giovedì 6 marzo 2025

Dire «non volevo» è una giustificazione? – 2° parte

 

Nella tragedia greca i personaggi dimostrano spesso la loro caratura eroica rivendicando la volontarietà delle proprie azioni, anche quando sono consapevoli di infrangere delle leggi. Così per esempio vediamo Prometeo assumersi fieramente la responsabilità del furto del fuoco (Eschilo, Prometeo, 266):


ἑκὼν ἑκὼν ἥμαρτον, οὐκ ἀρνήσομαι

«di mia volontà, di mia volontà ho peccato, non lo negherò».


Allo stesso modo Antigone1 rivendica il gesto con cui ha onorato il cadavere del fratello morto, nonostante l’editto di Creonte che lo vietava (Sofocle, Antigone, 443):


καὶ φημὶ δρᾶσαι κοὐκ ἀπαρνοῦμαι τὸ μή

«e affermo di averlo fatto e non lo nego, proprio no».


In particolare nell’atteggiamento di Prometeo Nietzsche2 individua la peculiarità degli indoeuropei:

La leggenda di Prometeo è proprietà originaria dell’intera comunità dei popoli ariani e un documento delle loro doti di profondità tragica; non mancherebbe anzi di verosimiglianza il dire che questo mito possiede per la natura ariana esattamente la stessa caratteristica importanza che il mito del peccato originale ha per la natura semitica, e che fra i due miti esiste un grado di parentela come tra fratello e sorella. Il presupposto del mito di Prometeo è lo sconfinato valore che un'umanità ingenua attribuisce al fuoco, come al vero palladio di ogni civiltà ascendente: ma che l'uomo disponesse liberamente del fuoco e non lo ricevesse soltanto come un regalo del cielo, come folgore incendiaria o come vampa scottante del sole, apparve a quei contemplativi uomini arcaici come un sacrilegio, come una rapina ai danni della natura divina. […] La cosa migliore e più alta di cui l'umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze […] un pensiero crudo, che per la dignità conferita al crimine stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l'elevata idea del peccato attivo some vera virtù prometeica […] Chi comprende l'intima essenza della leggenda di Prometeo cioè la necessità del delitto imposta all'individuo che ha aspirazioni titaniche - dovrà in pari tempo sentire la non apollineità di questa concezione pessimistica; giacché Apollo vuole dar pace agli esseri singoli proprio col tracciare fra loro linee di confine e col richiamarle poi sempre di nuovo alla memoria, mediante i suoi precetti della conoscenza di sé e della misura, come le più sacre leggi del mondo.

Viceversa i personaggi meschini come messaggeri, araldi e guardie manifestano la loro meschinità giustificando l’esecuzione di un ordine infame con il fatto di eseguirlo contro la propria volontà. Così per esempio si esprime Taltibio nelle Troiane di Euripide quando comunica ad Andromaca che Astianatte sarà ucciso (vv. 709-711):

Φρυγῶν ἀρίστου πρίν ποθ’ Ἕκτορος δάμαρ,

μή με στυγήσῃς· οὐχ ἑκὼν γὰρ ἀγγελῶ.

Δαναῶν δὲ κοινὰ Πελοπιδῶν τ’ ἀγγέλματα.

«Moglie di Ettore, una volta, in precedenza, il migliore dei Frigi, / non odiarmi: infatti non di mia volontà annuncerò / gli annunci comuni dei Danai e dei Pelopidi».

Dopo aver tergiversato un po’ infine comunica la sentenza strappando ad Andromaca una delle più espressive esecrazioni della guerra (vv. 764-765):

ὦ βάρβαρ’ ἐξευρόντες Ἕλληνες κακά,

τί τόνδε παῖδα κτείνετ’ οὐδὲν αἴτιον;

«Oh Greci che avete inventato barbare atrocità, / perché uccidete questo bambino che non ha nessuna colpa?»3.

Sempre in Euripide abbiamo un altro esempio nelle Baccanti, dove il “bravo” di Penteo nelle quando per ordine del re arresta Dioniso, così si giustifica (vv. 441-442):

κἀγὼ δι' αἰδοῦς εἶπον· Ὦ ξέν', οὐχ ἑκὼν

ἄγω σε, Πενθέως δ' ὅς μ' ἔπεμψ' ἐπιστολαῖς.

«Ed io per rispetto dissi: Straniero, non di mia volontà / ti porto via, ma per ordini di Penteo che mi ha inviato”».


1 All’inizio della tragedia Antigone aveva già fatto intendere la forza della sua identità: ἀλλ᾽ οἶδ᾽ ἀρέσκουσ᾽ οἷς μάλισθ᾽ ἁδεῖν με χρή, «ma so di piacere a quelli a cui soprattutto è necessario che io piaccia» (v. 89); più avanti poi si esprime con profondo umanesimo: οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν, «non certo per condividere l'odio, ma per condividere l'amore sono nata» (v. 523).

2 La nascita della tragedia, cap. 9 (trad. it. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 1972).

3 Un tale rimprovero rivolto da una donna troiana agli Achei, apostrofati come Greci, non poteva non risuonare come un’accusa di barbarie rivolta agli Ateniesi per i crimini commessi contro l’isola di Melo nell’estate del 416 a. C., solo pochi mesi prima della messa in scena del dramma (primavera del 415); sull’episodio, come noto, ci ragguaglia Tucidide alla fine del V libro della sua opera.

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