sabato 31 agosto 2024

Vico: Repubblica di Platone e feccia di Romolo

 Il titolo mi è stato suggerito da Giambattista Vico, Scienza nuova, Libro primo, sez, II, Degli elementi, Degnità VI:

 «La filosofia considera l'uomo quale dev'essere, e sì non può fruttare ch'a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo».

 L’immagine è usata dal filosofo napoletano per contrapporre alla realtà immaginata quella concreta. L’espressione risale a Cicerone, Epistulae ad Atticum, II, 1, 8:

 nam Catonem nostrum non tu amas plus quam ego; sed tamen ille optimo animo utens et summa fide nocet interdum rei publicae; dicit enim tamquam in Platonis πολιτείᾳ, non tamquam in Romuli faece sententiam.

 «infatti il nostro Catone non lo ami più tu che io; ma pur avendo ottimi propositi, tuttavia in perfetta buona fede nuoce talvolta allo stato; egli infatti esprime il suo pensiero come se fosse nella Repubblica di Platone, non invece nella feccia di Romolo».

 Si tratta della medesima contrapposizione che si trova nel Principe di Machiavelli (XV):

 «Ma sendo l'intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità».

 Anche Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli (Quel che devo agli antichi, 2) prende posizione contro l’approccio idealistico di Platone, contrapponendogli Tucidide (e Machiavelli):

 «Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è stato in ogni tempo, Tucidide. Tucidide, e forse, Il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà – non nella «ragione», e meno ancora nella «morale»… Contro la deplorevole tendenza ad abbellire i Greci, a idealizzarli, che il giovane «educato nei classici» si porta nella vita come ricompensa del suo ammaestramento liceale, non v’è cura così drastica come Tucidide. Lo si deve rivoltare rigo per rigo e decifrare i suoi nascosti pensieri. In lui la cultura dei sofisti, voglio dire la cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile, in mezzo alla frode morale e ideale delle scuole socratiche dilaganti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadance dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà – conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di di conseguenza tiene sotto il suo dominio anche le cose…».

  Il filosofo tedesco in Aurora (168) aveva poi detto precedentemente:

 «Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male. Al contrario, egli vede nell'intimo di tutte le cose e di tutte le persone qualcosa di grande e lo vede in aggiunta ad esse, in quanto rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col nome dei suoi maestri, i Sofisti».

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