martedì 4 marzo 2025

Hegel – Il conflitto tragico – Maturità 2025

 Estetica

trad. it. di Nicola Merker e Nicola Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967 


pp. 1355-1358

Il secondo elemento principale, di fronte al coro, è costituito dagli individui agenti in modo pieno di conflitti. Nella tragedia greca ciò che crea loccasione per le collisioni non è già la cattiva volontà, il crimine, l’indegnità o la semplice disgrazia, la cecità e così via, ma, come ho più volte detto, la legittimità etica di un atto determinato. […] Casi criminali, come si trovano nei drammi moderni, colpevoli che a nulla servano o che siano anche, come si dice, moralmente nobili e facciano vuote chiacchiere sul destino, si trovano perciò tanto poco nella tragedia antica quanto poco la decisione e l’atto vi si basano sulla semplice soggettività dell’interesse e del carattere, sull’ambizione, sull’innamorarsi, sull’onore o in genere su passioni il cui diritto può basarsi solo sulla particolare inclinazione e personalità. Ma tale decisione, legittimata dal contenuto del suo fine, qualora porti se stessa ad esecuzione in particolarità unilaterale, lede in determinate circostanze, che già portano in sé la possibilità reale di conflitti, un altro ambito egualmente etico del volere umano, che il carattere contrapposto | fissa allora come suo pathos reale e reagendo manda ad effetto, cosicché si mette completamente in movimento la collisione di potenze ed individui aventi eguale legittimità. […] L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, è quella dello Stato, della vita etica nella sua  universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica. A questo riguardo mi basta citare i Sette a Tebe di Eschilo e ancor meglio l’Antigone di Sofocle. Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici. Il medesimo conflitto si trova anche nella Ifigenia in Aulide, nell’Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. Agamennone come re e capo dell’esercito sacrifica la figlia all’interesse dei Greci e della spedizione contro Troia, distruggendo così il vincolo dell’amore per la figlia e la sposa, che Clitennestra come madre conserva nel profondo del cuore, apprestando la vendetta di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste, figlio e figlio del re, onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del padre, e colpisce il seno che lo ha generato.

Questo è un contenuto valido per tutti i tempi, e la sua manifestazione ottiene sempre la nostra partecipazione umana ed artistica, nonostante ogni differenziazione nazionale.

Piú formale è una seconda collisione principale che i tragici greci amarono raffigurare nel destino di Edipo, e di cui l’esempio più compiuto ci è dato da Sofocle nel suo Edipo Re e Edipo a Colono. Qui si tratta del diritto della coscienza desta, della legittimità di ciò che l’uomo compie con volere autocosciente, di contro a quel che egli ha realmente fatto involontariamente e inconsapevolmente per determinazione divina. Edipo ha ucciso il padre, sposato la madre, | generato figli con un matrimonio incestuoso, e tuttavia è stato coinvolto in questo orrendo misfatto senza volerlo e senza esserne cosciente. Il diritto della nostra più profonda coscienza odierna consisterebbe nel rifiutare di riconoscere questi crimini come gli atti del proprio Io, giacché questi sono avvenuti al di fuori della coscienza e della volontà; ma il greco plastico assume la responsabilità di ciò che egli ha compiuto come individuo e non si scinde nella soggettività formale dell’autocoscienza e in ciò che è la cosa oggettiva.

[…]

In tutti questi conflitti tragici noi dobbiamo, però, soprattutto scartare la falsa rappresentazione di colpa o innocenza; gli eroi tragici sono sia colpevoli che innocenti. […] Agiscono in base a questo carattere, a questo pathos, proprio perché sono questo carattere, questo pathos, e non esiste alcuna indecisione ed alcuna scelta. La forza dei grandi caratteri sta proprio in ciò, che essi non scelgono, ma interamente e per loro natura sono ciò che vogliono e compiono. Essi sono ciò che sono e per sempre, e questa è la loro grandezza. Infatti la debolezza nell’azione consiste solo nella separazione del soggetto come tale dal suo contenuto, cosicché carattere, volontà e fine non appaiono concresciuti assolutamente in uno, e l’individuo, poiché per lui non vive nella sua anima nessun saldo fine come sostanza della sua individualità, come pathos e potenza di tutta la sua volontà, può essere ancora indeciso se svolgersi in una direzione o in un’altra e può operare la decisione a suo arbitrio. Questa incertezza ed indecisione sono lontane dalle figure plastiche; per esse il vincolo fra soggettività e contenuto della volontà resta indissolubile. Quel che li spinge a compiere i loro atti è appunto il pathos eticamente legittimo che essi fanno valere con patetica eloquenza, gli uni contro gli altri, non con la retorica sogge | ttiva del cuore e la sofistica della passione, ma con quell’oggettività sia consistente che sviluppata, in cui per profondità, misura e bellezza plasticamente viva fu maestro soprattutto Sofocle. Ma al contempo il loro pathos pieno di collisioni li porta ad atti colpevoli, offensivi. Di questi atti essi non vogliono però essere innocenti; al contrario la loro gloria è avere realmente tatto ciò che hanno tatto. Ad un tale eroe non si potrebbe dire cosa peggiore che affermare che ha agito senza sua colpa. È il vanto dei grandi caratteri assumersi la colpa dei propri atti. Essi non vogliono suscitare compassione, commozione. […] Il loro carattere saldo, forte, è invece tutt’uno con il suo pathos essenziale, e questo inscindibile accordo suscita ammirazione, non commozione, alla quale è passato solo Euripide.

[…]

Il vero sviluppo consiste solo nel superamento delle opposizioni come tali, nella conciliazione delle potenze dell’agire che si sforzano nel loro conflitto di negarsi scambievolmente. Solo in tal caso il punto estremo non è l’infelicità e la sofferenza, ma la soddisfazione dello spirito, giacché solo con questa fine la necessità di ciò che accade agli individui può apparire come assoluta razionalità e l’animo si pacifica in modo veramente etico: scosso dalla sorte degli eroi, riconciliato nella cosa. Solo se si tiene fermo questo modo di vedere, si può capire la tragedia antica.

[…]

pp. 1359-1360

Parimenti la necessità dell’esito non è un cieco destino, cioè un fato irrazionale, inintelligibile, che molti chiamano antico; ma la razionalità del destino. […] Il fato ricaccia l’individualità nei suoi confini e la distrugge quando essa li ha superati. Ma una costrizione irrazionale, una sofferenza senza colpa non potrebbe non creare nell’animo dello spettatore indignazione al posto della pacificazione etica. La conciliazione tragica perciò, da un altro lato e a sua volta, si differenzia parimenti e altrettanto da quella epica. Se a questo proposito guardiamo ad Achille e ad Ulisse, vediamo che entrambi raggiungono la meta ed è giusto che la raggiungano, ma questo avviene non perché abbiano una costante fortuna che li favorisca, bensì perché hanno dovuto assaggiare l’amarezza del sentimento della finitezza e si sono dovuti far strada faticosamente attraverso difficoltà, perdite e sacrifici. Difatti la verità in generale richiede che nel corso della vita e della ampiezza oggettiva degli avvenimenti venga ad apparenza anche la nullità del finito. Così l’ira di Achille viene sì pacificata, egli ottiene da Agamennone ciò di cui era stato privato, prende la sua vendetta su Ettore, i funerali di Patroclo sono celebrati ed Achille stesso viene riconosciuto come l’eccelso fra gli eroi; ma la sua ira e la sua conciliazione gli sono costate il suo più caro amico, il nobile Patroclo; per vendicare su Ettore questa perdita egli si vede costretto a deporre la sua stessa ira e a scendere di nuovo in battaglia contro i Troiani, e quando egli è riconosciuto come eccelso, ha al contempo il presentimento della morte vicina. Analogamente Ulisse giunge  finalmente ad Itaca, questa meta di tutti i suoi desideri, ma da solo immerso nel sonno, dopo aver perduto tutti i suoi compagni di viaggio e tutto il bottino fatto a Troia, e dopo lunghi anni di aspettativa e | di fatiche. Così entrambi hanno pagato il loro debito alla finitezza, e la Nemesi ha avuto quel che le spettava con la caduta di Troia ed il destino degli eroi greci. Ma la Nemesi è soltanto l’antica giustizia che abbassa solo quel che si è elevato troppo, per restaurare l’astratto equilibrio della felicità con l’infelicità, concernendo e colpendo solo l’essere fini-to, senza una più precisa determinazione etica. Tale è la giustizia epica nel campo dell’accadere, la conciliazione universale di un semplice ristabilimento dell’equilibrio. La superiore riconciliazione tragica è invece in relazione al fatto che le determinate sostanzialità etiche procedono dalla loro opposizione alla loro vera armonia.

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