La teoria della classe media
Tale teoria, che attribuisce il primato morale a quello che oggi chiamiamo “ceto medio”, si trova espressa compiutamente nelle Supplici, 238-45:
τρεῖς γὰρ πολιτῶν μερίδες: οἳ μὲν ὄλβιοι
ἀνωφελεῖς τε πλειόνων τ᾽ ἐρῶσ᾽ ἀεί:
οἳ δ᾽ οὐκ ἔχοντες καὶ σπανίζοντες βίου
δεινοί, νέμοντες τῷ φθόνῳ πλέον μέρος,
ἐς τοὺς ἔχοντας κέντρ᾽ ἀφιᾶσιν κακά,
γλώσσαις πονηρῶν προστατῶν φηλούμενοι:
τριῶν δὲ μοιρῶν ἡ 'ν μέσῳ σῴζει πόλεις,
κόσμον φυλάσσουσ᾽ ὅντιν᾽ ἂν τάξῃ πόλις.
«Tre infatti sono le classi di cittadini: i ricchi sono / inutili e bramano sempre di più; / quelli che non hanno nulla e mancano di mezzi di sussistenza / sono temibili: attribuendo troppa parte all’invidia, / lanciano strali cattivi contro i possidenti, / tratti in inganno dalle lingue di capi malvagi; / delle tre classi quella che sta in mezzo salva le città, / preservando l’ordine che la città disponga».
Tale orientamento politico trova un’eco ironica nell’aristocratico Aristofane (Rane, 947-950), che fa dire al personaggio Euripide:
ἔπειτ᾽ ἀπὸ τῶν πρώτων ἐπῶν οὐδὲνα παρῆκ᾽ ἂν ἀργόν,
ἀλλ᾽ ἔλεγεν ἡ γυνή τέ μοι χὠ δοῦλος οὐδὲν ἧττον,
χὠ δεσπότης χἠ παρθένος χἠ γραῦς ἄν.
δημοκρατικὸν γὰρ αὔτ᾽ ἔδρων.
poi fin dalla prime parole non lasciavo nessuno inattivo, / ma parlava la donna per me non meno dello schiavo / e il padrone e la ragazza e la vecchia. / infatti facevo questo democraticamente».
Ad Aristofane si ispira Nietzsche nella sua invettiva contro “l’empio Euripide” (La nascita della tragedia, cap. 11):
Lo spettatore fu portato da Euripide sulla scena [...] Per opera sua l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura. Odisseo, il tipico Greco dell’arte antica, si abbassò ora [...] nella figura del greculo, che in seguito rimase [...] come schiavo domestico bonario e scaltro [...]
Euripide si ascrive a merito nelle Rane di Aristofane di aver liberato coi suoi rimedi casalinghi l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza [...] lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena euripidea il suo sosia, e si rallegrava che quello sapesse parlare tanto bene [...] con Euripide gli spettatori imparavano essi stessi a parlare, e di ciò Euripide stesso si vanta nella gara con Eschilo [...]
Da allora in poi non fu più un segreto in che modo e con quali sentenze la vita quotidiana si potesse rappresentare sulla scena. Prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina, su cui Euripide fondava tutte le sue speranze politiche.
A tale interpretazione spregiativa possiamo contrapporre quella di Gilbert Murray (Euripides and His Age, pp. 194-195):
Like other ideal democrats he turned away from the actual Demos, which surrounded him and howled him down, to a Demos of his imagination, pure and uncorrupted, in which the heart of the natural man should speak. His later plays break out more than once into praises of the unspoiled countryman, neither rich nor poor, who works with his own arm and whose home is “the solemn mountain” not the city streets (cf. especially Orestes, 917-922, as contrasted with 903 ff.; also the Peasant in the Electra; also Bac., 717).
Come altri democratici idealisti, Euripide si scostò dal Demos reale, che lo copriva di contumelie, per rifugiarsi nel puro e incorruttibile Demos della sua immaginazione, in cui veramente poteva parlare il cuore dell’uomo della natura. Più d’una volta, nelle sue ultime opere, prorompe l’elogio del contadino non guasto, né povero né ricco, che lavora colle sue braccia e ha casa «sulla montagna solenne» invece che nella strada della città (cfr. specialmente Oreste, 917-922, in contrasto con 903 e segg.; e anche il contadino dell’Elettra e le Baccanti, 717) [Trad. it. di Nina Ruffini, Bari, Laterza, 1932, p. 130].
Ottimo! A me piace Murray
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