Questa epistola, che inizia dalla constatazione che è difficile esprimere in latino i concetti greci, si snoda su una serie di considerazioni filosofiche che partono da Platone per diventare di carattere più generale.
1. Quanta verborum nobis paupertas, immo egestas sit, numquam magis quam hodierno die intellexi. Mille res inciderunt, cum forte de Platone loqueremur, quae nomina desiderarent nec haberent, quaedam vero <quae> cum habuissent fastidio nostro perdidissent. Quis autem ferat in egestate fastidium?
1. «Quanto sia grande per noi la povertà di parole, anzi la mancanza, non l’ho mai capito più di oggi1. Sono capitati mille concetti, mentre casualmente parlavamo di Platone, che richiedevano delle parole e non l’avevano, certi poi che pur avendolo avuto, lo avevano perduto per il nostro gusto schizzinoso. Chi però può avere gusti schizzinosi nel bisogno?»
7. Magis damnabis angustias Romanas.
7. «A maggior ragione condannerai la limitatezza romana».
[19] Quid sit idea, id est quid Platoni esse videatur, audi: 'idea est eorum quae natura fiunt exemplar aeternum'.
[19] «Cosa sia l’idea, cioè cosa sembra che sia a Platone, ascoltalo: “l’idea è il modello eterno di quelle cose che in natura divengono”».
[22] Nemo nostrum idem est in senectute qui fuit iuvenis; nemo nostrum est idem mane qui fuit pridie. Corpora nostra rapiuntur fluminum more. Quidquid vides currit cum tempore; nihil ex iis quae videmus manet; ego ipse, dum loquor mutari ista, mutatus sum.
[22] «Nessuno di noi è in vecchiaia il medesimo che fu da giovane; nessuno di noi è al mattino il medesimo che fu il giorno prima. I nostri corpi sono trascinati al modo dei fiumi. Tutto ciò che vedi corre insieme al tempo; niente di ciò che vediamo rimane fermo; io stesso, mentre dico che queste cose mutano, sono mutato».
23. Hoc est quod ait Heraclitus: 'in idem flumen bis descendimus et non descendimus’… vis tu non timere ne semel fiat quod cotidie fit!
23. È questo ciò che dice Eraclito2: “nel medesimo fiume per la seconda volta scendiamo e non scendiamo” … tu non devi temere che accada una sola volta ciò che accade tutti i giorni».
25. nos animum aliquando debemus relaxare et quibusdam oblectamentis reficere. Sed ipsa oblectamenta opera sint.
25. «Noi di quando il quando dobbiamo distendere l’animo e ricrearlo con qualche distrazione. Ma le distrazioni stesse siano attività».
32. iucundum est secum esse quam diutissime, cum quis se dignum quo frueretur effecit.
32. «È piacevole stare con se stessi il più a lungo possibile, quando uno si sia reso degno di goderne».
[34] maius periculum sit male vivendi quam cito moriendi.
[34] «È un pericolo maggiore vivere male che morire presto».
1 Le stesse difficoltà di Seneca le aveva lamentate anche Lucrezio: I, 136-139 Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta / difficile inlustrare Latinis versibus esse, / multa novis verbis praesertim cum sit agendum / propter egestatem linguae et rerum novitatem, «E non mi sfugge nell’animo che è difficile spiegare / in versi latini le orcure scoperte dei Greci, / specialmente perché bisogna trattarne molte con parole nuove / a causa della povertà della lingia e della novità dei concetti»; Cicerone invece la pensa al contrario: Cicerone, Fin., I, 10 ita sentio et saepe disserui, Latinam linguam non modo non inopem, ut vulgo putarent, sed locupletiorem etiam esse quam Graecam, «così penso, e spesso ne ho discusso, la lingua latina non solo non è povera, come si ritiene comunemente, ma addirittura è più ricca di quella greca»; III, 5 saepe diximus, et quidem cum aliqua querela non Graecorum modo, sed eorum etiam, qui se Graecos magis quam nostros haberi volunt, nos non modo non vinci a Graecis verborum copia, sed esse in ea etiam superiores, «abbiamo detto spesso, e certamente con una certa lamentela non solo dei Greci, ma anche di coloro che vogliono esseri considerati Greci più che dei nostri, che noi non solo non siamo superati dai Greci per abbondanza di vocaboli, ma siamo in essa addirittura superiori»; De nat., I, 8 Complures enim Graecis institutionibus eruditi ea, quae didicerant, cum civibus suis communicare non poterant, quod illa, quae a Graecis accepissent, Latine dici posse diffiderent; quo in genere tantum profecisse videmur, ut a Graecis ne verborum quidem copia vinceremur, «parecchi infatti, eruditi nelle dottrine greche, non potevano rendere partecipi i propri concittadini delle cose che avevano imparato, per il fatto che non credevano che i concetti che avevano appreso dai Greci potessero essere espressi in latino; e in questo campo mi pare che abbiamo fatto tanti progressi da non essere superati dai Greci neppure nell’abbondanza di parole».
2 Eraclito, fr. 49a: ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομεν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμεν τε καὶ οὐκ εἶμεν, «nei medesimi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo», o in altri termini πάντα ῥεῖ, «tutto scorre» (tale aforisma però non si trova in Eraclito).
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