a disposizione non gli consente di affrontare temi di ampio respiro, come invece era possibile in un tempo non lontano; di conseguenza il suo impegno non può che limitarsi agli spazi chiusi del palazzo, unico luogo in cui si determinano le decisioni in base ali umori dei potenti. Da qui però nasce uno degli aspetti peculiari di Tacito, cioè l’acume psicologico, come nota Montaigne.
Annales, IV, 32
Pleraque eorum quae rettuli quaeque referam parva forsitan et levia memoratu videri non nescius sum: sed nemo annalis nostros cum scriptura eorum contenderit qui veteres populi Romani res composuere. Ingentia illi bella, expugnationes urbium, fusos captosque reges, aut si quando ad interna praeverterent, discordias consulum adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis et optimatium certamina libero egressu memorabant: nobis in arto et inglorius labor; immota quippe aut modice lacessita pax, maestae urbis res et princeps proferendi imperi incuriosus erat. non tamen sine usu fuerit introspicere illa primo aspectu levia ex quis magnarum saepe rerum motus oriuntur.
«La maggior parte delle cose che ho riferito e che riferirò non sono inconsapevole che sembrano piccole forse e poco significative a ricordarsi: ma nessuno può paragonare i nostri annali con gli scritti di coloro che hanno composto le antiche imprese del popolo romano. Quelli ricordavano grandi guerre, espugnazioni di città, re messi in fuga e catturati, o se a volte si volgevano ai fatti interni, le discordie dei consoli contro i tribuni, leggi agrarie e frumentarie, le contese della plebe e degli ottimati spaziando liberamente: per noi la fatica è in un ambito ristretto e priva di gloria; il fatto è che la pace era immobile o poco provocata, triste la situazione della città e il principe poco preoccupato di estendere l’impero. Può tuttavia essere non privo di utilità gettare lo sguardo dentro quei fatti a prima vista poco significativi dai quali spesso nascono i moventi di grandi imprese».
Montaigne dunque è di parere opposto a quello di Tacito (Saggi, III, 8): «Ho appena finito di leggere d'un fiato la storia di Tacito […] Non conosco autore che introduca in una storia di eventi pubblici tante considerazioni sui costumi e le inclinazioni particolari. [c] E penso il contrario di quel che pensa lui: che dovendo in particolar modo seguire le vite degli imperatori del suo tempo, […] aveva una materia più forte e attraente da trattare e da narrare che se avesse dovuto parlare di battaglie e sconvolgimenti universali; tanto che spesso lo trovo sterile, quando sorvola rapidamente su quelle belle morti, come se temesse di annoiarci con il loro numero e la lunghezza del racconto. [B] Questo tipo di storia è di gran lunga il più utile: i moti pubblici dipendono piuttosto dalla condotta della fortuna, quelli privati dalla nostra. È più un giudizio che un'esposizione di storia: ci sono più precetti che racconti. Non è un libro da leggere, è un libro da studiare e da imparare; è così pieno di sentenze che ve ne sono a dritto e a rovescio: è un vivaio di riflessioni morali e politiche, per profitto e ornamento di coloro che occupano un posto nel governo del mondo. Egli perora sempre con ragioni solide e vigorose, in modo acuto e sottile, secondo lo stile ricercato del tempo; amavano tanto agghindarsi che quando non trovavano acutezza e finezza nelle cose, la traevano dalle parole. Si avvicina non poco alla scrittura di Seneca; lui mi sembra più polputo, Seneca più acuto1. […] Se i suoi scritti dicono qualcosa delle sue qualità, era un grand’uomo, retto e coraggioso, non di una virtù superstiziosa, ma filosofica e generosa».
Di seguito il secondo passo a cui allude Montaigne, nel quale Tacito, apprestandosi a narrare la serie di morti eccellenti (tra cui quella di Petronio) seguite alla fallita congiura dei Pisoni, ripropone il concetto già espresso in precedenza (nobis in arto e inglorius labor).
Annales, XVI, 16
Etiam si bella externa et obitas pro re publica mortis tanta casuum similitudine memorarem, meque ipsum satias cepisset aliorumque taedium expectarem, quamvis honestos civium exitus, tristis tamen et continuos aspernantium: at nunc patientia servilis tantumque sanguinis domi perditum fatigant animum et maestitia restringunt.
«Anche se ricordassi, in una così grande somiglianza di situazioni, guerre esterne e morti affrontate in difesa dello stato, la nausea si sarebbe impossessata addirittura di me e mi aspetterei la noia degli altri, i quali sdegnano le morti dei cittadini, onorevoli quanto vuoi, tuttavia tristi e continue: ma ora la passività da schiavi e così tanto sangue perduto in patria logorano l’animo e lo attanagliano nell’afflizione».
1 Il giudizio di Montaigne sullo stile di Tacito è sulla linea di quello di Nietzsche, che lo associa però a Tucidide: «144. Lo stile dell'immortalità. Tanto Tucidide quanto Tacito – entrambi hanno pensato, nel redigere le loro opere, a una durata immortale di esse: lo si potrebbe indovinare, se non lo si sapesse altrimenti, già dal loro stile. L'uno credette di dare durevolezza ai suoi pensieri salandoli, l'altro condensandoli a forza di cuocerli; e nessuno dei due, sembra, ha fatto male i suoi conti» (Umano, troppo umano II).

La lingua greca: Oscar Wilde e Marguerite Yourcenar
Verso la fine della sua carcerazione Oscar Wilde scrisse una lunga lettera, intitolata poi De profundis, pubblicata postuma alcuni decenni dopo la sua morte. Si era avvicinato al cattolicesimo e tra i libri che poteva leggere c’era anche un vangelo nella sua lingua originale, il greco. Consiglia anche al destinatario di leggerlo nella sua lingua originale perché, dice (ed è vero), è abbastanza semplice; critica il fatto che venga letto troppo spesso e troppo male, cioè tradotto; viceversa
When we turn to the Greek Testament we feel as if we stepped from a close, dark room into a garden of lilies. I derive double pleasure from the thought that we have in the Greek text the very words of Christ, the ipsissima verba.
Quando si torna al greco pare d’entrare in un giardino di gigli, uscendo da una dimora stretta e buia. Per me, il piacere è raddoppiato dalla riflessione che è estremamente probabile avere qui i veri termini, le «ipsissima verba» di Cristo. (trad. it. di Oreste del Buono, in Oscar Wilde, Opere,Milano, Meridiani Mondadori, 2000)
Molto belle anche le parole di M. Yourcenar (Memorie di Adriano, trad. it. di Lidia Storoni Mazzolani, Torino, Einaudi, 1963, pag. 34):
Fino alla fine dei miei giorni sarò riconoscente a Scauro per avermi costretto a studiare il greco per tempo. Ero ancora bambino, quando tentai per la prima volta di tracciare con lo stilo quei caratteri d'un alfabeto a me ignoto: cominciava per me la grande migrazione, i lunghi viaggi, e il senso d'una scelta deliberata e involontaria quanto quella dell'amore. Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, la ricchezza del vocabolario nel quale a ogni parola si afferma il contatto diretto e vario delle realtà, l'ho amata perché quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco.
Je serai jusqu'au bout reconnaissant à Scaurus de m’ avoir mis jeune à l'étude du grec. J’étais enfant encore lorsque j’essayai pour la première fois de tracer du stylet ces caractères d’un alphabet inconnu: mon grand dépaysement commençait, et mes grands voyages, et le sentiment d’un choix aussi délibéré et aussi involontaire que l’amour. J’ai aimé cette langue pour sa flexibilité de corps bien en forme, sa richesse de vocabulaire où s’atteste à chaque mot le contact direct et varié des réalités, et parce que presque tout ce que les hommes ont dit de mieux a été dit en grec.

Giovanni Ghiselli: Le repliche delle tragedie storiche.

domenica 30 marzo 2025
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mercoledì 26 marzo 2025
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lunedì 24 marzo 2025
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domenica 23 marzo 2025
Giovanni Ghiselli: Sofocle Edipo re, Parodo. Versi 151-215

La congiura dei mediocri – Schopenhauer
Partendo da una critica all’ambiente accademico, da cui in effetti non solo non fu valorizzato ma addirittura ignorato, Schopenhauer individua come una caratteristica diffusa negli uomini di tutti i tempi quella di discriminare il genio che con la sua superiorità rende manifesta la mediocrità dei più. Riporto un passo tratto da Parerga e paralipomena, I, Sulla filosofia delle università (trad. it., Milano, Adelphi, 1981, passim):
«Al liceo si dovrebbe leggere con cura Platone, che è lo stimolante più efficace dello spirito filosofico [...] Si tratta dell’antica lotta tra coloro che vivono per qualcosa e coloro che vivono di qualcosa, o tra coloro che sono qualcosa e coloro che lo rappresentano [...] L’atmosfera della libertà è indispensabile per la verità [...] Che la filosofia non sia adatta per guadagnare il pane, è già stato chiarito da Platone, nelle descrizioni dei sofisti, da lui contrapposti a Socrate [...] all’inizio del Protagora [...] Sentir cantare il rauco, o veder danzare lo zoppo è cosa penosa, ma udir filosofare il cervello limitato è insopportabile. Per nascondere la mancanza di veri pensieri, molti mettono assieme un imponente apparato di parole lunghe e composte, di intricati fioretti retorici [...] Per tenere in movimento questi mulini, viene applicato spesso un altro artificio tutto particolare, la cui invenzione è da attribuirsi ai signori Fichte e Schelling. Mi riferisco allo scaltro stratagemma di scrivere in modo oscuro, cioè incomprensibile; a tal riguardo la vera e propria finezza sta nel presentare il proprio caos in modo che il lettore debba credere sua la colpa di non comprenderne nulla [...] Com’è noto però, nessuno quanto Hegel ha usato così sfacciatamente e in misura tanto grande questo stesso artificio. Se costui avesse esposto molto chiaramente sin da principio l’assurdo concetto fondamentale della sua filosofia, il pensiero cioè di rovesciare la realtà vera e naturale delle cose e di considerare quindi concetti generali, astratti dalla nostra intuizione empirica, sorti con la caduta di certe determinazioni, e di conseguenza tanto più vuoti quanto più generici, come la realtà prima originaria e verace (come cosa in sé, per dirla con Kant), da cui soltanto il mondo empirico trae la sua esistenza; se costui, come dico, avesse esposto proprio da principio in parole chiare e comprensibili questo mostruoso ὕστερον πρότερον, anzi questa idea del tutto stravagante, con l’aggiunta che tali concetti, senza il nostro intervento, pensano sé stessi e si muovono da sé, tutti gli avrebbero riso in faccia [...]
omnia enim stolidi magis admirantur amantque,
inversis quae sub verbis latitantia cernunt.
Lucrezio, I, 6421
[...] I buoni scrittori si sono sempre vivamente sforzati di condurre i loro lettori a pensare proprio ciò che essi stessi hanno pensato: chi infatti ha qualcosa di buono da comunicare, si preoccuperà che ciò non vada perduto. Il buono stile è basato quindi principalmente sul fatto che si abbia davvero qualcosa da dire [...] Essi non conoscono altro se non le supreme astrazioni, come essere, essenza, divenire, assoluto, infinito eccetera, prendono le mosse da queste e ne costruiscono dei sistemi, il cui contenuto si riduce infine a semplici parole, propriamente null’altro se non bolle di sapone, utili per giocarci qualche tempo, ma che non possono toccare il suolo della realtà senza scoppiare2 [...] In tutti i tempi sull’intero globo terrestre e in tutte le circostanze, è esistita una medesima congiura, ordita dalla natura stessa, in tutti i cervelli mediocri, dappoco e ottusi contro lo spirito e l’intelligenza [...] «tantum quisque laudat, quantum se posse sperat imitari3» [...] in ogni tempo e dovunque, in tutte le situazioni e in tutti i rapporti la limitatezza e l’ottusità non odiano nulla al mondo così intimamente e furiosamente quanto l’intelletto, lo spirito e il talento [...] Di qui si può spiegare come all’epoca in cui Kant filosofava, Goethe poetava, Mozart componeva, sia seguita l’attuale [...] quest’«epoca presente» [...] chiama quel passato sopra lodato l’«epoca dei parrucconi». Sotto quelle parrucche stavano però dei cervelli, mentre ora insieme all’involucro è scomparso anche il frutto [...]
1 «Gli stolti infatti ammirano e amano di più tutto / ciò che scorgono nascosto sotto parole contorte».
2 Cfr. Petronio, Satyricon, 1: Et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus, aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed mellitos verborum globulos, et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa, «E perciò io ritengo che i ragazzini nelle scuole diventino stupidissimi, poiché nulla di ciò con cui abbiamo a che fare o ascoltano o vedono, ma pirati che stanno sulla spiaggia con le catene, ma tiranni che scrivono editti con cui ordinano ai figli di mozzare le teste dei propri padri, ma responsi dati per una pestilenza che dicono che siano immolate tre o più vergini, ma palline mielose di parole, e tutte cose dette e fatte quasi cosparse di papavero e sesamo».
3 Cicerone, Orator, 7, 24: «ciascuno loda solamente quanto spera di poter imitare».

Bellezza e semplicità – prima redazione
Il culto della bellezza unita alla semplicità
In occasione delle celebrazioni tenutesi nel 430 a.C. per commemorare i caduti del primo anno di guerra1, Tucidide riporta il discorso che fece Pericle (il cosiddetto λόγος ἐπιτάφιος, il secondo dei tre discorsi riportati dallo storiografo). Per onorare i caduti Pericle celebra la patria per cui hanno combattuto definendola «scuola dell’Ellade» (II, 41, 1): 'Ξυνελών τε λέγω τήν τε πᾶσαν πόλιν τῆς Ἑλλάδος παίδευσιν εἶναι, «Riassumendo dico che tutta la città è la scuola dell’Ellade». Nei paragrafi che seguono il Pericle di Tucidide esprime la quintessenza della grecità:
II, 40, 1-2
[1] Φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ' εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας· πλούτῳ τε ἔργου μᾶλλον καιρῷ ἢ λόγου κόμπῳ χρώμεθα, καὶ τὸ πένεσθαι οὐχ ὁμολογεῖν τινὶ αἰσχρόν, [2] ἀλλὰ μὴ διαφεύγειν ἔργῳ αἴσχιον. ἔνι τε τοῖς αὐτοῖς οἰκείων ἅμα καὶ πολιτικῶν ἐπιμέλεια, καὶ ἑτέροις πρὸς ἔργα τετραμμένοις τὰ πολιτικὰ μὴ ἐνδεῶς γνῶναι· μόνοι γὰρ τόν τε μηδὲν τῶνδε μετέχοντα οὐκ ἀπράγμονα, ἀλλ' ἀχρεῖον νομίζομεν, καὶ οἱ αὐτοὶ ἤτοι κρίνομέν γε ἢ ἐνθυμούμεθα ὀρθῶς τὰ πράγματα, οὐ τοὺς λόγους τοῖς ἔργοις βλάβην ἡγούμενοι, ἀλλὰ μὴ προδιδαχθῆναι μᾶλλον λόγῳ πρότερον ἢ ἐπὶ ἃ δεῖ ἔργῳ ἐλθεῖν.
«Amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza; usiamo la ricchezza2 più come occasione di agire che come vanteria3 di parole, e essere povero non è una vergogna ammetterlo, ma piuttosto è una vergogna non evitarlo con l’operosità. Nelle medesime persone c’è la cura degli affari privati e insieme di quelli pubblici, e per gli altri che sono rivolti a delle attività è possibile conocsere le questioni politiche adeguatamente; noi soli consideriamo chi non partecipa in nulla a questi problemi non pacifico, ma inutile4, e proprio noi giudichiamo o esaminiamo correttamente i fatti, considerando un danno per le azioni non i discorsi, ma se mai non essere istruiti in anticipo con la parola prima cioè di giungere a ciò che si deve compiere con l’azione».
Sul culto della bellezza promosso da Pericle si sofferma anche Plutarco, parlando dei monumenti da lui lasciati in eredità ai posteri (Vita di Pericle, 13, 4-5):
καὶ μᾶλλον θαυμάζεται τὰ Περικλέους ἔργα, πρὸς πολὺν χρόνον ἐν ὀλίγῳ [5] γενόμενα. κάλλει μὲν γὰρ ἕκαστον εὐθὺς ἦν τότ' ἀρχαῖον, ἀκμῇ δὲ μέχρι νῦν πρόσφατόν ἐστι καὶ νεουργόν· οὕτως ἐπανθεῖ καινότης ἀεί τις, ἄθικτον ὑπὸ τοῦ χρόνου διατηροῦσα τὴν ὄψιν, ὥσπερ ἀειθαλὲς πνεῦμα καὶ ψυχὴν ἀγήρω5 καταμεμειγμένην τῶν ἔργων ἐχόντων.
«E ancora di più sono ammirate le opere di Pericle, nate in poco tempo per una lunga durata. Per la belezza infatti ciascuna era già allora antica, mentre per il vertice raggiunto appare ancora oggi recente e appena ultimata; così è sempre in fiore una certa novità che mantiene l’aspetto intatto dal tempo, come se le opere avessero uno spirito sempreverde e infusa un’anima che non invecchia».
Tale visione della bellezza si può associare a Caio Petronio, l’elegantiae arbiter identificato come l’autore del Satyricon, di cui ci parla Tacito negli Annales (XVI, 18):
illi dies per somnum, nox officiis et oblectamentis uitae transigebatur; utque alios industria, ita hunc ignauia ad famam protulerat, habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. Pro consule tamen Bithyniae et mox consul uigentem se ac parem negotiis ostendit. Dein reuolutus ad uitia seu uitiorum imitatione inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobauisset.
«Egli trascorreva il giorno nel sonno, la notte negli affari e nei piaceri della vita; e come l’operosità aveva portato alla fama gli altri, questo ve lo aveva portato l’indolenza, ed era considerato non un debosciato e uno scialacquatore, come i più che danno fondo alle loro sostanze, ma uno dalla raffinatezza ricercata. E le sue parole e azioni quanto più erano disinvolte e presentavano una certa trascuratezza di sé, con tanto maggior favore erano accolte come manifestazione di semplicità. Tuttavia come proconsole in Bitinia e subito dopo come console si dimostrò energico e all’altezza dei compiti. Poi ritornato ai vizi o anche per imitazione dei vizi, fu ammesso tra i pochi intimi di Nerone, come arbitro di eleganza, tanto che il principe niente riteneva bello e delicato se non ciò che Petronio gli avesse approvato».
La neglegentia di Petronio trova corrispondenza nella «magnifica negligenza che Ulrich, nel romanzo di Musil L’uomo senza qualità, riscontra nelle case dell’aristocrazia rispetto a quelle della borghesia (Parte seconda, Le stesse cose ritornano, 67. Diotima e Ulrich):
«Gli ambienti aristocratici erano i resti di un modo di vivere grandioso ma senza acqua corrente, e nelle case e nelle sale di riunione della ricca borghesia se ne vedeva ripetuta la copia, migliorata nel gusto e nei servizi igienici, ma alquanto sbiadita. Una casta dominante rimane sempre un poco barbarica; scorie e residui, che il fuoco del tempo non aveva bruciati, eran rimasti sparsi al loro posto nei castelli patrizi; vicino agli scaloni d’onore il piede calcava tavolati di legno dolce, e orrendi mobili nuovi se ne stavano placidi fra stupendi pezzi antichi. La classe degli arricchiti, invece, innamorata dei grandi, eccelsi momenti dei suoi predecessori, aveva fatto involontariamente una scelta più raffinata, Se un castello apparteneva a una famiglia borghese, non lo si vedeva soltanto provvisto di comodità moderne come un lampadario avito rivestito di fili elettrici, ma anche nell’arredamento ben poco di bello era stato eliminato, e molte cose di valore erano state aggiunte, o per propria scelta o per consiglio indiscutibile di esperti. Quell’affinamento, ancor più che nei castelli, era evidente nelle abitazioni cittadine, che secondo il gusto del tempo erano arredate nello stile impersonale e fastoso dei transatlantici, ma in quel paese di raffinate ambizioni sociali conservavano - grazie a una patina inimitabile, all’opportuno isolamento dei mobili o alla posizione dominante di un quadro su una parete - l’eco delicata ma chiara di una grande musica svanita…
Erano invitati insieme in residenze campestri, e Ulrich notò che vi si vedeva sovente mangiare la frutta con le mani, senza sbucciarla, mentre nelle case dell'alta borghesia il cerimoniale con coltello e forchetta era rigidamente osservato; la stessa osservazione si poteva fare a proposito della conversazione che quasi soltanto nelle case borghesi era signorile e distinta, mentre negli ambienti aristocratici prevalevano i discorsi disinvolti, senza pretese, alla maniera dei cocchieri. Le dimore borghesi erano più igieniche e razionali. Nei castelli patrizi d'inverno si gelava; le scale logore e strette non erano una rarità, e accanto a sontuose sale di ricevimento si trovavano camere da letto basse e ammuffite. Non esistevano montavivande né bagni per la servitù. Ma, a guardar bene, c'era proprio in questo un senso più eroico, il senso della tradizione e di una magnifica negligenza!».
La neglegentia si può associare all’ἀμέλεια, la trascuratezza che l’Anonimo Del sublime attribuisce ai grandi talenti, contrapponendola alla piattezza priva di errori dei mediocri. Vediamo cosa dice al cap. 33.
L’autore in questo capitolo si chiede se sia [1] κρεῖττον ἐν ποιήμασι καὶ λόγοις μέγεθος ἐν ἐνίοις διημαρτημένον ἢ τὸ σύμμετρον μὲν ἐν τοῖς κατορθώμασιν ὑγιὲς δὲ πάντη καὶ ἀδιάπτωτον, «meglio negli scritti in versi e in prosa una grandezza che ha fallito in alcuni punti o la mediocrità nelle correttezze, sana ovunque e priva di cadute».
La risposta parte da questa considerazione: [2] αἱ ὑπερμεγέθεις φύσεις ἥκιστα καθαραί· ‹τὸ› γὰρ ἐν παντὶ ἀκριβὲς κίνδυνος μικρότητος, «le nature particolarmente grandi sono le meno pure: infatti la precisione in ogni aspetto diventa un rischio di meschinità», perché εἶναί τι χρὴ καὶ παρολιγωρούμενον, «bisogna che ci sia anche una certa trascuratezza»; così come è forse necessario anche τὸ τὰς μὲν ταπεινὰς καὶ μέσας φύσεις διὰ τὸ μηδαμῆ παρακινδυνεύειν μηδὲ ἐφίεσθαι τῶν ἄκρων ἀναμαρτήτους, τὰ δὲ μεγάλα ἐπισφαλῆ δι' αὐτὸ γίνεσθαι τὸ μέγεθος, «il fatto che le nature meschine e mediocri, non correndo mai rischi, senza mai sbagliare, non raggiungano le vette più alte, mentre i grandi talenti siano inclini a scivolare a causa della loro stessa grandezza».
Segue una riflessione un po’ sconsolata: [3] φύσει πάντα τὰ ἀνθρώπεια ἀπὸ τοῦ χείρονος ἀεὶ μᾶλλον ἐπιγινώσκεται καὶ τῶν μὲν ἁμαρτημάτων ἀνεξάλειπτος ἡ μνήμη παραμένει, τῶν καλῶν δὲ ταχέως ἀπορρεῖ, «per natura tutte le cose umane vengono sempre riconosciute piuttosto nel senso peggiore e il ricordo degli errori permane indelebile, mentre quello delle cose belle scorre via velocemente».
Quindi prosegue con le sue considerazioni su Omero.
[4] παρατεθειμένος δ' οὐκ ὀλίγα καὶ αὐτὸς ἁμαρτήματα καὶ Ὁμήρου καὶ τῶν ἄλλων ὅσοι μέγιστοι, καὶ ἥκιστα τοῖς πταίσμασιν ἀρεσκόμενος, ὅμως δὲ οὐχ ἁμαρτήματα μᾶλλον αὐτὰ ἑκούσια καλῶν ἢ παροράματα δι' ἀμέλειαν εἰκῆ που καὶ ὡς ἔτυχεν ὑπὸ μεγαλοφυΐας ἀνεπιστάτως παρενηνεγμένα, οὐδὲν ἧττον οἶμαι τὰς μείζονας ἀρετάς, εἰ καὶ μὴ ἐν πᾶσι διομαλίζοιεν, τὴν τοῦ πρωτείου ψῆφον μᾶλλον ἀεὶ φέρεσθαι, κἂν εἰ μηδενὸς ἑτέρου, τῆς μεγαλοφροσύνης αὐτῆς ἕνεκα· … ἄπτωτος ὁ Ἀπολλών‹ιος ἐν τοῖς› Ἀργοναύταις ποιητής...
«anche io stesso dopo aver raccolto non pochi errori sia di Omero sia degli altri quanti sono sommi, e non compiacendomi affatto delle loro cadute, tuttavia senza chiamarli errori volontari piuttosto che sviste dovute a noncuranza involontaria e casuale e distrattamente prodotte dalla grandezza del genio, ciò non di meno penso che le qualità maggiori, se anche non si mantengono uguali in tutte le parti, riportino sempre di più il voto più alto, se non altro, per la stessa grandezza di pensiero»… «Apollonio è poeta esente da cadute nelle Argonautiche»...
[5] ἆρ' οὖν Ὅμηρος ἂν μᾶλλον ἢ Ἀπολλώνιος ἐθέλοις γενέσθαι; … καὶ ἐν τραγῳδίᾳ Ἴων ὁ Χῖος ἢ νὴ Δία Σοφοκλῆς; … ὁ δὲ Πίνδαρος καὶ ὁ Σοφοκλῆς ὁτὲ μὲν οἷον πάντα ἐπιφλέγουσι τῇ φορᾷ, σβέννυνται δ' ἀλόγως πολλάκις καὶ πίπτουσιν ἀτυχέστατα.
«Ma vorresti essere Omero piuttosto o Apollonio? … e nella tragedia Ione di Chio o Sofocle, per Zeus? … Pindaro e Sofocle a volte per così dire infiammano tutto con il loro trasporto, ma spesso si spengono senza ragione e cadono nel modo più infelice».
In effetti nel Satyricon emerge un’idea di bellezza coniugata a semplicità e naturalezza che trova i suoi modelli in quelli che già nel I secolo d.C. erano considerati dei classici, contrapponendosi all’ostentazione dell’artificio (cap. 2):
Leuibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis eneruaretur et caderet. Nondum iuuenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides inuenerunt uerba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleuerat, cum Pindarus nouemque lyrici Homericis uersibus canere timuerunt. Et ne poetas quidem ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse uideo. Grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit.
«Infatti suscitando certi giochetti con suoni leggeri e vuoti, avete fatto in modo che il corpo dell’orazione si rammollisse e cadesse. Non ancora i giovani erano imbrigliati dalle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare. Non ancora un maestro cresciuto nell’ombra aveva distrutto le intelligenze, quando Pindaro e i nove lirici esitarono a cantare con versi omerici. E per non citare solo i poeti a testimonianza, vedo che di certo né Platone né Demostene si sono mai accostati a questo genere di esercitazione. La grande e, per così dire, pudica orazione non è né screziata né gonfia, ma si eleva per naturale bellezza».
Tucidide associa la semplicità anche alla nobiltà quando parla della guerra civile a Corcira (III, 83, 1):
Οὕτω πᾶσα ἰδέα κατέστη κακοτροπίας διὰ τὰς στάσεις τῷ Ἑλληνικῷ, καὶ τὸ εὔηθες, οὗ τὸ γενναῖον πλεῖστον μετέχει, καταγελασθὲν ἠφανίσθη,
«Così ogni forma di malignità si produsse nel mondo greco a causa delle guerre civili, e la semplicità, di cui per lo più partecipa la nobiltà, derisa sparì».
1 Si tratta della guerra del Peloponneso che impegnò Atene e Sparta con i rispettivi alleati tra il 431 e il 404 a.C.. Si risolse con la disfatta di Atene.
2 Cfr. Senofonte, Economico, 1, 10-11; il problema posto è se le ricchezze siano un bene e Socrate risponde a Critobulo facendo la distinzione tra κεκτῆσθαι (possedere) e χρῆσθαι (usare): non basta possedere le ricchezze, bisogna saperle usare, cosa per cui ci vuole ἐπιστήμη (scienza, appunto): Ταὐτὰ ἄρα ὄντα τῷ μὲν ἐπισταμένῳ χρῆσθαι αὐτῶν ἑκάστοις χρήματά ἐστι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐ χρήματα· ὥσπερ γε αὐλοὶ τῷ μὲν ἐπισταμένῳ ἀξίως λόγου αὐλεῖν χρήματά εἰσι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐδὲν μᾶλλον ἢ ἄχρηστοι λίθοι, εἰ μὴ ἀποδιδοῖτό γε αὐτούς. τοῦτ' ἄρα φαίνεται ἡμῖν, ἀποδιδομένοις μὲν οἱ αὐλοὶ χρήματα, μὴ ἀποδιδομένοις δὲ ἀλλὰ κεκτημένοις οὔ, τοῖς μὴ ἐπισταμένοις αὐτοῖς χρῆσθαι. «le medesime cose che sono beni utili per chi sa fare uso di ciascuno di essi, per chi non ne sa fare uso sono beni inutili; come i flauti per chi sa suonarli in modo degno di considerazione sono beni utili, per chi non lo saa fare invece sono niente più che sassi inutili, a meno che non li venda. Questo dunque ci è chiaro: per coloro che non sanno usarli, i flauti sono beni utili se li vendono, ma se li possiedono senza venderli no».
Le ricchezze dunque sono utili solo in relazione all’uso che si è in grado di farne.
Anche Seneca rifletta su tale distinzione (Epistulae, 9, 14): Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est. «Voglio indicarti anche la distinzione di Crisippo. Dice che il sapiente non manca di nessuna cosa, e tuttavia ha bisogno di molte cose: “al contrario lo stolto non ha bisogno di nessuna cosa – infatti non sa usare nessuna cosa – però manca di tutte”. Il sapiente ha bisogno sia di mani sia di occhi sia di molte cose necessarie all’uso quotidiano, non manca di nessuna cosa; mancare di qualcosa infatti è proprio della necessità, niente è necessario per il sapiente».”
3 Cfr. Sofocle, Antigone, 127-128: Ζεὺς γὰρ μεγάλης γλώσσης κόμπους / ὑπερεχθαίρει, «Zeus detesta i vanti di una lingua superba». È la parodo in cui il coro mette in guardia dagli eccessi, aanche verbali.
4 Pochi anni dopo Platone, nella Repubblica (X, 620b), attribuisce una connotazione positiva al disimpegno politico, πόρρω δ᾽ ἐν ὑστάτοις ἰδεῖν τὴν τοῦ γελωτοποιοῦ Θερσίτου πίθηκον ἐνδυομένην. κατὰ τύχην δὲ τὴν Ὀδυσσέως λαχοῦσαν πασῶν ὑστάτην αἱρησομένην ἰέναι, μνήμῃ δὲ τῶν προτέρων πόνων φιλοτιμίας λελωφηκυῖαν ζητεῖν περιιοῦσαν χρόνον πολὺν βίον ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος, καὶ μόγις εὑρεῖν κείμενόν που καὶ παρημελημένον ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ εἰπεῖν ἰδοῦσαν ὅτι τὰ αὐτὰ ἂν ἔπραξεν καὶ πρώτη λαχοῦσα, καὶ ἁσμένην ἑλέσθαι, «L’anima di Ulisse andava a scegliere sorteggiata per case ultima tra tutte, ma per ricordo delle precedenti sofferenze, guarita dall’ambizione, cercava andando in giro per molto tempo una vita di un uomo privato sfaccendato, e a stento latrovò che giaceva da qualche parte e trascurata dagli altri, e disse vedendola che avrebbe fatto la stessa scelta anche sorteggiata per prima, e la prese contenta». Siamo nell’oltretomba dove le anime devono scegliere la vita in cui si reincarneranno, e lo fanno per lo più influenzate dalla vita precedente.
Qui, forse, nel rovesciare il rapporto tra sfera pubblica e privata, è anticipato quel sentimento di stanchezza post-filosofica di cui parla Snell (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale. Il giocoso in Callimaco, pagg. 371-372):
«Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici, mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici. La poesia piú antica tende a scoprire sempre nuovi lati dello spirito, e trova perciò una naturale continuazione nella conquista razionale dei campi che aveva da poco scoperto, cioè nella filosofia e nella scienza. Cosí l'epica ha, coi suoi miti eroici, posto le basi della storiografia jonica e formulando il problema dell'ἀρχή (arché) nei poemi teogonici e cosmologici, ha creato le premesse della filosofia jonica della natura. La lirica porta ad Eraclito, il dramma a Socrate e a Platone. Nel momento in cui sorgeva la poesia ellenistica, declinava la grande epoca d'incessante evoluzione dei sistemi filosofici. Il secolo IV aveva visto nascere le opere di Platone, di Aristotele e di Teofrasto, e alla fine del secolo erano state fondate le due scuole filosofiche piú importanti per i tempi futuri: il Giardino di Epicuro e la Stoa di Zenone. La filosofia aveva dunque raggiunto in Grecia i suoi risultati più alti, quando in un nuovo centro spirituale, in Alessandria d'Egitto, residenza dei Tolomei, si formò una cerchia di poeti, fra cui Teocrito e il piú notevole di tutti, Callimaco, i quali portarono la poesia a una nuova fioritura. Post-filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono piú nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall’universale (cfr. sopra, p. I41) e si rivolgono con amore al particolare».
5 L’anima dei monumenti periclei non invecchia come non invecchia il dio grande dentro le leggi non scritte dell’Edipo re di Sofocle, vv. 863-871: Εἴ μοι ξυνείη φέροντι μοῖρα τὰν / εὔσεπτον ἁγνείαν λόγων / ἔργων τε πάντων, ὧν νόμοι πρόκεινται / ὑψίποδες, οὐρανίαν / δι’ αἰθέρα τεκνωθέντες, ὧν Ὄλυμπος / πατὴρ μόνος, οὐδέ νιν / θνατὰ φύσις ἀνέρων / ἔτικτεν, οὐδὲ μήποτε λά- / θα κατακοιμάσῃ· / μέγας ἐν τούτοις θεός, οὐδὲ γηράσκει, «Che sia con me la sorte di portare / la sacra purezza di parole / e di opere tutte, davanti alle quali sono stabilite leggi / sublimi, generate / attraverso l'etere celeste, delle quali Olimpo è l'unico padre, né le / partorì natura mortale di uomini, / né mai oblio / le addormenterà: / grande in queste il dio, e non invecchia».

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venerdì 21 marzo 2025
Giovanni Ghiselli: Oggi devo chiedere scusa a Michele Serra.

La gigantomachia sull’essere – Platone, Sofista, 246a-c
Così si esprime Platone nel Sofista, 246a-c, individuando una guerra tra due modi di concepire la vita, una guerra potremmo dire tra materialismo e idealismo:
καὶ μὴν ἔοικέ γε ἐν αὐτοῖς οἷον γιγαντομαχία τις εἶναι διὰ τὴν ἀμφισβήτησιν περὶ τῆς οὐσίας πρὸς ἀλλήλους [...] οἱ μὲν εἰς γῆν ἐξ οὐρανοῦ καὶ τοῦ ἀοράτου πάντα ἕλκουσι [...] ταὐτὸν σῶμα καὶ οὐσίαν ὁριζόμενοι [...]
«e certo in quelli sembra esserci come una gigantomachia dovuta a una disputa tra loro sull’essere [...] gli uni trascinano tutto a terra dal cielo e dall’invisibile [...] definendo come la stessa cosa corpo e essere […]»
οἱ πρὸς αὐτοὺς ἀμφισβητοῦντες (τοὺς τῶν εἰδῶν φίλους, 248a) μάλα εὐλαβῶς ἄνωθεν ἐξ ἀοράτου ποθὲν ἀμύνονται, νοητὰ ἄττα καὶ ἀσώματα εἴδη βιαζόμενοι τὴν ἀληθινὴν οὐσίαν εἶναι [...] ἐν μέσῳ δὲ περὶ ταῦτα ἄπλετος ἀμφοτέρων μάχη τις, ὦ Θεαίτητε, ἀεὶ συνέστηκεν
«quelli che disputano con loro (gli amici delle forme, 248a) con molta cautela si difendono dall'alto, da qualche luogo invisibile, imponendo con la violenza che la realtà vera consiste in certe forme intellegibili e incorporee [...] in mezzo, oh Teeteto, sussiste sempre una battaglia accanita di entrambi su queste cose».
L’ostilità di Platone per il materialismo e la predilezione per un approccio razionalista e spiritualista viene così commentata da Nietzsche, Al di là del bene e del male, 14:
«la fisica… essa ha, dalla sua, la testimonianza degli occhi e delle dita… e ciò esercita su un’età dal fondamentale gusto plebeo l’effetto di un incantesimo… Viceversa, proprio nel recalcitrare all’evidenza sensibile consisteva l’incantesimo del modo platonico di pensare, il quale era un modo di pensare aristocratico… la plebaglia dei sensi, come diceva Platone».
Il riferimento è a Leggi, 689a-b:
ταύτην τὴν διαφωνίαν λύπης τε καὶ ἡδονῆς πρὸς τὴν κατὰ λόγον δόξαν ἀμαθίαν φημὶ εἶναι τὴν ἐσχάτην, μεγίστην δέ, ὅτι τοῦ πλήθους ἐστὶ τῆς ψυχῆς· [b] τὸ γὰρ λυπούμενον καὶ ἡδόμενον αὐτῆς ὅπερ δῆμός τε καὶ πλῆθος πόλεώς ἐστιν.
«questa dissonanza di dolore e piacere in relazione all’opinione secondo ragione io la dico ignoranza estrema e grandissima, in quanto è della maggior parte dell’anima; infatti la parte che soffre e prova piacere è, di essa, ciò che popolo e massa sono della città».
E più avanti, sempre Nietzsche, ribadisce il concetto, Al di là del bene e del male, 190:
«V’è qualcosa della morale platonica, che non appartiene propriamente a Platone, ma che pure si trova nella sua filosofia, si potrebbe dire, malgrado Platone stesso: vale a dire il socratismo, per cui egli era veramente troppo aristocratico… Questo tipo di conclusione odora di plebaglia, la quale in colui che agisce con malvagità vede soltanto le conseguenze dolorose… Platone non ha lesinato i suoi sforzi per interpretare il principio del suo maestro in modo da trovarci dentro qualcosa di raffinato e di aristocratico, soprattutto se stesso».
Tornando alla gigantomachia, i primi, i materialisti, sono descritti in termini altrettando efficaci in Repubblica, 586a:
[a] Οἱ ἄρα φρονήσεως καὶ ἀρετῆς ἄπειροι, εὐωχίαις δὲ καὶ τοῖς τοιούτοις ἀεὶ συνόντες, κάτω, ὡς ἔοικεν, καὶ μέχρι πάλιν πρὸς τὸ μεταξὺ φέρονταί τε καὶ ταύτῃ πλανῶνται διὰ βίου, ὑπερβάντες δὲ τοῦτο πρὸς τὸ ἀληθῶς ἄνω οὔτε ἀνέβλεψαν πώποτε οὔτε ἠνέχθησαν, οὐδὲ τοῦ ὄντος τῷ ὄντι ἐπληρώθησαν, οὐδὲ βεβαίου τε καὶ καθαρᾶς ἡδονῆς ἐγεύσαντο, ἀλλὰ βοσκημάτων δίκην κάτω ἀεὶ βλέποντες καὶ κεκυφότες εἰς γῆν καὶ εἰς τραπέζας βόσκονται χορταζόμενοι καὶ ὀχεύοντες, [b] καὶ ἕνεκα τῆς τούτων πλεονεξίας λακτίζοντες καὶ κυρίττοντες ἀλλήλους σιδηροῖς κέρασί τε καὶ ὁπλαῖς ἀποκτεινύασι δι' ἀπληστίαν, ἅτε οὐχὶ τοῖς οὖσιν οὐδὲ τὸ ὂν οὐδὲ τὸ στέγον ἑαυτῶν πιμπλάντες.
«Quelli che sono inesperti di pensiero e virtù, che sono sempre in festa e cose siffatte, sono portati, a quanto pare, verso il basso e di nuovo verso il mezzo e durante la vita vagano in questa condizione, né dopo aver superato questo grado, hanno mai alzato lo sguardo né si sono sollevati verso ciò che è veramente alto, né si sono saziati di ciò che realmente è, né hanno gustato un piacere sicuro e puro, ma alla maniera del bestiame, guardando sempre in basso e proni verso la terra e le mense, pascolano ingrassando e accoppiandosi, e per averne di più prendendosi a calci e cornate si uccidono tra loro con corna e zoccoli ferrei a causa dell’insaziabilità, poiché non saziano di sé stessi con cose reali né ciò che è né la dimora».
In modo del tutto simile si esprime Sallustio nel proemio del De catilinae coniuratione:
Omnis homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit. 2 Sed nostra omnis vis in animo et corpore sita est: animi imperio, corporis servitio magis utimur; alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est.
«Tutti gli uomini che aspirano ad essere superiori agli altri esseri viventi, conviete che si sforzino col massimo impegno di non trascorrere la vita sotto silenzio, come il bestiame, che la natura plasmò prono e obbediente al ventre. Invece tutta la nostra forza è situata nell’animo e nel corpo: dell’animo utilizziamo di più la capacità di comandare, del corpo quella di servire; uno lo abbiamo in comune con gli dèi, l’altro con le bestie».
Seneca poi mette in evidenza un altro aspetto della vita bestiale, che ci impedisce di raggiungere la felicità (De vita beata, 1), cioè il conformismo:
Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem1, pergentes non quo eundum est sed quo itur. Atqui nulla res nos maioribus malis inplicat quam quod ad rumorem componimur, optima rati ea quae magno adsensu recepta sunt2, quodque exempla nobis pro bonis multa sunt nec ad rationem sed ad similitudinem uiuimus. Inde ista tanta coaceruatio aliorum super alios ruentium.
«Niente dunque dobbiamo assicurarci tanto quanto non seguire al modo delle pecore il gregge di chi ci precede, dirigendoci non dove bisogna andare ma dove si va3. E nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci in base al “si dice”, considerando ottime quelle cose che sono accettate con grande consenso, e del fatto che disponiamo di molti esempi considerati buoni e viviamo non secondo ragione ma per imitazione».
Infine senttiamo Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Aforismi sulla saggezza della vita:
capitolo secondo
La gente comune si preoccupa unicamente di passare il tempo; chi ha un qualche talento pensa invece a utilizzarlo… In tutti i paesi l’attività principale di ogni società è sempre stata il gioco delle carte: esso è la misura del valore di tale società, e la bancarotta dichiarata di tutti i pensieri. Dal momento che non hanno alcun pensiero da scambiarsi, essi si scambiano delle carte…
Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura» (Seneca, Ep., 82, 3).
È stato infatti sostenuto abbastanza spesso, e non senza verosimiglianza, che l’uomo spiritualmente limitato è in fondo il più felice… Sofocle si è espresso al riguardo in due modi diametralmente opposti:
πολλῷ τὸ φρονεῖν εὐδαιμονίας πρῶτον ὑπάρχει
Sapere longe prima felicitatis pars est
Antig., 1323
e d’altro canto
ἐν τῷ φρονεῖν γὰρ μηδὲν ἥδιστος βίος
Nihil cogitantium iucundissima vita est
Aiax. 550
L’uomo privo di ogni bisogno spirituale è per l’appunto… con un’espressione… in origine tratta dalla vita studentesca… un filisteo. Costui è e rimane cioè l’ἄμουσος ἀνήρ… Costui è dunque un uomo senza bisogni spirituali… Nessun impulso alla conoscenza e alla comprensione, come fini a sé, e neppure nessun impulso verso godimenti propriamente estetici… Egli si sobbarcherà tuttavia, come una specie di lavoro forzato… quelli tra i godimenti di tale specie che gli sono imposti dalla moda o dall’autorità. Per lui i veri piaceri sono soltanto quelli sessuali, ed egli si rivale con questi. Di conseguenza le ostriche e lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisca al suo benessere materiale…
La grande sofferenza di tutti i filistei sta nel fatto che le idealità non forniscono loro alcun passatempo, e che per sfuggire alla noia essi hanno sempre bisogno di realtà. Queste ultime o sono presto esaurite, quando invece di divertire stancano, o provocano mali di ogni genere, mentre le idealità sono inesauribili, e in se stesse innocenti e innocue.»
capitolo quinto
Dove si trovano molti ospiti, vi è infatti molta canaglia… La società realmente buona è dappertutto e necessariamente assai ristretta. In generale poi le feste e i divertimenti splendidi e rumorosi portano sempre in sé un vuoto, anzi una stonatura, già soltanto per il fatto che si oppongono nettamente alla sventura e alla povertà della nostra esistenza, e che il contrasto mette in risalto la verità…
Chi vive nel tumulto degli affari o dei piaceri… il suo animo diventa un caos, e una certa confusione si introduce nei suoi pensieri, come si può vedere dal carattere rotto, frammentario, quasi spezzato della sua conversazione…
1 La metafora del gregge è utilizzata anche da Platone nel Politico, 276b-c, in relazione al governo della comunità: ΞΕ. Ἐπιμέλεια δέ γε ἀνθρωπίνης συμπάσης κοινωνίας οὐδεμία ἂν ἐθελήσειεν ἑτέρα μᾶλλον καὶ προτέρα τῆς βασιλικῆς [c] φάναι καὶ κατὰ πάντων ἀνθρώπων ἀρχῆς εἶναι τέχνη. «Straniero di Elea. Ma nessuna altra arte può pretendere di definirsi, di più e prima di quella regia, cura di tutta quanta la comunità umana e arte di governo su tutti gli uomini». ΝΕ. ΣΩ. Λέγεις ὀρθῶς. «Socrate il giovane. Dici bene». ΞΕ. Μετὰ ταῦτα δέ γε, ὦ Σώκρατες, ἆρ' ἐννοοῦμεν ὅτι πρὸς αὐτῷ δὴ τῷ τέλει συχνὸν αὖ διημαρτάνετο; «Str. Dopo di che, oh Socrate, non notiamo che proprio alla fine è stato commesso un grosso errore?». ΝΕ. ΣΩ. Τὸ ποῖον; «Socr. g. Quale?» ΞΕ. Τόδε, ὡς ἄρ' εἰ καὶ διενοήθημεν ὅτι μάλιστα τῆς δίποδος ἀγέλης εἶναί τινα θρεπτικὴν τέχνην, οὐδέν τι μᾶλλον ἡμᾶς ἔδει βασιλικὴν αὐτὴν εὐθὺς καὶ πολιτικὴν ὡς ἀποτετελεσμένην προσαγορεύειν «Str. Questo, che dunque se anche avessimo creduto in massimo grado che esiste una certa arte di allevare il gregge bipede, per nessuna ragione avremmo dovuto chiamarla subito regia e politica, come se fosse perfetta».
2 Un concetto analogo si trova in Cicerone, Tusc., II, 63: Sed tamen hoc evenit, ut in vulgus insipientium opinio valeat honestatis, cum ipsam videre non possint. Itaque fama et multitudinis iudicio moventur, cum id honestum putent quod a plerisque laudetur. Te autem, si in oculis sis multitudinis, tamen eius iudicio stare nolim nec, quod illa putet, idem putare pulcherrimum. Tuo tibi iudicio est utendum; tibi si recta probanti placebis, tum non modo tete viceris, quod paulo ante praecipiebam, sed omnes et omnia. Hoc igitur tibi propone, amplitudinem animi et quasi quandam exaggerationem quam altissimam animi, quae maxime eminet contemnendis et despiciendis doloribus, unam esse omnium rem pulcherrimam, eoque pulchriorem, si vacet populo neque plausum captans se tamen ipsa delectet. Quin etiam mihi quidem laudabiliora videntur omnia, quae sine venditatione et sine populo teste fiunt, non quo fugiendus sit (omnia enim bene facta in luce se collocari volunt), sed tamen nullum theatrum virtuti conscientia maius est, « «Ma tuttavia accade questo, che nel volgo degli ignoranti ha valore l’opinione dell’onestà, dato che non sono in grado di vedere l’onestà in sé. E così sono influenzati dalle dicerie e dal giudizio della moltitudine, poiché ritengono onesto ciò che dai più è lodato. Quanto a te poi, se fossi davanti agli occhi della moltitudine, tuttavia non vorrei che ti attenessi al suo giudizio, né che considerassi bellissimo la medesima cosa che quella considera tale. Tu devi usare il tuo giudizio; se piacerai a te stesso quando riconosci il giusto, allora non solo avrai vinto te stesso, cosa che insegnavo poco fa, ma tutti e tutto. Questo quindi proponiti, che la grandezza d’animo e per così dire una certa elevazione la più alta possibile dell’animo, che soprattutto si innalza nel considerare con indifferenza e disprezzo i dolori, è l’unica cosa più bella di tutte, e tanto più bella, se è libera dalla massa e, pur non cercando l’applauso, tuttavia tra diletto essa stessa da se stessa. Anzi, a me sembrano certamente più lodevoli tutte quelle cose che avvengono senza ostentazione e senza la massa come testimone, non perché sia da fuggire (infatti tutte le cose ben fatte vogliono essere collocate nella luce), ma tuttavia nessun teatro è più grande per la virtù della coscienza».
3 Nietzsche considera tale disposizione gregaria tipica del vanitoso, che in fondo è uno schiavo (Al di là del bene e del male, Capitolo nono, Che cos’è aristocratico, 261): «La vanità fa parte di quelle cose che sono forse le più difficili a capire per un uomo nobile… Per lui il problema è quello di immaginarsi degli esseri che cercano di destare una buona opinione di sé, quale essi stessi non hanno – e dunque neppure «meritano» – per credere poi essi stessi a questa buona opinione… Il vanitoso si rallegra di ogni buona opinione che sente sul suo conto… allo stesso modo con cui si dispiace di ogni cattiva opinione: egli infatti si assoggetta a entrambe, si sente assoggettato e esse, per quell’antichissimo istinto di soggezione che prorompe in lui. – C’è «lo schiavo» nel sangue del vanitoso».
