giovedì 26 dicembre 2024

Seneca, Epistulae, 55

 

[4] Multum autem interest utrum vita tua otiosa sit an ignava.

[4] «C’è molta. differenza se la vita è dedicata all’ozio o alla pigrizia».

[5] Nam qui res et homines fugit, quem cupiditatum suarum infelicitas relegavit, qui alios feliciores videre non potuit, qui velut timidum atque iners animal metu oblituit, ille sibi non vivit, sed, quod est turpissimum, ventri, somno, libidini; non continuo sibi vivit qui nemini.

[5] «Infatti colui che fugge cose e uomini, che l’insuccesso delle proprie aspirazioni ha isolato, che non riesce a guardare gli altri che sono più fortunati, che come un animale timido e senza risorse sta nascosto per la paura, egli vive non per se stesso, ma, ed è la cosa più vergognosa, per il piacere, il ventre, il sonno; senz’altro non vive per sé chi non vive per nessuno».

8. Sed non multum ad tranquillitatem locus confert: animus est qui sibi commendet omnia.

[8] «Però un luogo non contribuisce molto alla tranquillità: è l’animo che rende pregevoli per sé stessi tutte le cose».

10. Et ideo aequo animo ferre debemus absentiam, quia nemo non multum etiam praesentibus abest […] videbis non multum esse quod nobis peregrinatio eripiat.

[10] «E perciò dobbiamo sopportate con animo equilibrato la lontananza, poiché non c’è nessuno che non sia molto lontano persino da chi è vicino [] vedrai che non è molto ciò che il viaggiare ci porta via».

[11] Amicus animo possidendus est; hic autem numquam abest; quemcumque vult cotidie videt. Itaque mecum stude, mecum cena, mecum ambula: in angusto vivebamus, si quicquam esset cogitationibus clusum.

[11] «L’amico deve essere posseduto nell’animo; questo del resto non è mai lontano; vide ogni giorno chiunque voglia. E così studia con me, cena con me, passeggia con me: vivremmo in una dimensione ristretta, se ci fosse una qualche limitazione per i pensieri1».


1 Si pensi al rammarico con cui Tacito si confronta con gli storiografi delle epoche precedenti (Annales, IV, 32): Pleraque eorum quae rettuli quaeque referam parva forsitan et levia memoratu videri non nescius sum: sed nemo annalis nostros cum scriptura eorum contenderit qui veteres populi Romani res composuere. Ingentia illi bella, expugnationes urbium, fusos captosque reges, aut si quando ad interna praeverterent, discordias consulum adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis et optimatium certamina libero egressu memorabant: nobis in arto et inglorius labor; immota quippe aut modice lacessita pax, maestae urbis res et princeps proferendi imperi incuriosus erat. non tamen sine usu fuerit introspicere illa primo aspectu levia ex quis magnarum saepe rerum motus oriuntur, «La maggior parte delle cose che ho riferito e che riferirò non sono inconsapevole che sembrano piccole forse e poco significative a ricordarsi: ma nessuno può paragonare i nostri annali con gli scritti di coloro che hanno composto le antiche imprese del popolo romano. Quelli ricordavano grandi guerre, espugnazioni di città, re messi in fuga e catturati, o se a volte si volgevano ai fatti interni, le discordie dei consoli contro i tribuni, leggi agrarie e frumentarie, le contese della plebe e degli ottimati spaziando liberamente: per noi la fatica è in un ambito ristretto e priva di gloria; il fatto è che la pace era immobile o poco provocata, triste la situazione della città e il principe poco preoccupato di estendere limpero. Può tuttavia essere non privo di utilità gettare lo sguardo dentro quei fatti a prima vista poco significativi dai quali spesso nascono i moventi di grandi imprese». Montaigne è di parere opposto a quello di Tacito (Saggi, III, 8): «Ho appena finito di leggere d'un fiato la storia di Tacito […] Non conosco autore che introduca in una storia di eventi pubblici tante considerazioni sui costumi e le inclinazioni particolari. [c] E penso il contrario di quel che pensa lui: che dovendo in particolar modo seguire le vite degli imperatori del suo tempo, […] aveva una materia più forte e attraente da trattare e da narrare che se avesse dovuto parlare di battaglie e sconvolgimenti universali; tanto che spesso lo trovo sterile, quando sorvola rapidamente su quelle belle morti, come se temesse di annoiarci con il loro numero e la lunghezza del racconto. [B] Questo tipo di storia è di gran lunga il più utile: i moti pubblici dipendono piuttosto dalla condotta della fortuna, quelli privati dalla nostra. È più un giudizio che un'esposizione di storia: ci sono più precetti che racconti. Non è un libro da leggere, è un libro da studiare e da imparare; è così pieno di sentenze che ve ne sono a dritto e a rovescio: è un vivaio di riflessioni morali e politiche, per profitto e ornamento di coloro che occupano un posto nel governo del mondo. Egli perora sempre con ragioni solide e vigorose, in modo acuto e sottile, secondo lo stile ricercato del tempo; amavano tanto agghindarsi che quando non trovavano acutezza e finezza nelle cose, la traevano dalle parole. Si avvicina non poco alla scrittura di Seneca; lui mi sembra più polputo, Seneca più acuto. […] Se i suoi scritti dicono qualcosa delle sue qualità, era un grand’uomo, retto e coraggioso, non di una virtù superstiziosa, ma filosofica e generosa». Il giudizio di Montaigne sullo stile di Tacito è sulla linea di quello di Nietzsche, che lo associa però a Tucidide: «144. Lo stile dell'immortalità. Tanto Tucidide quanto Tacito entrambi hanno pensato, nel redigere le loro opere, a una durata immortale di esse: lo si potrebbe indovinare, se non lo si sapesse altrimenti, già dal loro stile. L'uno credette di dare durevolezza ai suoi pensieri salandoli, l'altro condensandoli a forza di cuocerli; e nessuno dei due, sembra, ha fatto male i suoi conti» (Umano, troppo umano II).

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