La gloria è l’ombra della virtù
8. Inter cetera hoc habet boni sapientia: nemo ab altero potest vinci nisi dum ascenditur. Cum ad summum perveneris, paria sunt; non est incremento locus, statur. Numquid sol magnitudini suae adicit? numquid ultra quam solet luna procedit? Maria non crescunt; mundus eundem habitum ac modum servat.
«8. Tra le altre cose ha questo di buono la sapienza: nessuno può essere vinto da un altro se non mentre ascende. Dopo essere giunti sulla sommità, sono allo stesso livello; non c’è spazio per un avanzamento, si sta fermi. Il sole aggiunge forse qualcosa alla sua grandezza? La luna procede forse più in là di quanto è solita1? I mari non crescono; il mondo mantiene il medesimo aspetto e la medesima dimensione».
13. Gloria umbra virtutis est: etiam invitam comitabitur. Sed quemadmodum aliquando umbra antecedit, aliquando sequitur vel a tergo est, ita gloria aliquando ante nos est visendamque se praebet, aliquando in averso est maiorque quo serior, ubi invidia secessit.
«13. La gloria è l’ombra della virtù: la accompagna anche se non vuole. Ma come a volte l’ombra precede, altre volte segue o è alle spalle, così la gloria a volte è davanti a noi e si offre alla vista, altre volte dalla parte opposta e più grande quanto più tardiva, quando l’invidia si sia ritirata».
17. Nulla virtus latet, et latuisse non ipsius est damnum: veniet qui conditam et saeculi sui malignitate conpressam dies publicet. Paucis natus est qui populum aetatis suae cogitat. Multa annorum milia, multa populorum supervenient: ad illa respice. Etiam si omnibus tecum viventibus silentium livor indixerit, venient qui sine offensa, sine gratia iudicent2.
«17. La virtù non rimane nascosta, ed essere rimasta nascosta è un danno non della stessa: verrà il giorno che la mostrerà al pubblico dopo essere stata sepolta e schiacciata dalla malignità del suo tempo. È nato per pochi chi tiene in considerazione la gente del suo tempo. Arriveranno migliaia di anni, molti popoli: rivolgiti a loro. Anche se il rancore avrà imposto il silenzio a tutti i tuoi contemporanei, verrano quelli che giudicheranno senza stizza, senza compiacenza».
Sentiamo come commenta questa epistola Schopenhauer (Parerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita, cap. quarto):
La gloria è la sorella immortale del mortale onore… Essa si consegue… solo con… azioni, oppure opere3. Vi sono dunque due strade aperte alla gloria. Soprattutto il grande cuore rende atti a seguire la via delle azioni, mentre il grande cervello spinge su quella delle opere… La differenza principale consiste nel fatto che le azioni passano, e le opere restano… Di Alessandro Magno vive il nome e la memoria, ma Platone e Aristotele, Omero e Orazio sono ancora presenti, vivono e agiscono immediatamente…
Seneca (ep. 79) dice in modo incomparabilmente bello, che la gloria segue il merito con la stessa necessità con cui l’ombra segue il corpo… Da ciò tra parentesi possiamo vedere come l’arte di soffocare i meriti con un maligno tacere e ignorare, allo scopo di nascondere al pubblico ciò che valeva a vantaggio di ciò che non valeva, fosse già conosciuta dai mascalzoni dell’epoca di Seneca…
Quanto più uno appartiene alla posterità, cioè all’umanità in genere, presa nel suo complesso, tanto più estraneo egli è alla sua epoca4. Ciò che egli produce non è infatti dedicato a questa in modo particolare… Essa stima piuttosto coloro che servono gli interessi del suo breve dominio, oppure l’umore del momento…
Invidia… ogni merito personale consegue la sua gloria a spese di coloro che non ne posseggono alcuno… Da ciò si spiega come, in qualsiasi forma possa comparire ciò che ha valore, tosto tutti quanti i mediocri, così numerosi, si uniscano e congiurino per non lasciarlo trionfare e anzi, quando sia possibile, per soffocarlo5…
Se coloro che compiono opere degne di gloria non facessero ciò per amore delle opere stesse e per la loro propria gioia nel crearle, ma avessero bisogno di essere incoraggiati dall’idea della gloria, davvero l’umanità acquisterebbe poche o punte opere immortali…
Osorio (De gloria)… la gloria fugge dinanzi a coloro che la cercano, e tiene dietro per contro a quelli che la trascurano: i primi infatti si adattano ai gusti dei contemporanei, i secondi la sfidano…
Sarebbe poi una misera esistenza, quella il cui valore o la cui mancanza di valore dipendesse dal suo modo di apparire agli occhi degli altri: tale sarebbe la vita dell’eroe o del genio, nel caso che il suo valore consistesse nella gloria, cioè nell’applauso di altri6. Il fine di qualsiasi essere sta invece in lui stesso, ed egli vive ed esiste anzitutto in sé e per sé. Ciò che uno è, comunque poi debba intendersi tale esistenza, lo è in primo luogo e principalmente per se stesso…
Poiché in ogni caso ciò che è ammirato deve avere un valore maggiore dell’ammirazione, quello che propriamente renderà felici non può consistere nella gloria, ma in ciò con cui la si consegue…
* Il più felice sarà colui che giungerà con qualsivoglia mezzo al punto di ammirare sinceramente se stesso.
Ciascuno infatti deve essere necessariamente per se stesso, ciò che di meglio egli è… Chi dunque merita la gloria, anche senza conseguirla, possiede di gran lunga l’essenziale… Ciò che rende qualcuno invidiabile, non è l’essere ritenuto un grand’uomo dalla moltitudine priva di discernimento e così spesso infatuata, bensì l’esserlo veramente7…
La sua felicità consiste quindi nelle grandi qualità stesse, che gli fanno conquistare la gloria, e nel fatto che egli ha avuto l’opportunità di svilupparle, che gli è stato concesso di agire come sentiva di dover agire…
Il valore della gloria avvenire sta così nel fatto di meritarla, e questo merito trova in sé stesso la sua ricompensa…
D’Alambert dice, nella sua bellissima descrizione del tempio della gloria letteraria: «La parte interna del tempio è abitata soltanto da morti, che durante la loro vita non vi erano entrati, e da alcuni viventi, che vengono poi gettati fuori quasi tutti, quando muoiono»…
Gloria e gioventù a un tempo sono davvero troppo per un mortale. La nostra vita è tanto povera, che i suoi beni debbono essere distribuiti con parsimonia. La gioventù gode in abbondanza della propria ricchezza, e deve contentarsi di ciò…
Nella vecchiaia non vi è maggior consolazione, che l’aver tradotto in opere tutta quanta la forza della propria gioventù, opere che non invecchiano assieme all’individuo.
I viaggi in terre lontane e poco esplorate: si diventa così famosi per aver visto qualcosa, non per aver pensato alcunché… Si può peraltro comprendere come, conoscendo personalmente la gente famosa a questo modo, ci venga spesso in mente l’osservazione oraziana:
Coelum, non animum, mutant, qui trans mare currunt.
Epistole, I, 11, v. 27
Per quanto riguarda la mente dotata di alte capacità… è chiaro che essa si sforzerà il più possibile di estendere il proprio orizzonte… senza perdersi troppo lontano in una qualsiasi regione particolare e nota solo a pochi… Non è infatti per lui necessario rifarsi a oggetti difficilmente accessibili, per sfuggire alla ressa dei concorrenti, e proprio ciò che si presenta a tutti gli fornirà il materiale per nuove, importanti e vere combinazioni8. Conformemente a ciò, il suo merito potrà essere apprezzato da tutti coloro cui sono noti i dati, cioè da una gran parte dell’umanità. Qui si fonda la grande differenza tra la fama conseguita da poeti e filosofi, e quella raggiungibile da fisici, chimici, da studiosi di anatomia, mineralogia, zoologia, da filologi, storici, eccetera.
1 Cioè: non percorre un’orbita più grande.
2 Cfr. i proemi delle Historiae e degli Annales di Tacito: neque amore et sine odio, «né con amore e senza odio»; sine ira et studio, «senza ira e senza passione». In entrambi i casi lo storiografo professa la sua imparzialità di interprete del passato. Anche Polibio VI, 9, 12) aveva usato una espressione analoga: χωρὶς ὀργῆς ἢ φθόνου, «senza ira o invidia».
3 Cfr. Sallustio, Cat., 3: 1 Pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est; vel pace vel bello clarum fieri licet; et qui fecere et qui facta aliorum scripsere, multi laudantur. 2 Ac mihi quidem, tametsi haudquaquam par gloria sequitur scriptorem et actorem rerum, tamen in primis arduum videtur res gestas scribere: primum, quod facta dictis exaequanda sunt; dehinc, quia plerique, quae delicta reprehenderis, malevolentia et invidia dicta putant, ubi de magna virtute atque gloria bonorum memores, quae sibi quisque facilia factu putat, aequo animo accipit, supra ea veluti ficta pro falsis ducit, «È bello agire bene per lo stato, anche dirne bene non è assurdo; vuoi in pace vuoi in guerra è possibile didventare illustre; e coloro che hanno agito e coloro che hanno scritto le azioni degli altri sono lodati in molti. E per quanto in nessun modo una gloria pari segue lo scrittore e l’autore delle imprese, tuttavia mi sembra soprattutto arduo scrivere le imprese compiute: innanzitutto poiché le parole devono essere adeguate ai fatti; poi perché i più pensano che siano dettati da invidia e malevolenza i rimproveri che puoi muovere ai delitti, quando invece fai menzione della grande virtù e gloria dei valorosi, le cose che ciascuno ritiene facili a farsi da parte sua, le accettà con tranquillità, quelle superiori le considera fale, come inventate».
4 Nietzsche, L’anticristo, Prefazione: «A me si confà unicamente il giorno seguente al domani. C’è chi è nato postumo».
5 Cfr. il Gorgia di Platone in cui Callicle uno dei personaggi sta discutendo con Socrate se sia meglio infliggere o subire ingiustizia; secondo lui in natura ciò che è brutto è anche malvagio, come subire ingiustizia, mentre secondo la legge è il contrario. Prosegue dicendo che è meglio morire se, maltrattati e offesi, non si è capaci di aiutare se stessi e gli altri. Quindi formula il concetto secondo cui:
Φύσις αὐτὴ ἀποφαίνει αὐτό, ὅτι δίκαιόν ἐστιν τὸν ἀμείνω τοῦ χείρονος πλέον ἔχειν καὶ τὸν δυνατώτερον τοῦ ἀδυνατωτέρου. δηλοῖ δὲ ταῦτα πολλαχοῦ ὅτι οὕτως ἔχει, καὶ ἐν τοῖς ἄλλοις ζῴοις καὶ τῶν ἀνθρώπων ἐν ὅλαις ταῖς πόλεσι καὶ τοῖς γένεσιν, ὅτι οὕτω τὸ δίκαιον κέκριται, τὸν κρείττω τοῦ ἥττονος ἄρχειν καὶ πλέον ἔχειν.
«La natura stessa mostra ciò, vale a dire che è giusto che il migliore abbia più del peggiore e il più capace del meno capace. Mastra che queste cose stanno così ovunque, sia tra gli altri animali sia tra gli uomini nelle città intere e nelle famiglie» (483d).
Le leggi allora sono un prodotto della maggioranza fatta di deboli invidiosi che non icapaci di realizzare le proprie ambizioni, caratteristica invece dei forti (491b) ἀνδρεῖοι, ἱκανοὶ ὄντες ἃ ἂν νοήσωσιν ἐπιτελεῖν, καὶ μὴ ἀποκάμνωσι διὰ μαλακίαν τῆς ψυχῆς, «valorosi, capaci di compiere ciò che pensano, e non si scoraggiano per debolezza d’animo».
(492a) ἀλλὰ τοῦτ᾽ οἶμαι τοῖς πολλοῖς οὐ δυνατόν: ὅθεν ψέγουσιν τοὺς τοιούτους δι᾽ αἰσχύνην, ἀποκρυπτόμενοι τὴν αὑτῶν ἀδυναμίαν.
«ma ai più credo, questo non è possibile: perciò biasimano siffatti individui, per vergogna, nascondendo la proria incapacità».
Callicle aggiunge poi che pessima è la filosofia, perché anche chi per natura è ben dotato, se continua a filosofare anche da adulto, non fa esperienza del mondo reale rimanendo inesperto delle passioni degli uomini, τῶν ἠθῶν παντάπασιν ἄπειροι γίγνονται, «diventano assolutamente inesperti dei tipi».
Socrate ribatte naturalmente che bisogna seguire la temperanza e la morale, ma riconosce a Callicle di aver parlato con franchezza οὐκ ἀγεννῶς, in quanto ha detto quello che gli altri pensano senza avere in coraggio di dirlo.
6 Cfr. Dodds, «la civiltà di vergogna» (I Greci e l’irrazionale, cap. I, L’apologia di Agamennone): I Greci e l’irrazionale (cap. I, L’apologia di Agamennone): «alcuni antropologi americani ci hanno recentemente insegnato a distinguere le «civiltà di vergogna» dalle «civiltà di colpa», e la società descritta da Omero è sicuramente una civiltà di vergogna. Il bene supremo dell'uomo omerico non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, sta nel possesso della tīmē, la pubblica stima. “Perché dovrei combattere, domanda Achille, se nello stesso pregio (τιμή) sono il codardo e il prode?”. La più potente forza morale nota all'uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell'opinione pubblica, aidōs: αἰδέομαι Τρῶας, dice Ettore nel momento risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti».
7 A tal proposito Plutarco riporta un episodio che riguarda Aristide, un Ateniese di nobile natura (Regum et imperatorum apophthegmata, 186b-c): Αἰσχύλου δὲ ποιήσαντος εἰς Ἀμφιάραον, «οὐ γὰρ δοκεῖν ἄριστος ἀλλ᾽ εἶναι θέλει, / βαθεῖαν ἄλοκα διὰ φρενὸς καρπούμενος, / ἐξ ἧς τὰ κεδνὰ βλαστάνει βουλεύματα»: καὶ λεγομένων τούτων, πάντες εἰς Ἀριστείδην ἀπέβλεψαν, «Scrivendo Eschilo a proposito di Amfiarao: “non vuole infatti sembrare ottimo, ma esserlo, / cogliendo frutti dal solco profondo della mente, / da cui germogliano nobili proponimenti”: e mentre venivano pronunciati questi versi, tutti si volsero lo sguardo verso Aristide»; il medesimo aneddoto si trova in Aristide, III, 4: ὅθεν, ὡς ἔοικε, τῶν εἰς Ἀμφιάραον ὑπ᾽ Αἰσχύλου πεποιημένων ἰαμβείων ἐν τῷ θεάτρῳ λεγομένων: «οὐ γὰρ δοκεῖν δίκαιος, ἀλλ᾽ εἶναι θέλει, / βαθεῖαν ἄλοκα διὰ φρενὸς καρπούμενος, / ἀφ᾽ ἧς τὰ κεδνὰ βλαστάνει βουλεύματα», πάντες ἀπέβλεψαν εἰς Ἀριστείδην, ὡς ἐκείνῳ μάλιστα τῆς ἀρετῆς ταύτης προσηκούσης, «quindi, a quanto pare, mentre venivano pronunciati in teatro i giambi scritti da Eschilo a proposito di Amfiarao: “non vuole infatti sembrare ottimo, ma esserlo, / cogliendo frutti dal solco profondo della mente, / da cui germogliano nobili proponimenti”, tutti volsero lo sguardo verso Aristide, poiché a quello soprattutto si addiceva questa virtù». I versi cui allude Plutarco sono i vv. 592-594 dei Sette contro Tebe.
8 Potremmo definire questa una callida iunctura concettuale; vedi Orazio, Ars poetica, 47-8: dixeris egregie, notum si callida uerbum / reddiderit iunctura nouum, «ti sarai espresso egregiamente, se una parola nota avrai reso / nuova con un arguto accostamento».
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