martedì 4 marzo 2025

Hegel – Antigone di Sofocle – Maturità 2025

 


Esteticatrad. it. di Nicola Merker e Nicola Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967


pp. 1360-1361

In primo luogo, va particolarmente messo in rilievo il fatto che se il fondamento vero e proprio delle collisioni è costruito dall’unilateralità del pathos, ciò significa solo che l’unilateralità è entrata nel vivo agire ed è quindi divenuta pathos unico di un individuo determinato. Se l’unilateralità deve essere superata, è dunque questo individuo che, nella misura in cui ha agito come l’unico pathos, deve essere soppresso e sacrificato. Infatti l’individuo è solo quest’unica vita, e se questa non vale saldamente per sé come tale, l’individuo è infranto.

Il genere più compiuto di questo sviluppo è possibile allorquando gli individui in conflitto si presentano, secondo la loro concreta esistenza, ognuno in se stesso come totalità, cosicché in se stessi si trovano in potere di ciò che combattono, violando quindi ciò che, conformemente alla loro esistenza, dovrebbero onorare. Così per es., Antigone vive sotto il potere statale di Creonte; ella stessa è figlia del re e promessa di Emone, così dovrebbe ubbidienza al comando del principe. Ma anche Creonte che è dal canto suo padre e sposo, dovrebbe rispettare la santità del sangue, e non comandare ciò che è contrario a questa pietà. Così in entrambi è immanente ciò contro cui si ergono rispettivamente, ed essi vengono presi e infranti da ciò che appartiene alla cerchi stessa della loro esistenza. Antigone subisce la morte prima di avere gioito della danza nunziale, ma anche Creonte viene punito nel figlio e nella moglie, che si danno la morte, il primo per quella di Antigone, l’altra per quella di Emone. Di tutti i capolavori del mondo antico e moderno – li conosco più o meno tutti ed ognuno dovrebbe e potrebbe conoscerli – l’Antigone mi pare per questo aspetto come l’opera d’arte più eccellente e più soddisfacente.

L’esito tragico non ha però sempre bisogno della morte dei protagonisti per sopprimere le due unilateralità ed il loro grande onore. È noto infatti che le Eumenidi non terminano con la morte di Oreste o con la rovina delle Eumenidi, queste vendicatrici del sangue materno e della pietà di fronte ad Apollo, che vuole salvaguardare la dignità e il rispetto del capo di famiglia e del re e che ha istigati Oreste ad uccidere Clitennestra; ma ad Oreste la punizione viene condonata e ad entrambi le divinità è fatto onore.


p. 522

L’interesse familiare ha come pathos la donna, Antigone; la salute della comunità Creonte, l’uomo. Polinice, combattendo contro la propria città natale, era caduto di fronte alle porte di Tebe; Creonte, il sovrano, minaccia di morte, con una legge pubblicamente bandita, chiunque dia l’onore della sepoltura a quel nemico della città. Ma di quest’ordine che riguarda solo il bene pubblico dello Stato, Antigone non si cura, e come sorella adempie al sacro dovere della sepoltura, per la pietà del suo amore per il fratello. Ella invoca in tal caso la legge degli dèi; ma gli dei che onora sono gli dèi inferi dell’Ade (Sofocle, Antigone, 451: ἡ ξύνοικος τῶν κάτω θεῶν Δίκη), quelli interni del sentimento, dell’amore del sangue, non gli dèi della luce, della libera ed autocosciente vita statale e popolare.



Lezioni sulla filosofia della religione, II, 3, a


Il fato è ciò che è privo di pensiero, di concetto; ciò in cui la giustizia e l’ingiustizia scompaiono nell’astrazione. Nella tragedia, invece, il destino opera entro la sfera della Giustizia etica. Tale concetto viene espresso nella forma più sublime dalle tragedie di Sofocle. In esse si discute sia del destino che della necessità. Il destino degli individui è rappresentato come qualcosa di incomprensibile, ma la necessità non è giustizia cieca: essa è, al contrario, considerata come giustizia vera. Proprio per questo motivo, queste tragedie sono le immortali “opere dello spirito”( Geisteswerke), dell’intelligenza etica e della comprensione, e i modelli eterni del concetto etico. Il destino cieco è qualcosa di insoddisfacente. In queste tragedie sofoclee la giustizia è afferrata dal pensiero. (…) Lo scontro tra i più alti poteri morali è realizzato in modo plastico in quell’exemplum assoluto di tragedia che è l’Antigone. Qui, l’amore della famiglia, la santità, l’interiorità, che appartengono al sentimento intimo, e perciò sono conosciute anche come la legge degli dèi inferi, si scontrano con il diritto dello Stato (Recht des Staats). Creonte non è un tiranno, ma rappresenta effettivamente una potenza etica (eine sittliche Macht). Creonte non ha torto. Egli ritiene che la legge dello Stato, l’autorità del governo debbano essere rispettate, e che la violazione della legge debba essere seguita dal castigo. Ciascuna di queste due parti realizza (verwiklicht) solo uno dei poteri etici e ne ha per contenuto esclusivamente uno. In questo consiste la loro unilateralità. Il significato della giustizia eterna è così reso manifesto: entrambi conseguono l’ingiustizia perché sono unilaterali, ma entrambi conseguono anche la giustizia. Entrambi vengono riconosciuti come “validi” nel corso “limpido” della moralità (im ungetrübten Gang der Sittlichkeit). Qui, entrambi hanno il loro valore, ma si tratta di un valore equiparato.. Solo la giustizia si fa avanti contro l’unilateralità.

Hegel – Il conflitto tragico – Maturità 2025

 Estetica

trad. it. di Nicola Merker e Nicola Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967 


pp. 1355-1358

Il secondo elemento principale, di fronte al coro, è costituito dagli individui agenti in modo pieno di conflitti. Nella tragedia greca ciò che crea loccasione per le collisioni non è già la cattiva volontà, il crimine, l’indegnità o la semplice disgrazia, la cecità e così via, ma, come ho più volte detto, la legittimità etica di un atto determinato. […] Casi criminali, come si trovano nei drammi moderni, colpevoli che a nulla servano o che siano anche, come si dice, moralmente nobili e facciano vuote chiacchiere sul destino, si trovano perciò tanto poco nella tragedia antica quanto poco la decisione e l’atto vi si basano sulla semplice soggettività dell’interesse e del carattere, sull’ambizione, sull’innamorarsi, sull’onore o in genere su passioni il cui diritto può basarsi solo sulla particolare inclinazione e personalità. Ma tale decisione, legittimata dal contenuto del suo fine, qualora porti se stessa ad esecuzione in particolarità unilaterale, lede in determinate circostanze, che già portano in sé la possibilità reale di conflitti, un altro ambito egualmente etico del volere umano, che il carattere contrapposto | fissa allora come suo pathos reale e reagendo manda ad effetto, cosicché si mette completamente in movimento la collisione di potenze ed individui aventi eguale legittimità. […] L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, è quella dello Stato, della vita etica nella sua  universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica. A questo riguardo mi basta citare i Sette a Tebe di Eschilo e ancor meglio l’Antigone di Sofocle. Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici. Il medesimo conflitto si trova anche nella Ifigenia in Aulide, nell’Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. Agamennone come re e capo dell’esercito sacrifica la figlia all’interesse dei Greci e della spedizione contro Troia, distruggendo così il vincolo dell’amore per la figlia e la sposa, che Clitennestra come madre conserva nel profondo del cuore, apprestando la vendetta di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste, figlio e figlio del re, onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del padre, e colpisce il seno che lo ha generato.

Questo è un contenuto valido per tutti i tempi, e la sua manifestazione ottiene sempre la nostra partecipazione umana ed artistica, nonostante ogni differenziazione nazionale.

Piú formale è una seconda collisione principale che i tragici greci amarono raffigurare nel destino di Edipo, e di cui l’esempio più compiuto ci è dato da Sofocle nel suo Edipo Re e Edipo a Colono. Qui si tratta del diritto della coscienza desta, della legittimità di ciò che l’uomo compie con volere autocosciente, di contro a quel che egli ha realmente fatto involontariamente e inconsapevolmente per determinazione divina. Edipo ha ucciso il padre, sposato la madre, | generato figli con un matrimonio incestuoso, e tuttavia è stato coinvolto in questo orrendo misfatto senza volerlo e senza esserne cosciente. Il diritto della nostra più profonda coscienza odierna consisterebbe nel rifiutare di riconoscere questi crimini come gli atti del proprio Io, giacché questi sono avvenuti al di fuori della coscienza e della volontà; ma il greco plastico assume la responsabilità di ciò che egli ha compiuto come individuo e non si scinde nella soggettività formale dell’autocoscienza e in ciò che è la cosa oggettiva.

[…]

In tutti questi conflitti tragici noi dobbiamo, però, soprattutto scartare la falsa rappresentazione di colpa o innocenza; gli eroi tragici sono sia colpevoli che innocenti. […] Agiscono in base a questo carattere, a questo pathos, proprio perché sono questo carattere, questo pathos, e non esiste alcuna indecisione ed alcuna scelta. La forza dei grandi caratteri sta proprio in ciò, che essi non scelgono, ma interamente e per loro natura sono ciò che vogliono e compiono. Essi sono ciò che sono e per sempre, e questa è la loro grandezza. Infatti la debolezza nell’azione consiste solo nella separazione del soggetto come tale dal suo contenuto, cosicché carattere, volontà e fine non appaiono concresciuti assolutamente in uno, e l’individuo, poiché per lui non vive nella sua anima nessun saldo fine come sostanza della sua individualità, come pathos e potenza di tutta la sua volontà, può essere ancora indeciso se svolgersi in una direzione o in un’altra e può operare la decisione a suo arbitrio. Questa incertezza ed indecisione sono lontane dalle figure plastiche; per esse il vincolo fra soggettività e contenuto della volontà resta indissolubile. Quel che li spinge a compiere i loro atti è appunto il pathos eticamente legittimo che essi fanno valere con patetica eloquenza, gli uni contro gli altri, non con la retorica sogge | ttiva del cuore e la sofistica della passione, ma con quell’oggettività sia consistente che sviluppata, in cui per profondità, misura e bellezza plasticamente viva fu maestro soprattutto Sofocle. Ma al contempo il loro pathos pieno di collisioni li porta ad atti colpevoli, offensivi. Di questi atti essi non vogliono però essere innocenti; al contrario la loro gloria è avere realmente tatto ciò che hanno tatto. Ad un tale eroe non si potrebbe dire cosa peggiore che affermare che ha agito senza sua colpa. È il vanto dei grandi caratteri assumersi la colpa dei propri atti. Essi non vogliono suscitare compassione, commozione. […] Il loro carattere saldo, forte, è invece tutt’uno con il suo pathos essenziale, e questo inscindibile accordo suscita ammirazione, non commozione, alla quale è passato solo Euripide.

[…]

Il vero sviluppo consiste solo nel superamento delle opposizioni come tali, nella conciliazione delle potenze dell’agire che si sforzano nel loro conflitto di negarsi scambievolmente. Solo in tal caso il punto estremo non è l’infelicità e la sofferenza, ma la soddisfazione dello spirito, giacché solo con questa fine la necessità di ciò che accade agli individui può apparire come assoluta razionalità e l’animo si pacifica in modo veramente etico: scosso dalla sorte degli eroi, riconciliato nella cosa. Solo se si tiene fermo questo modo di vedere, si può capire la tragedia antica.

[…]

pp. 1359-1360

Parimenti la necessità dell’esito non è un cieco destino, cioè un fato irrazionale, inintelligibile, che molti chiamano antico; ma la razionalità del destino. […] Il fato ricaccia l’individualità nei suoi confini e la distrugge quando essa li ha superati. Ma una costrizione irrazionale, una sofferenza senza colpa non potrebbe non creare nell’animo dello spettatore indignazione al posto della pacificazione etica. La conciliazione tragica perciò, da un altro lato e a sua volta, si differenzia parimenti e altrettanto da quella epica. Se a questo proposito guardiamo ad Achille e ad Ulisse, vediamo che entrambi raggiungono la meta ed è giusto che la raggiungano, ma questo avviene non perché abbiano una costante fortuna che li favorisca, bensì perché hanno dovuto assaggiare l’amarezza del sentimento della finitezza e si sono dovuti far strada faticosamente attraverso difficoltà, perdite e sacrifici. Difatti la verità in generale richiede che nel corso della vita e della ampiezza oggettiva degli avvenimenti venga ad apparenza anche la nullità del finito. Così l’ira di Achille viene sì pacificata, egli ottiene da Agamennone ciò di cui era stato privato, prende la sua vendetta su Ettore, i funerali di Patroclo sono celebrati ed Achille stesso viene riconosciuto come l’eccelso fra gli eroi; ma la sua ira e la sua conciliazione gli sono costate il suo più caro amico, il nobile Patroclo; per vendicare su Ettore questa perdita egli si vede costretto a deporre la sua stessa ira e a scendere di nuovo in battaglia contro i Troiani, e quando egli è riconosciuto come eccelso, ha al contempo il presentimento della morte vicina. Analogamente Ulisse giunge  finalmente ad Itaca, questa meta di tutti i suoi desideri, ma da solo immerso nel sonno, dopo aver perduto tutti i suoi compagni di viaggio e tutto il bottino fatto a Troia, e dopo lunghi anni di aspettativa e | di fatiche. Così entrambi hanno pagato il loro debito alla finitezza, e la Nemesi ha avuto quel che le spettava con la caduta di Troia ed il destino degli eroi greci. Ma la Nemesi è soltanto l’antica giustizia che abbassa solo quel che si è elevato troppo, per restaurare l’astratto equilibrio della felicità con l’infelicità, concernendo e colpendo solo l’essere fini-to, senza una più precisa determinazione etica. Tale è la giustizia epica nel campo dell’accadere, la conciliazione universale di un semplice ristabilimento dell’equilibrio. La superiore riconciliazione tragica è invece in relazione al fatto che le determinate sostanzialità etiche procedono dalla loro opposizione alla loro vera armonia.

Hegel – Il coro della tragedia – Maturità 2025

Estetica

trad. it. di Nicola Merker e Nicola Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967 


p. 1351

La poesia drammatica dei Greci. In essa infatti per la prima volta viene ad apparire la coscienza di ciò che in generale è il tragico e il comico nella sua vera essenza, e dopo che si sono rigorosamente e saldamente separate queste opposte concezioni del’'agire umano, raggiungono in organico sviluppo il culmine della loro perfezione prima la tragedia e poi la commedia, e di questa perfezione l’arte drammatica romana non è infine che un più pallido riflesso che non raggiunge nemmeno l’altezza di quel che i Romani stessi hanno saputo fare con sforzo analogo nel campo dell’epos e della lirica. Nei confronti dell'esame piú dettagliato di queste fasi mi limiterò tuttavia, per accennare brevemente solo a ciò che è piú importante, al punto di vista tragico di Eschilo e di Sofocle e a quello comico di Aristofane.

αα) Per ciò che riguarda in primo luogo la tragedia, ho già detto che la forma fondamentale con cui si determina tutta la sua organizzazione e struttura va cercata nel rilievo dato al lato sostanziale sia dei fini e del loro contenuto che degli individui e della loro lotta e destino.

Il terreno universale dell’azione tragica lo offre, come nell’epos cosí anche nella tragedia, quella condizione del mondo che ho già prima indicato come eroica. Infatti solo nei giorni eroici le potenze etiche universali, non essendo per sé fissate né come leggi dello Stato né come comandi o doveri morali, possono presentarsi con originaria freschezza.

[…]

pp. 1352-1353

Questi due lati, di cui l’uno è così importante per il tutto quanto l’altro, cioè la coscienza non scissa del divino e l’agire antagonistico, ma presentantesi con forza ed atto di-vino, che decide ed effettua fini etici, costituiscono i principali elementi la cui mediazione è manifestata dalla tragedia greca, nelle sue opere d'arte, come coro e come eroi in azione.

Nell’epoca moderna si è molto disquisito sul significato del coro greco, ed è stata avanzata la domanda se esso possa e debba essere introdotto anche nella tragedia moderna. […] Da un lato si è avuto il riconoscimento del coro, quando si è detto che ad esso compete la calma riflessione sul tutto, mentre i personaggi in azione restano presi nei loro fini e nelle loro situazioni particolari ed hanno ora nel coro e nelle considerazioni di esso il criterio valutativo del valore dei loro caratteri e delle loro azioni in una misura pari a quella in cui il pubblico trovava in esso un rappresentante oggettivo del proprio giudizio su ciò che nell’opera d’arte si svolgeva. Con quest’idea si è in parte colto il punto esatto nei confronti del fatto che il coro in effetti esiste come la coscienza sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi conflitti e prepara la soluzione. Esso non è tuttavia un personaggio semplicemente esteriore e inoperoso come gli spettatori, che si dedichi a riflessioni morali, e il quale allora, per sé senza interesse e noioso, sarebbe stato aggiunto solo al fine di permettere queste riflessioni. Esso è invece la sostanza reale della vita e dell’azione eticamente eroica, è, di fronte ai singoli eroi, il popolo quale terreno fecondo da cui gli individui, quali fiori e piante tese in alto, nascono dal loro proprio suolo e dall’esistenza di esso sono condizionati.

[…]

pp. 1354-1355

Questo posto del coro nella tragedia greca va sottolineato in modo essenziale. Come il teatro ha il suo terreno esterno, le sue scene ed il suo ambiente, così il coro, il popolo è, per così dire, la scena spirituale, e può essere paragonato al tempio dell’architettura il quale circonda la statua del dio, che qui diviene l’eroe in azione. Invece presso di noi le statue stanno all'aria libera senza un simile sfondo. […] A questo riguardo è una idea del tutto errata considerare il coro come uno strascico accidentale ed una semplice sopravvivenza del periodo delle origini del dramma greco. […] Nel periodo di fioritura della tragedia, non fu già mantenuto solo per onorare questo momento della festa e del culto di Bacco, bensì si sviluppò in modo sempre più bello e armonioso solo perché esso appartiene essenzialmente all’azione drammatica stessa a cui è tanto necessario, che la decadenza della tragedia incominciò principalmente con il peggioramento del coro, che non rimase più un membro inte-grale del tutto ma si abbassò ad un indifferente ornamento.

Giovanni Ghiselli: “Spirito garibaldino”.

Giovanni Ghiselli: “Spirito garibaldino”.:   E’ il titolo in grassetto di una articolo firmato   da Corrado Augias. Si trova a pagina 24 del quotidiano “la Repubblica” di ieri...

lunedì 3 marzo 2025

Dire «non volevo» è una giustificazione? – 1° parte

 

Quando Enea nel VI libro dell’Eneide discende agli inferi, incontra per l’ultima volta Didone, ormai tra le ombre dei morti; dopo essersi sorpreso della sua morte e adombrando l’ipotesi di esserne la causa, dice per giustificarsi:


invitus, regina, tuo de litore cessi

«senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia»1.


Facciamo un passo indietro. Nel I libro del poema era stato raccontato l’incontro tra la Sidonia Didone, la regina di Cartagine, e il pio Enea, il troiano fato profugus2, umanamente accolto dalla regina3 in seguito al naufragio. Nel IV libro avevamo assistito all’esplosione della storia d’amore, favorita per motivi diversi sia da Venere sia da Giunone: dopo essere stato ospitato, soccorso e coccolato Enea se ne era andato improvvisamente, ubbidendo agli ordini di Mercurio e rispondendo con queste parole a Didone che tentava disperatamente di dissuaderlo: desine meque tuis incendere teque querelis; / Italiam non sponte sequor, «Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia» (IV, 630-631)4.

Ebbene, così Virgilio descrive la reazione dell’ombra di Didone alle parole di Enea: illa solo fixos ocuols aversa tenebat, «ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte»5.

Mi sono sempre chiesto se l’assenza di volontarietà nel compiere il male sia o no un’attenuante. In questo articolo cercherò di fornire qualche spunto di riflessione.

Inizio da un breve dialogo di Platone che affronta specificamente questo tema, l’Ippia minore; vediamone un riassunto.

Si parte da una una questione posta da Socrate al sofista Ippia di Elide (364b):

ἀτὰρ τί δὴ λέγεις ἡμῖν περὶ τοῦ Ἀχιλλέως τε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως; πότερον ἀμείνω καὶ κατὰ τί φῂς εἶναι;

«Ma cosa ci dici a proposito di Achille e di Odisseo? Chi dei due dici che è migliore e secondo cosa?»

Ippia risponde così (364c):

φημὶ γὰρ Ὅμηρον πεποιηκέναι ἄριστον μὲν ἄνδρα Ἀχιλλέα τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, σοφώτατον δὲ Νέστορα, πολυτροπώτατον δὲ Ὀδυσσέα.

«Dico infatti che Omero ha fatto Achille come l’uomo migliore tra quelli giunti a Troia, Nestore il più sapiente, Odisseo il più multiforme nell’ingegno».

L’aggettivo πολύτροπος, usato qui al superlativo e nel senso di «scaltro», «tessitore d’inganni», è invece l’epiteto che caratterizza positivamente l’eroe nel primo verso dell’Odissea. Ippia specifica poco dopo il suo pensiero aggiungendo che Achille è ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος, «schietto e veritiero6 al massimo» (364d), come emerge dai versi citati (Iliade, X, 308-3147) che non casualmente Omero fa pronunciare ad Achille nei confronti di Odisseo:

Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν' Ὀδυσσεῦ,

χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν,

ὥσπερ δὴ κρανέω τε καὶ ὡς τελέεσθαι ὀίω·

ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν,

ὅς χ' ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ.

αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω, ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται.

«Laerziade di stirpe divina, Odisseo dalle molte risorse, / è necessario certo manifestare francamente il pensiero, come lo realizzerò e come penso che si compirà; / infatti quello mi è odioso come le porte dell’Ade, / che una cosa occulti nel cuore, un’altra dica. / Ma io dirò come anche sarà compiuto».

In questi versi Achille, dopo aver accolto amichevolmente i tre ambasciatori (Fenice, Aiace e Odisseo), rifiuta sdegnato la proposta di Odisseo che su mandato di Agamennone gli promette, in cambio del ritorno ai posti di combattimento, una ricca ricompensa: sette tripodi, dieci talenti d’oro, venti lebeti, dodici cavalli campioni e in più sette donne lesbie, oltre a Briseide (con la quale, assicura, Agamennone non si è ancora accoppiato), subito, e dopo la conquista di Troia altre venti tra le prigioniere (le più belle dopo Elena); infine bottino a non finire. Al ritorno in patria Agamennone gli avrebbe poi dato in sposa una delle tre figlie (Crisotemi, Laodice, Ifianassa) con sette castelli in dote.

Ippia argomenta sulla falsità di Odisseo giocando sui termini τρόπος («carattere, ingegno») e πολύτροπός («dal multiforme ingegno»), in quanto dalle parole di Omero emerge il carattere (τρόπος) ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, «veritiero e schietto» di Achille, πολύτροπός τε καὶ ψευδής, «dall’ingegno multiforme e falso» di Odisseo.

A questo punto Socrate lo confuta sostenendo che il più scaltro in realtà è Achille il quale, nei versi successivi, prima dice a Odisseo che non tornerà ma l’indomani partirà con la nave (vv. 356-61) e poco dopo dice ad Aiace che aspetterà Ettore presso la sua nave (vv. 654-655). Siccome infatti Odisseo οὐδὲν γοῦν φαίνεται εἰπὼν πρὸς αὐτὸν ὡς αἰσθανόμενος αὐτοῦ ψευδομένου, «è evidente che non dice niente a lui come se si fosse accorto che sta mentendo» (371a), allora significa che Omero ha fatto Achille tanto scaltro da superare Odisseo nella sua stessa arte, concedendosi addirittura il lusso di contraddirsi davanti a lui. Come minimo Achille e Odisseo sono dunque sullo stesso piano.

Queste argomentazioni socratiche hanno lo scopo di indurre Ippia a dire quello che Socrate vuole, cioè che in verità Achille è comunque migliore in quanto (371e):

ταῦτα ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς πρὸς τὸν Αἴαντα ἄλλα εἶπεν ἢ πρὸς τὸν Ὀδυσσέα· ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς ἅ τε ἀληθῆ λέγει, ἐπιβουλεύσας ἀεὶ λέγει, καὶ ὅσα ψεύδεται, ὡσαύτως,

«indotto dalla semplicità ha detto queste cose ad Aiace diversamente che a Odisseo; Odisseo invece le cose vere che dice, le dice sempre avendole premeditate, e quelle false allo stesso modo».

Poco prima (367a) però si era convenuto8 sul fatto che:

ὁ μὲν ἀμαθὴς πολλάκις ἂν βουλόμενος ψευδῆ λέγειν τἀληθῆ ἂν εἴποι ἄκων, εἰ τύχοι, διὰ τὸ μὴ εἰδέναι, σὺ δὲ ὁ σοφός, εἴπερ βούλοιο ψεύδεσθαι, ἀεὶ ἂν κατὰ τὰ αὐτὰ ψεύδοιο,

«l’ignorante spesso, pur volendo dire il falso, potrebbe dire il vero involontariamente, caso mai, per il fatto di non sapere, mentre il sapiente, come te, se volesse dire il falso, direbbe il falso sempre nello stesso modo».

La logica conclusione è che Odisseo è migliore di Achille, ma Ippia non la accetta (371e-372a):

Καὶ πῶς ἄν, ὦ Σώκρατες, οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες καὶ [372] [a] ἑκόντες ἐπιβουλεύσαντες καὶ κακὰ ἐργασάμενοι βελτίους ἂν εἶεν τῶν ἀκόντων, οἷς πολλὴ δοκεῖ συγγνώμη εἶναι, ἐὰν μὴ εἰδώς τις ἀδικήσῃ ἢ ψεύσηται ἢ ἄλλο τι κακὸν ποιήσῃ; καὶ οἱ νόμοι δήπου πολὺ χαλεπώτεροί εἰσι τοῖς ἑκοῦσι κακὰ ἐργαζομένοις καὶ ψευδομένοις ἢ τοῖς ἄκουσιν.

«E come, o Socrate, coloro che commettono ingiustizia volontariamente e che volontariamente premeditano e attuano dei mali sarebbero migliori di coloro che agiscono così involontariamente, per i quali pare esserci molta indulgenza, qualora uno senza saperlo commetta ingiustizia o menta o compia un qualche altro male? Anche le leggi in fin dei conti sono molto più dure con coloro che compiono volontariamente dei mali e mentono piuttosto che con chi lo fa involontariamente».

Ippia ha spostato la discussione sul piano morale, quello del bene e del male, ma Socrate rimane del suo parere (372d):

ἐμοὶ γὰρ φαίνεται, ὦ Ἱππία, πᾶν τοὐναντίον ἢ ὃ σὺ λέγεις· οἱ βλάπτοντες τοὺς ἀνθρώπους καὶ ἀδικοῦντες καὶ ψευδόμενοι καὶ ἐξαπατῶντες καὶ ἁμαρτάνοντες ἑκόντες ἀλλὰ μὴ ἄκοντες, βελτίους εἶναι ἢ οἱ ἄκοντες. 
«A me infatti sembra, o Ippia, tutto il contrario di quello che dici tu: coloro che danneggiano gli uomini e commettono ingiustizia e mentono e ingannano e sbagliano volontariamente, non invece involontariamente, sono migliori di coloro che lo fanno involontariamente».

La parte finale del dialogo presenta una serie di esempi in cui il filo conduttore è che per voler fare qualcosa male bisogna saperlo fare bene, dunque la volontà di fare il male presuppone la capacità di fare il bene; il più convincente è questo (374c):

Πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας κεκτῆσθαι ἑκουσίως χωλαίνοντας ἢ ἀκουσίως;

«Preferiresti possedere dei piedi che zoppicano volontariamente o involontariamente?»

Questa è la conclusione paradossale (376a):

ἡ δυνατωτέρα καὶ ἀμείνων ψυχή, ὅτανπερ ἀδικῇ, ἑκοῦσα ἀδικήσει, ἡ δὲ πονηρὰ ἄκουσα. 

«L’anima più capace e migliore, qualora appunto commetta ingiustizia, la commetterà volontariamente, mentre quella malvagia involontariamente».


1 Virgilio, Eneide, VI, 460.

2 «Profugo per volere del fato» (Eneide, I, 2). T. S. Eliot vede in ciò l’elemento che fa del poema virgiliano il classico per antonomasia (Che cosa è un classico?, in Opere. 1939-1962, Bompiani 2003, a cura di Roberto Sanesi, pp. 491-492): «Enea è, dal principio alla fine, una creatura del fato: un uomo che non è un avventuriero o un intrigante, un vagabondo o un arrivista; un uomo che compie il proprio destino non per forza o per decreto arbitrario né certamente per brama di gloria – ma sottomettendo la propria volontà a un potere più alto é […] è bandito dalla patria per uno scopo che supera la sua comprensione, ma che nondimeno egli accetta; e dal punto di vista umano non è uno che sia felice o abbia successo. Ma è il simbolo di Roma, e quello che Enea è per Roma, lantica Roma è per lEuropa. Così Virgilio si conquista la centralità” del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare».

3 All’ansia di Enea così risponde Didone: non ignara mali miseris succurrere disco, «Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri» (I, 630). È questa la versione virgiliana del τόπος eschileo del πάθει μάθος, «attraverso la sofferenza la comprensione» (Agamennone, 177).

4 Giustamente Ovidio nota sarcasticamente che famam pietatis habet, «ha la fama di pietà» (Ovidio, Ars, III, 39).

5 Così commenta l’episodio T. S. Eliot (op. cit., pp. 484-485): «Ho sempre pensato che l’incontro di Enea con l’ombra di Didone, nel libro VI, sia non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia. È un episodio parco nell’espressione quanto ricco di significato»; poi Eliot nota come «invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo – ed è forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia».

6 Euripide associa semplicità e verità in tre versi molto belli delle Fenicie (469-472): ἁπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυ / κοὐ ποικίλων δεῖ τἄνδιχ’ ἑρμηνευμάτων· / ἔχει γὰρ αὐτὰ καιρόν· ὁ δ’ ἄδικος λόγος / νοσῶν ἐν αὑτῷ φαρμάκων δεῖται σοφῶν, «il discorso della verità è semplice per natura / e ciò che è giusto non ha bisogno di intricate interpretazioni: / ha in sé ciò che è opportuno; il discorso ingiusto invece / avendo il vizio dentro di sé ha bisogno di espedienti sofisticati». Questi versi sono ripresi da Seneca (Epistulae ad Lucilium, 49, 12): ut ait ille tragicus, “veritatis simplex oratio est”, ideoque illam implicari non oportet; nec enim quicquam minus convenit quam subdola ista calliditas animis magna conantibus, «Come dice quel famoso tragico, “il discorso della verità è semplice”, e quindi non è il caso di complicarlo; e infatti non c’è alcuna cosa che convenga meno di questa furbizia subdola agli animi che si preparano a grandi imprese».

7 Il testo originale è leggermente diverso: διογενὲς Λαερτιάδη πολυμήχαν' Ὀδυσσεῦ / χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν, / ᾗ περ δὴ φρονέω τε καὶ ὡς τετελεσμένον ἔσται, / ὡς μή μοι τρύζητε παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλος. / ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν / ὅς χ' ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ. / αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα·

8 In quel momento si parlava di calcolo, ma il concetto viene assunto anche come norma generale.

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domenica 2 marzo 2025

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sabato 1 marzo 2025

Pacifismo o inerzia? Rampini, Euripide, Dodds e Tucidide

 Leggo, nell’editoriale di Federico Rampini sul Corriere della sera di oggi 1 marzo 2025, che «non basta la brutalità di Trump a scuotere l’Europa dal torpore che ama definirsi 'pacifista'».

Tacciare i pacifisti di indolenza, infingardaggine, viltà è una prassi impiegata fin dall’antichità da parte dei fautori della guerra. Ne troviamo l’eco, per esempio, nelle tragedie di Euripide, il quale sembra fare velate allusioni a questa disputa tra tra pacifismo e inerzia, ἡσυχία e ἀπραγμοσύνη in greco, già nella Medea, messa in scena nel 431 a. C., anno dello scoppio della guerra: οἱ δ' ἀφ' ἡσύχου ποδὸς / δύσκλειαν ἐκτήσαντο καὶ ῥαιθυμίαν, «altri ancora per un piede tranquillo / hanno acquisito la cattiva fama di indifferenza» (217-218, dove Medea sta lamentando la sua condizione di straniera sapiente, che suscita diffidenza e addirittura odio nella gente comune); χωρὶς γὰρ ἄλλης ἧς ἔχουσιν ἀργίας / φθόνον πρὸς ἀστῶν ἀλφάνουσι δυσμενῆ, «a parte infatti l’altro marchio di indolenza che hanno, / si guadagnano l’invidia malevola da parte dei concittadini» (si sta parlando dei sapienti, 296-297).

Nell’ultima delle sue tragedie, le Baccanti, (che, ricordiamo, è stata scritta tra il 408 e il 407, essendo morto Euripide nell’inverno 407/406 ed essendo giunto in Macedonia nel 408: sono gli ultimi anni della guerra del Peloponneso, quando per Atene si sta mettendo male ma la situazione non è ancora definitivamente compromessa) il tragediografo sembra muoversi nel medesimo campo di discussione, in particolare nella antistrofe a del primo stasimo (vv. 386-401):

ἀχαλίνων στομάτων

ἀνόμου τ' ἀφροσύνας

τὸ τέλος δυστυχία·

ὁ δὲ τᾶς ἡσυχίας

βίοτος καὶ τὸ φρονεῖν     390

ἀσάλευτόν τε μένει καὶ

ξυνέχει δώματα· πόρσω

γὰρ ὅμως αἰθέρα ναίον-

τες ὁρῶσιν τὰ βροτῶν οὐρανίδαι.

τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία,             395

τό τε μὴ θνατὰ φρονεῖν.

βραχὺς αἰών· ἐπὶ τούτῳ

δὲ τις ἂν μεγάλα διώκων

τὰ παρόντ' οὐχὶ φέροι. μαι-

νομένων οἵδε τρόποι καὶ     400

κακοβούλων παρ' ἔμοιγε φωτῶν.

«Di bocche senza freno / e stoltezza senza legge / la fine è sventura; / Invece la vita / della tranquillità e l’essere assennati / rimangono al riparo dai marosi / e tengono insieme le case; lontano / infatti pur abitando l’etere / comunque vedono le vicende dei mortali i celesti. / Il sapere non è sapienza, / e anche il concepire pensieri non mortali. / Breve la vita; per questo / uno che inseguisse grandi cose / non otterrebbe quelle presenti. Queste / sono le inclinazioni di persone folli / e sconsiderate per quanto mi riguarda».

Dioniso è ripetutamente rappresentato come ἥσυχος, «tranquillo» (435 sqq., 622, 636) in contrapposizione a Penteo, l’eccitabile uomo d’azione (214, 647, 670 sq., 789 sq.). Ma  sebbene ἡσυχία sia appropriata per un dio in quanto tale, la religione orgiastica non è, per il nostro modo di pensare, particolarmente ἥσυχον, e quindi siamo autorizzati a considerare questi versi come una presa di posizione contro le inclinazioni belliciste.

Tali slittamenti di significato, per cui nel nostro caso il pacifismo diventa inerzia, sono tipici, come aveva notato Dodds, di un’epoca di crisi in cui i valori tradizionali (come anche un ordine consolidato, aggiungo io) stanno cambiando nel modo descritto nel famoso passaggio di Tucidide sulla trasvalutazione dei valori (III, 82): siamo nel 427 e lo storiografo descrive il clima favorito dalla guerra civile a Corcira dove ἐπέπεσε πολλὰ καὶ χαλεπὰ κατὰ στάσιν ταῖς πόλεσι, γιγνόμενα μὲν καὶ αἰεὶ ἐσόμενα, ἕως ἂν ἡ αὐτὴ φύσις ἀνθρώπων ᾖ, «piombarono molte e dure sofferenze sulle città a causa della guerra civile, cose che capitano e sempre capiteranno, finché la natura umana è la medesima» in quanto ὁ δὲ πόλεμος … βίαιος διδάσκαλος, «la guerra è maestra di violenza» per gli uomini (2); e uno degli effetti paradossali fu che καὶ τὴν εἰωθυῖαν ἀξίωσιν τῶν ὀνομάτων ἐς τὰ ἔργα ἀντήλλαξαν τῇ δικαιώσει. τόλμα μὲν γὰρ ἀλόγιστος ἀνδρεία φιλέταιρος ἐνομίσθη, μέλλησις δὲ προμηθὴς δειλία εὐπρεπής, τὸ δὲ σῶφρον τοῦ ἀνάνδρου πρόσχημα, καὶ τὸ πρὸς ἅπαν ξυνετὸν ἐπὶ πᾶν ἀργόν, «essi anche il valore abituale delle parole in relazione ai fatti cambiarono, in base al loro arbitrio. L’audacia irrazionale infatti fu considerata coraggio fazioso, il temporeggiare previdente viltà ammantata di decoro, la moderazione un pretesto per coprire la codardia, e l’intelligenza in tutto indolenza in tutto» (3; per quest’ultimo stravolgimento cfr. i versi citati supra della Medea). L’esito di tutto ciò fu che Οὕτω πᾶσα ἰδέα κατέστη κακοτροπίας διὰ τὰς στάσεις τῷ Ἑλληνικῷ, καὶ τὸ εὔηθες, οὗ τὸ γενναῖον πλεῖστον μετέχει, καταγελασθὲν ἠφανίσθη, «Così per il mondo greco a causa delle guerre civili si produsse ogni forma di malizia, e anche la semplicità, di cui la nobiltà per lo più partecipa, derisa svanì» (83, 1).

Tali epoche producono anche paradossi come quello del v. 395 per cui cfr. il mio articolo.

Giovanni Ghiselli: La pace giusta.

Giovanni Ghiselli: La pace giusta.:     "La pace giusta" è un’espressione ipocrita quando è usata dai marioli, utopica se è impiegata da altri. La pace giusta dopo ...