sabato 30 novembre 2024

Aristotele, Poetica – 8

 

1456a

καὶ τὸν χορὸν δὲ ἕνα δεῖ ὑπολαμβάνειν τῶν ὑποκριτῶν, καὶ μόριον εἶναι τοῦ ὅλου καὶ συναγωνίζεσθαι μὴ ὥσπερ Εὐριπίδῃ ἀλλ' ὥσπερ Σοφοκλεῖ.

«E bisogna considerare il coro come uno degli attori, e che sia una parte dell’insieme e che partecipi all’azione, non come per Euripide ma come per Sofocle».


1458a

Λέξεως δὲ ἀρετὴ σαφῆ καὶ μὴ ταπεινὴν εἶναι.

«Virtù del linguaggio è essere chiaro e non sciatto».


Anche Orazio la pensa così: Ars poetica, 448-450

parum claris lucem dare coget1,

arguet ambigue dictum, mutanda notabit,

fiet Aristarchus.

«Costringerà a dare luce alle espressioni poco chiare, / spiegherà ciò che è stato detto ambiguamente, segnalerà le cose da cambiare, / diventerà un Aristarco».


1459a

ἔστιν δὲ μέγα μὲν τὸ ἑκάστῳ τῶν εἰρημένων πρεπόντως χρῆσθαι, […] πολὺ δὲ μέγιστον τὸ μεταφορικὸν εἶναι. μόνον γὰρ τοῦτο οὔτε παρ' ἄλλου ἔστι λαβεῖν εὐφυΐας τε σημεῖόν ἐστι· τὸ γὰρ εὖ μεταφέρειν τὸ τὸ ὅμοιον θεωρεῖν ἐστιν.

«È importante utilizzare convenientemente ciascuno delle figure dette, […] ma la cosa di gran lunga più importante è essere metaforici. Infatti solo questo non è possibile prenderlo da unaltra parte ed è segno di una natura ben fatta: il fare delle belle metafore infatti è osservare ciò che è simile2».


1460a

αὐτὴ ἡ φύσις διδάσκει τὸ ἁρμόττον αὐτῇ αἱρεῖσθαι.

«La natura stessa insegna a sciegliere ciò che le si adatta»


1460b

Σοφοκλῆς ἔφη αὐτὸς μὲν οἵους δεῖ ποιεῖν, Εὐριπίδην δὲ οἷοι εἰσίν.

«Sofocle diceva che egli rappresentava personaggi quali dovrebbero essere, Euripide quali sono».


1462a

ἡ τραγῳδία καὶ ἄνευ κινήσεως ποιεῖ τὸ αὑτῆς, ὥσπερ ἡ ἐποποιία· διὰ γὰρ τοῦ ἀναγινώσκειν φανερὰ ὁποία τίς ἐστιν.

«La tragedia anche senza movimento produce il suo effetto, come l’epica; infatti attraverso la lettura appare chiaramente quale è».


1 Il soggetto è colui che ha il compito di criticare con sincerità un lavoro per rilevarne i difetti.

2 Cfr. Aristotele, Reth., ΙΙΙ, 11, 5: καὶ ἐν φιλοσοφίᾳ τὸ ὅμοιον καὶ ἐν πολὺ διέχουσι θεωρεῖν εὐστόχου, «anche in filosofia osservare ciò che è simile anche nelle cose molto distanti è proprio di una persona perspicace». Il medesimo concetto si trova in Schopenhauer, Parerga e paralipomena II (capitolo ventitreesimo, sul mestiere dello scrittore e sullo stile, 289): «Le similitudini hanno un grande valore, in quanto riconducono un rapporto sconosciuto a uno notoInoltre ogni vero intendere consiste in ultima analisi in un afferrare rapportinon appena ho colto anche soltanto in due casi diversi lo stesso rapporto, io ho un concetto di tutta la sua specie il saperne fare di sorprendenti ma pertinenti è prova di profonda intelligenza».

Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2025 – vv. 32-38

 

τοιγάρ νιν αὐτὰς ἐκ δόμων ᾤστρησ’ ἐγὼ

μανίαις, ὄρος δ' οἰκοῦσι παράκοποι φρενῶν,

σκευήν τ' ἔχειν ἠνάγκασ' ὀργίων ἐμῶν.1

καὶ πᾶν τὸ θῆλυ σπέρμα Καδμείων, ὅσαι     35

γυναῖκες ἦσαν, ἐξέμηνα δωμάτων·

ὁμοῦ δὲ Κάδμου παισὶν ἀναμεμειγμέναι

χλωραῖς ὑπ' ἐλάταις ἀνορόφους ἧνται πέτρας.2


1 32-34: «Perciò le ho spinte fuori dalla casa assillandole / con la follia, e abitano la montagna fuori di senno, / e le ho costrette ad indossare i paramenti dei miei riti».
33 – ὄρος: si tratta del Citerone (v. 62) che si trova a circa 13 chilometri da Tebe. È ancora densamente alberato di abeti bianchi (gli ἐλάται del v. 38); la vetta è rocciosa.
34 – ὀργίων: ὄργια, dalla medesima radice di ἔργον, sono propriamente «cose fatte» in un senso religioso ( cfr. anche ἔρδειν, «fare sacrifici»), le azioni di un rituale religioso. Il senso moderno di «orge» deriva dalla concezione ellenistica e romana della natura della religione dionisiaca: non deve essere importato nelle Baccanti.

2 35-38: «E tutto il seme femminile dei Cadmei, quante / donne c’erano, le spinsi a delirare fuori dalle case; / e mescolate insieme alle figlie di Cadmo all’ombra / di verdi pini stanno sedute su rocce senza tetto».
35-36 – πᾶν τὸ θῆλυ σπέρμα ὅσαι γυναῖκες ἦσαν: la seconda espressione rispetto alla prima è puramente tautologica. Non può limitare il senso di πᾶν τὸ θῆλυ σπέρμα escludendo le nubili: le παρθένοι sono incluse (v. 694); e neanche le bambine perché γυνή non indica una donna cresciuta in opposizione a una fanciulla. La ripetizione allora può avere lo scopo di enfatizzare l’esclusione dei maschi: questo è un punto cruciale del dramma – cfr. gli ingiusti sospetti di Penteo (vv. 223, 354) e la loro confutazione (v. 686).
37 – ὁμοῦ ἀναμεμειγμέναι: il culto dionisiaco non fa distinzioni tra nobili e gente del popolo.

venerdì 29 novembre 2024

Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2025 – vv. 23-31

 

πρώτας δὲ Θήβας τάσδε γῆς Ἑλληνίδος1

ἀνωλόλυξα, νεβρίδ' ἐξάψας χροὸς

θύρσον τε δοὺς ἐς χεῖρα, κίσσινον βέλος·    25

ἐπεί μ' ἀδελφαὶ μητρός, ἃς ἥκιστ' ἐχρῆν,2

Διόνυσον οὐκ ἔφασκον ἐκφῦναι Διός,

Σεμέλην δὲ νυμφευθεῖσαν ἐκ θνητοῦ τινος

ἐς Ζῆν' ἀναφέρειν τὴν ἁμαρτίαν λέχους,

Κάδμου σοφίσμαθ', ὧν νιν οὕνεκα κτανεῖν   30

Ζῆν' ἐξεκαυχῶνθ', ὅτι γάμους ἐψεύσατο.


1 23-25: «Per prima Tebe di questa terra Ellenica / ho fatto risuonare delle mie grida, avendo messo sulla / pelle la nebride e dato in mano il tirso, dardo di edera;»
24 – ἀνωλόλυξα: L’ὀλολυγή è il grido rituale di trionfo o di ringraziamento delle donne. νεβρίδα: la pelle di cerbiatto, il tradizionale mantello delle menadi sia in poesia sia nei vasi, serviva senza dubbio come necessario riparo contro il freddo dell’ὀρειβασία invernale; ma è anche un ἱερὸν ἐνδυτόν, «un indumento sacro» (v. 137), originariamente indossato perché comunicava a chi lo indossava la virtù dionisiaca del cerbiatto (cfr. v. 866), come la pelle di leone conferisce a Eracle la virtù del leone.
25 – θύρσον: nella sua forma originale, come si vede nei vasi attici del VI secolo, è un βακχεῖον κλάδον (v. 308), ramo dell’albero sacro al dio: averlo con sé significava avere con sé la divinità. Nel pitture del V secolo comincia ad essere sostituito dal νάρθηξ, o bastone, che in sé era un oggetto profano (usato per esempio per bacchettare i ragazzi) ma diventa un θύρσος con l’aggiunta di un magico ramo di foglie d’edera attorcigliato sulla cima. Il νάρθηξ dunque è, in senso stretto, una parte del θύρσος, ma nelle Baccanti le due parole sembrano essere spesso sinonimi. Questa è la descrizione che fa Dodds: The thirsus was formed by inserting a bunch of ivy leaves in the hollow tip of a fennel-rod. κίσσινον: l’edera non era usata come un comodo sostituto invernale delle le foglie di vite o per rinfrescare le fronti febbricitanti delle bevitrici, come pensava Plutarco (Quastiones convivales, 3, 2), ma perché nella sua sempreverde vitalità essa rappresenta la vittoria della vegetazione sull’inverno suo nemico, come anche il μῖλαξ (v. 108) e l’abete (v. 110). Il suo posto nel rituale dionisiaco è originario, forse più antico di quello della vite. βέλος: non è una mera metafora; il tirso era effettivamente usato come un dardo (vv. 762, 1099).

2 26-31: «perché le sorelle di mia madre, e meno di tutti dovevano, / ripetevano che Dioniso non è nato da Zeus, / ma che Semele messa incinta da un mortale / riportava a Zeus il peccato di letto, / scaltro espediente di Cadmo, per cui si compiacevano / che Zeus l’avesse uccisa per il fatto di aver mentito sulle nozze».
28 – νυμφευθεῖσαν: un eufemismo per «sedotta».
30 – Κάδμου σοφίσμαθ: Le sorelle di Semele pensavano, senza carità, che la storia della sua unione con Zeus fosse stata inventata da Cadmo per coprire il suo sbandamento morale.
31 – ἐξεκαυχῶνθ’: il verbo esprime il malizioso trionfo delle sorelle.

Aristotele, Poetica – 7

 

1453b

I caratteri: devono essere di valore, adatti, somiglianti e infine coerenti; in quest’ultimo caso la coerenza può non appartenere al personaggio in sé, cioè si può rappresentare un personaggio dal carattere incoerente però ὅμως ὁμαλῶς ἀνώμαλον δεῖ εἶναι, «deve comunque essere coerentemente incoerente», come l’Amleto nell’omonima tragedia di Shakespeare (atto II, scena 2, vv. 204-205): Though this be madness, yet there is method / in t, «sarà follia, ma c’è pure del metodo in essa».

Ci sono poi vari tipi di riconoscimento: attraverso segni, quelli operati dl poeta, grazie alla memoria e un quarto ἐκ συλλογισμοῦ, οἷον ἐν Χοηφόροις, «per deduzione, come nelle Coefore» (1455a). Questo episodio è particolarmente famoso perché è ripreso dagli altri due tragediografi: è criticato implicitamente da Sofocle ed esplicitamente da Euripide nelle rispettive Elettra. I versi in questione sono:

Eschilo, Coefore, vv. 168-178

Ηλ. ὁρῶ τομαῖον τόνδε βόστρυχον τάφῳ.

«vedo qui un ricciolo reciso sul sepolcro».

Χο. τίνος ποτ' ἀνδρὸς ἢ βαθυζώνου κόρης;

«di quale uomo mai o di quale fanciulla dalla bassa cintura?»

Ηλ. εὐξύμβολον τόδ' ἐστὶ παντὶ δοξάσαι.

«questa è una congettura facile da formulare per chiunque»

Χο. πῶς οὖν παλαιὰ παρὰ νεωτέρας μάθω;

«Dunque dovrei imparare io vecchia da una più giovane?»

Ηλ. οὐκ ἔστιν ὅστις πλὴν ἐμοῦ κείραιτό νιν.

«Non c’è nessuno tranne me che potrebbe esserselo tagliato».

Χο. ἐχθροὶ γὰρ οἷς προσῆκε πενθῆσαι τριχί.

«Sono ostili infatti coloro ai quali conveniva esprimere il lutto con una ciocca di capelli».

Ηλ. καὶ μὴν ὅδ' ἐστὶ κάρτ' ἰδεῖν ὁμόπτερος ‑

«E certamente, a vederlo, questo ricciolo è del tutto simile».

Χο. ποίαις ἐθείραις; τοῦτο γὰρ θέλω μαθεῖν.

«A quali capelli? questo infatti voglio sapere».

Ηλ. αὐτοῖσιν ἡμῖν κάρτα προσφερὴς ἰδεῖν.

«Del tutto somigliante proprio ai miei a vederlo».

Χο. μῶν οὖν Ὀρέστου κρύβδα δῶρον ἦν τόδε;

«Dunque era forse un dono di Oreste questo, fatto segretamente?»

Ηλ. μάλιστ' ἐκείνου βοστρύχοις προσείδεται.

«Assomiglia moltissimo ai riccioli di quello».


vv. 205-206

καὶ μὴν στίβοι γε, δεύτερον τεκμήριον,

ποδῶν ὅμοιοι τοῖς τ' ἐμοῖσιν ἐμφερεῖς.

«e ancora un secondo indizio, delle impronte / di piedi uguali e coincidenti con i miei».


Sofocle, Elettra, vv. 900-904

ἐσχάτης δ' ὁρῶ

πυρᾶς νεώρη βόστρυχον τετμημένον·

κεὐθὺς τάλαιν' ὡς εἶδον, ἐμπαίει τί μοι

ψυχῇ σύνηθες ὄμμα, φιλτάτου βροτῶν

πάντων Ὀρέστου τοῦθ' ὁρᾶν τεκμήριον·

«vedo all’estremità / del sepolcro un ricciolo reciso di recente; / e non appena l’ho vista, infelice, mi colpisce / nell’anima un’immagine familiare, questo a vederlo è / un indizio di Oreste, il più caro tra i mortali».

Subito però Elettra viene smentita dalla notizia che Oreste è morto e l’attenzione si sposta sulla sua condizione di donna umiliata. Solo dopo che Oreste avrà appurato la purezza del cuore della sorella si farà riconoscere, non però dai capelli, bensì dal sigillo che porta al dito:

vv. 1221-1222

ΟΡ. Τήνδε προσβλέψασά μου

σφραγῖδα πατρὸς ἔκμαθ' εἰ σαφῆ λέγω.

«Osserva questo sigillo di mio padre e impara se dico la verità».

Nella versione di Euripide Oreste, presentatosi in incognito, viene ospitato da Elettra nella sua umile casa; le parole che seguono sono di un vecchio servitore di Agamennone che ha portato un agnello per gli ospiti ed è passato dl sepocro di Agamennone.

Euripide, Elettra, vv. 513-15

πυρᾶς δ' ἔπ' αὐτῆς οἶν μελάγχιμον πόκῳ

σφάγιον ἐσεῖδον αἷμά τ' οὐ πάλαι χυθὲν

ξανθῆς τε χαίτης βοστρύχους κεκαρμένους.

«Proprio sul sepolcro vidi una pecora nera / di pelo sgozzata e sangue versato da non molto / e riccioli recisi di capelli biondi».

vv. 518-523

ἀλλ’ ἦλθ’ ἴσως που σὸς κασίγνητος λάθρᾳ,

μολὼν δ’ ἐθαύμασ’ ἄθλιον τύμβον πατρός.

σκέψαι δὲ χαίτην προστιθεῖσα σῇ κόμῃ,

εἰ χρῶμα ταὐτὸν κουρίμης ἔσται τριχός·

φιλεῖ γάρ, αἷμα ταὐτὸν οἷς ἂν ᾖ πατρός,

τὰ πόλλ’ ὅμοια σώματος πεφυκέναι.

«Ma forse è arrivato in qualche modo di nascosto tuo fratello, / e una volta giunto ha onorato la tomba del povero padre. /Ma avvicina la ciocca alla tua chioma e guarda, / se il colore sarà il medesimo del capello tagliato: / Sono soliti infatti, per chi ha il medesimo sangue del padre, essere simili per natura la maggior parte dei tratti somatici».

La risposta di Elettra al vecchio è fulminante (vv. 524-531):

Ηλ. οὐκ ἄξι' ἀνδρός, ὦ γέρον, σοφοῦ λέγεις,

εἰ κρυπτὸν ἐς γῆν τήνδ' ἂν Αἰγίσθου φόβῳ

δοκεῖς ἀδελφὸν τὸν ἐμὸν εὐθαρσῆ μολεῖν.

ἔπειτα χαίτης πῶς συνοίσεται πλόκος,

ὁ μὲν παλαίστραις ἀνδρὸς εὐγενοῦς τραφείς,

ὁ δὲ κτενισμοῖς θῆλυς; ἀλλ' ἀμήχανον.

πολλοῖς δ' ἂν εὕροις βοστρύχους ὁμοπτέρους

καὶ μὴ γεγῶσιν αἵματος ταὐτοῦ, γέρον.

«Vecchio, dici cose indegne di un uomo saggio, / se credi che mio fratello che è coraggioso possa essere giunto / in questa terra di nascosto per paura di Egisto. / Poi come si confronterà una ciocca di capelli, / una cresciuto da un uomo nobile nelle palestre, / l’altra femminile e pettinata? Ma è assurdo. / Puoi trovare riccioli simili in molti / anche se non sono nati dal medesimo sangue, vecchio».

1455a

πασῶν δὲ βελτίστη ἀναγνώρισις ἡ ἐξ αὐτῶν τῶν πραγμάτων, τῆς ἐκπλήξεως γιγνομένης δι' εἰκότων, οἷον ἐν τῷ Σοφοκλέους Οἰδίποδι καὶ τῇ Ἰφιγενείᾳ.

«Ma il riconoscimento più bello di tutti è quello che risulta dalle azioni stesse, essendoci la sorpresa mediante somiglianze, come nell’Edipo di Sofocle e nell’Ifigenia».

Δεῖ δὲ τοὺς μύθους συνιστάναι καὶ τῇ λέξει συναπεργάζεσθαι ὅτι μάλιστα πρὸ ὀμμάτων τιθέμενον· οὕτω γὰρ ἂν ἐναργέστατα [] ὁρῶν ὥσπερ παρ' αὐτοῖς γιγνόμενος τοῖς πραττομένοις εὑρίσκοι τὸ πρέπον καὶ ἥκιστα ἂν λανθάνοι [τὸ] τὰ ὑπεναντία.

«Bisogna comporre i racconti e rifinirli con il linguaggio ponendoli il più possibile davanti agli occhi; potendo così vedere nel modo più chiaro come se si fosse presenti ai fatti stessi si troverebbe ciò che è conveniente sfuggiranno al minimo le contraddizioni».

Una banana da sei milioni...

Leggo sul sito di Repubblica che un miliardario (sic!) ha mangiato una banana comprata per 6 milioni.

Magari la sua ricchezza suciterà l’ammirazione di alcuni, forse di molti: non certo la mia. Io lo considero un vero pezzente, a dispetto dei suoi miliardi. Seneca, in Epistulae, 2, cita Epicuro correggendolo: Hodiernum hoc est quod apud Epicurum nanctus sum - soleo enim et in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator -: 'honesta' inquit 'res est laeta paupertas’. Illa vero non est paupertas, si laeta est; non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est.  «Questo è quello di oggi che ho attinto da Epicuro – sono solito infatti passare anche nell’accampamento degli altri, non come un fuggiasco, ma come una spia – : “è cosa onorevole” dice “una povertà lieta”. Quella però non è povertà, se è lieta; è povero non chi ha poco, ma chi brama di più». Poi aggiunge: Quid enim refert quantum illi in arca, quantum in horreis iaceat, quantum pascat aut feneret, si alieno imminet, si non acquisita sed acquirenda computat? Quis sit divitiarum modus quaeris? primus habere quod necesse est, proximus quod sat est. «Che importanza ha infatti quanto egli abbia nel forziere, quanto si trovi nel granaio, quanto bestiame abbia o denaro presti, se è proteso sui beni altrui, se conta non ciò che ha raggiunto ma ciò che deve raggiungere? Tu chiedi quale sia la misura della ricchezza? Primo possedere ciò che è necessario, poi ciò che è sufficiente».

Si può accostare questo pensiero a quello di La Rochefoucauld, Massime, 48: La félicité est dans le goût et non pas dans les choses; et c'est par avoir ce qu'on aime qu'on est heureux, et non par avoir ce que les autres trouvent aimable, «La felicità sta nel gusto e non nelle cose; ed è per il possesso di ciò che si ama che si è felici, e non per quello di ciò che gli altri trovano amabile».

In fondo penso che quella di questa gente sia un Personata felicitas, crusta (De providentia VI, 4): 4. Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit, «Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».

Aristotele, Poetica – 6

 

1452b

Le parti quantitative (κατὰ δὲ τὸ ποσὸν)

πρόλογος ἐπεισόδιον ἔξοδος χορικόν, καὶ τούτου τὸ μὲν πάροδος τὸ δὲ στάσιμον, κοινὰ μὲν ἁπάντων ταῦτα, ἴδια δὲ τὰ ἀπὸ τῆς σκηνῆς καὶ κομμοί. […] κομμὸς δὲ θρῆνος κοινὸς χοροῦ καὶ ἀπὸ σκηνῆς.

«Prologo episodio esodo canto corale, e di questo da una parte parodo dall’altra stasimo, e queste sono comuni a tutte (le tragedie), mentre proprie (di alcune) i canti provenienti dalla scena e i commi. […] Il commo è un lamento comune del coro e di uno che proviene dalla scena».


L’effetto della tragedia (τὸ τῆς τραγῳδίας ἔργον)

πρῶτον μὲν δῆλον ὅτι οὔτε τοὺς ἐπιεικεῖς ἄνδρας δεῖ μεταβάλλοντας φαίνεσθαι ἐξ εὐτυχίας εἰς δυστυχίαν, οὐ γὰρ φοβερὸν οὐδὲ ἐλεεινὸν τοῦτο ἀλλὰ μιαρόν ἐστιν· οὔτε τοὺς μοχθηροὺς ἐξ ἀτυχίας εἰς εὐτυχίαν.

«Innanzitutto è chiaro che non bisogna che appaiano uomini per bene che mutano dalla fortuna alla disgrazia, questo non è infatti né pauroso né pietoso ma è ripugnante; né bisogna che i malvagi mutino dalla sfortuna alla fortuna».

1453a

οὐδ' αὖ τὸν σφόδρα πονηρὸν ἐξ εὐτυχίας εἰς δυστυχίαν μεταπίπτειν· τὸ μὲν γὰρ φιλάνθρωπον ἔχοι ἂν ἡ τοιαύτη σύστασις ἀλλ' οὔτε ἔλεον οὔτε φόβον.

«neppuro d’altro canto uno che è del tutto cattivo deve precipitare dalla fortuna nella sventura: infatti una tale circostanza comporterebbe umanesimo ma non pietà né paura».

ὁ μεταξὺ ἄρα τούτων λοιπός. ἔστι δὲ τοιοῦτος ὁ μήτε ἀρετῇ διαφέρων καὶ δικαιοσύνῃ μήτε διὰ κακίαν καὶ μοχθηρίαν μεταβάλλων εἰς τὴν δυστυχίαν ἀλλὰ δι' ἁμαρτίαν τινά, τῶν ἐν μεγάλῃ δόξῃ ὄντων καὶ εὐτυχίᾳ, οἷον Οἰδίπους καὶ Θυέστης καὶ οἱ ἐκ τῶν τοιούτων γενῶν ἐπιφανεῖς ἄνδρες.

«Rimane allora il caso intermedio. È siffatto colui che muta nella disgrazia non distingendosi per virtù e giustizia né per vizio e malvagità, ma per un errore, tra coloro che si trovano a un alto livello di reputazione e fortuna, come edipo e Tieste e gli uomini illustri provenienti da tali stirpi».

ὁ Εὐριπίδης, εἰ καὶ τὰ ἄλλα μὴ εὖ οἰκονομεῖ, ἀλλὰ τραγικώτατός γε τῶν ποιητῶν φαίνεται.

«Euripide, anche se per le altre cose non gestisce bene, però tra i poeti appare come il più tragico, quanto meno».

Aristotele, Poetica – 5

 

1451a-b

Φανερὸν δὲ ἐκ τῶν εἰρημένων καὶ ὅτι οὐ τὸ τὰ γενόμενα λέγειν, τοῦτο ποιητοῦ ἔργον ἐστίν, ἀλλοἷα ἂν γένοιτο καὶ τὰ δυνατὰ κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον. ὁ γὰρ [1451b] ἱστορικὸς καὶ ὁ ποιητὴς οὐ τῷ ἢ ἔμμετρα λέγειν ἢ ἄμετρα διαφέρουσιν (εἴη γὰρ ἂν τὰ Ἡροδότου εἰς μέτρα τεθῆναι καὶ οὐδὲν ἧττον ἂν εἴη ἱστορία τις μετὰ μέτρου ἢ ἄνευ μέτρων)· ἀλλὰ τούτῳ διαφέρει, τῷ τὸν μὲν τὰ γενόμενα λέγειν, τὸν δὲ οἷα ἂν γένοιτο.

«È chiaro da ciò che si è detto anche che compito del poeta è questo, non dire le cose che sono accadute, ma quali potrebbero accadere e quelle possibili secondo verosimiglianza e necessità. Infatti lo storico e il poeta differiscono non per il dire parole in versi o senza versi (infatti gli scritti di Erodoto si potrebbero mettere in versi e ciò non di meno comunque sarebbero una storia, con versi o senza versi); in questo invece differiscono, nel fatto che uno dice le cose accadute, l’altro quali potrebbero accadere».

διὸ καὶ φιλοσοφώτερον καὶ σπουδαιότερον ποίησις ἱστορίας ἐστίν· ἡ μὲν γὰρ ποίησις μᾶλλον τὰ καθόλου, ἡ δἱστορία τὰ καθἕκαστον λέγει. ἔστιν δὲ καθόλου μέν, τῷ ποίῳ τὰ ποῖα ἄττα συμβαίνει λέγειν ἢ πράττειν κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον, οὗ στοχάζεται ἡ ποίησις ὀνόματα ἐπιτιθεμένη· τὸ δὲ καθἕκαστον, τί Ἀλκιβιάδης ἔπραξεν ἢ τί ἔπαθεν.

«Perciò anche la poesia è più filosofica e importante della storia: la poesia infatti dice l’universale, la storia il particolare. Universale è che a uno con certe qualità capita di dire o fare determinate cose di una certa qualità secondo verosimiglianza o necessità, obiettivo che ha di mira la poesia, aggiungendo poi dei nomi; il particolare, cosa fece o cosa subì Alcibiade».


1452a

Ἔστι δὲ περιπέτεια μὲν ἡ εἰς τὸ ἐναντίον τῶν πραττομένων μεταβολὴ καθάπερ εἴρηται, καὶ τοῦτο δὲ ὥσπερ λέγομεν κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ ἀναγκαῖον, οἷον ἐν τῷ Οἰδίποδι ἐλθὼν ὡς εὐφρανῶν τὸν Οἰδίπουν καὶ ἀπαλλάξων τοῦ πρὸς τὴν μητέρα φόβου, δηλώσας ὃς ἦν, τοὐναντίον ἐποίησεν.

«Il rovesciamento è un cambiamento deelle azioni compiute nel contrario, come si è detto, e questo, come diciamo, secondo verosimiglianza e necessità, come nell’Edipo quello giunto a rallegrare Edipo e ad allontanarlo dalla paura per la madre, chiarendo chi era, ha prodotto il contrario».

[…]

ἀναγνώρισις δέ, ὥσπερ καὶ τοὔνομα σημαίνει, ἐξ ἀγνοίας εἰς γνῶσιν μεταβολή […] καλλίστη δὲ ἀναγνώρισις, ὅταν ἅμα περιπετείᾳ γένηται, οἷον ἔχει ἡ ἐν τῷ Οἰδίποδι.

«Il riconoscimento invece, come anche la parola significa, è un cambiamento dall’ignoranza alla conoscenza […] e il riconoscimento più bello è qualora avvenga insieme al rovesciamento, come è quello nell’Edipo».

Aristotele, Poetica – 4

 

1450a

le parti qualitative

ἔστιν δὲ τῆς μὲν πράξεως ὁ μῦθος ἡ μίμησις, λέγω γὰρ μῦθον τοῦτον τὴν σύνθεσιν τῶν πραγμάτων.

«Il racconto è l’imitazione dell’azione, dico infatti racconto questo, la composizione dei fatti».

[…]

ἀνάγκη οὖν πάσης τῆς τραγῳδίας μέρη εἶναι ἕξ, καθ’ ὃ ποιά τις ἐστὶν ἡ τραγῳδία· ταῦτα δ’ ἐστὶ μῦθος καὶ ἤθη καὶ λέξις καὶ διάνοια καὶ ὄψις καὶ μελοποιία.

«Dunque è necessario che di tutta la tragedia le parti siano sei, secondo cui la tragedia è di una certa qualità: queste sono racconto e caratteri e linguaggio e pensiero e vista e composizione musicale».

[…]

μέγιστον δὲ τούτων ἐστὶν ἡ τῶν πραγμάτων σύστασις. ἡ γὰρ τραγῳδία μίμησίς ἐστιν οὐκ ἀνθρώπων ἀλλὰ πράξεων καὶ βίου.

«La più importante di queste parti è la composizione dei fatti. La tragedia infatti è imitazione non di uomini ma di azioni e di vita».

[…]

τὰ μέγιστα οἷς ψυχαγωγεῖ ἡ τραγῳδία τοῦ μύθου μέρη ἐστίν, αἵ τε περιπέτειαι καὶ ἀναγνωρίσεις.

«Gli elementi più importanti con cui la tragedia seduce sono parti del racconto, cioè i rovesciamenti e i riconoscimenti».

[…]

ἀρχὴ μὲν οὖν καὶ οἷον ψυχὴ ὁ μῦθος τῆς τραγῳδίας, δεύτερον δὲ τὰ ἤθη [] 1450b τρίτον δὲ ἡ διάνοια· τοῦτο δέ ἐστιν τὸ λέγειν δύνασθαι τὰ ἐνόντα καὶ τὰ ἁρμόττοντα, ὅπερ ἐπὶ τῶν λόγων τῆς πολιτικῆς καὶ ῥητορικῆς ἔργον ἐστίν· οἱ μὲν γὰρ ἀρχαῖοι πολιτικῶς ἐποίουν λέγοντας, οἱ δὲ νῦν ῥητορικῶς.

«Principio dunque e come anima della tragedia è il racconto, secondo i caratteri […] terzo il pensiero; questo è la capacità di dire cose pertinenti e convenienti, cosa che appunto è il compito della politica e della retorica sui discorsi; infatti gli antichi riproducevano personaggi che parlavano politicamente, i moderni retoricamente».

[…]

ἡ δὲ ὄψις ψυχαγωγικὸν μέν, ἀτεχνότατον δὲ καὶ ἥκιστα οἰκεῖον τῆς ποιητικῆς· ἡ γὰρ τῆς τραγῳδίας δύναμις καὶ ἄνευ ἀγῶνος καὶ ὑποκριτῶν ἔστιν.

«La vista è seducente, ma estranea alla tecnica e minimamente propria della poetica: la potenza infatti della tragedia c’è anche senza gara e attori».

6000


Oggi ho superato le 6000 visualizzazioni. Sono contento.

Aristotele, Poetica – 3

 

1449a-b

Ἡ δὲ κωμῳδία ἐστὶν ὥσπερ εἴπομεν μίμησις φαυλοτέρων μέν, οὐ μέντοι κατὰ πᾶσαν κακίαν, ἀλλὰ τοῦ αἰσχροῦ ἐστι τὸ γελοῖον μόριον. τὸ γὰρ γελοῖόν ἐστιν ἁμάρτημά τι καὶ αἶσχος ἀνώδυνον καὶ οὐ φθαρτικόν, οἷον εὐθὺς τὸ γελοῖον πρόσωπον αἰσχρόν τι καὶ διεστραμμένον ἄνευ ὀδύνης. αἱ μὲν οὖν τῆς τραγῳδίας μεταβάσεις καὶ δι' ὧν ἐγένοντο οὐ λελήθασιν, ἡ δὲ κωμῳδία διὰ τὸ μὴ [1449b] σπουδάζεσθαι ἐξ ἀρχῆς ἔλαθεν· καὶ γὰρ χορὸν κωμῳδῶν ὀψέ ποτε ὁ ἄρχων ἔδωκεν

«La commedia è come abbiamo detto imitazione di persone peggiori, certo non secondo ogni vizio, ma del brutto è parte il ridicolo. Infatti il ridicolo è un errore e una bruttezza indolore e non dannosa, proprio come la maschera ridicola è un qualcosa di brutto e stravolto senza sofferenza. Dunque le trasformazioni della tragedia e le circostanze attraverso cui avvennero non ci sfuggono, mentre la commedia ci sfugge per il fatto di non essere tenuta da principio in seria considerazione; e in fatti l’arconte concesse il coro comico solo tardi1».

ἡ μὲν οὖν ἐποποιία τῇ τραγῳδίᾳ μέχρι μὲν τοῦ μετὰ μέτρου λόγῳ μίμησις εἶναι σπουδαίων ἠκολούθησεν· τῷ δὲ τὸ μέτρον ἁπλοῦν ἔχειν καὶ ἀπαγγελίαν εἶναι, ταύτῃ διαφέρουσιν· ἔτι δὲ τῷ μήκει· ἡ μὲν ὅτι μάλιστα πειρᾶται ὑπὸ μίαν περίοδον ἡλίου εἶναι ἢ μικρὸν ἐξαλλάττειν, ἡ δὲ ἐποποιία ἀόριστος τῷ χρόνῳ καὶ τούτῳ διαφέρει

«Dunque l’epica segue la tragedia fino a essere imitazione in versi con la parola di persone serie; in questo invece differiscono, cioè nell’avere semplicemente un verso e nell’essere una narrazione; e ancora per la lunghezza: una infatti cerca di essere compresa in un solo giro di sole o di scostarsene di poco, mentre l’epica è indeterminata nel tempo e in questo diferisce2».

Περὶ μὲν οὖν τῆς ἐν ἑξαμέτροις μιμητικῆς καὶ περὶ κωμῳδίας ὕστερον ἐροῦμεν· περὶ δὲ τραγῳδίας λέγωμεν ἀναλαβόντες αὐτῆς ἐκ τῶν εἰρημένων τὸν γινόμενον ὅρον τῆς οὐσίας. ἔστιν οὖν τραγῳδία μίμησις πράξεως σπουδαίας καὶ τελείας μέγεθος ἐχούσης, ἡδυσμένῳ λόγῳ χωρὶς ἑκάστῳ τῶν εἰδῶν ἐν τοῖς μορίοις, δρώντων καὶ οὐ δι' ἀπαγγελίας, δι' ἐλέου καὶ φόβου περαίνουσα τὴν τῶν τοιούτων παθημάτων κάθαρσιν.

«Riguardo all’arte imitativa in esametri e alla commedia diremo in seguito; parliamo invece riguardo alla tragedia ricavandone dalle cose dette la definizione dell’essenza. È dunque la tragedia imitazione di un’azione seria e compiuta avente una certa grandezza, con parola ornata separatamente per ciascuno degli aspetti nelle sue parti, di persone che agiscono e non mediante la narrazione, che attraverso pietà e paura porta a compimento la purificazione3 di siffatte passioni».


1 Furono rappresentate commedie per la prima volta alle Grandi Dionisie nel 486-5 a.C., mentre queste feste in onore di Dioniso furono istituite come cornice delle tragedie nel 535 a.C. da Pisistrato.

2 Un po’ più avanti però (1459a) pone un limite a tale indeterminatezza, almeno per Omero che risulta superiore a tutti gli altri τῷ μηδὲ τὸν πόλεμον καίπερ ἔχοντα ἀρχὴν καὶ τέλος ἐπιχειρῆσαι ποιεῖν ὅλον· λίαν γὰρ ἂν μέγας καὶ οὐκ εὐσύνοπτος ἔμελλεν ἔσεσθαι ὁ μῦθος, ἢ τῷ μεγέθει μετριάζοντα καταπεπλεγμένον τῇ ποικιλίᾳ. νῦν δ' ἓν μέρος ἀπολαβὼν ἐπεισοδίοις κέχρηται αὐτῶν πολλοῖς, «per non avere tentato di rappresentare la guerra tutta intera, anche se un principio e una fine; infatti il racconto avrebbe dovuto essere troppo lungo e difficile da abbracciare con un solo sguardo, oppure anche se misurato nella lunghezza, complicato per la varietà. Ora invece estrapolata una parte si è avvalso di molti episodi».

3 Cfr. Shakespeare, Amleto, II, 2, 566-570: I have heard / that guilty creatures, sitting at a play, / have, by the very cunning of the scene, / been struck so to the soul that presently / they have proclaim’d their malefactions.
Diversamente Nietzsche (L’anticristo, Maledizione del cristianesimo, 7): «Schopenhauer era ostile alla vita: per questo la compassione divenne per lui la virtù... Aristotele, come è noto, vide nella compassione uno stato morboso e pericoloso, che si farebbe bene ad aggredire qua e là con un rimedio purgativo: concepì la tragedia come purga».

Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2025 – vv. 1-22

 Scena

Fuori dalla reggia sulla Cadmea, l’acropoli di Tebe. Sul palcoscenico c’è un sepolcro dalle cui vicinanze si leva del fumo (v. 6); oltre il recinto che la circonda grappoli di vite (vv. 11 sq.). La facciata del palazzo, che fa da scenografia sul fondo del palco, è in stile dorico, con colonne che sorreggono una trabeazione (vv. 591, 1214).


Prologo – vv. 1-63

Come la maggior parte delle tragedie di Euripide, le Baccanti si aprono con un monologo1 (laddove Sofocle predilige un dialogo2). Qui come altrove uno degli scopi del monologo è di collocare l’azione nel contesto della tradizione leggendaria, fornendo le coordinate spazio-temporali, un sommario degli eventi che che la precedono e i rapporti tra i personaggi principali. La tecnica non è tipica di Euripide: i discorsi di apertura delle Trachinie e del Filottete (del 409 a.C.) hanno una funzione simile. Però in mano a Euripide si è irrigidita in qualcosa di simile a una convenzione scenica3, nella quale la rilevanza drammatica è deliberatamente subordinata all’esigenza di una rapida e lucida esposizione di τὰ ἔξω τοῦ δράματος, i fatti esterni all’azione: si tratta del «problemino di aritmetica» di cui parla, sarcasticamente, Nietzsche nella Nascita della tragedia in relazione al «socratismo estetico» (cap. 12 passim):

Potremo ormai avvicinarci allessenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un di presso: “Tutto deve essere razionale per essere bello”, come proposizione parallela al principio socratico: “solo chi sa è virtuoso” […] Come esempio della produttività di quel metodo razionalistico ci può servire il prologo euripideo [] Per Euripide [] leffetto della tragedia era basato [] su quelle grandi scene retorico-liriche, in cui la passione e la dialettica del protagonista si gonfiavano in un fiume largo e potente. La tragedia eschileo-sofoclea impiegava i mezzi artistici più ingegnosi per dare come per caso in mano allo spettatore, nelle prime scene, tutti i fili necessari alla comprensione [] Euripide credette di notare che, durante quelle prime scene, lo spettatore era in particolare agitazione per risolvere il problemino di aritmetica dellantefatto, sicché le bellezze artistiche e il pathos dellesposizione andavano per lui perduti. Perciò pose il prologo [] in bocca a un personaggio in cui si potesse aver fiducia: spesso una divinità doveva [] togliere ogni dubbio sulla realtà del mito [] Della stessa veridicità divina Euripide ha bisogno a chiusura del suo dramma, per assicurare il pubblico circa lavvenire dei suoi eroi: è questo il compito del famigerato deus ex machina [] Così Euripide è come poeta soprattutto leco delle sue cognizioni coscienti [] Egli deve aver avuto spesso limpressione come di dover far vivere per il dramma linizio dello scritto di Anassagora [] al principio tutto era mescolato, poi venne lintelletto e creò ordine”. E se col suo nus Anassagora apparve tra i filosofi come il primo sobrio fra individui tutti ebbri, anche Euripide può aver concepito con unimmagine simile il suo rapporto con gli altri poeti della tragedia [] Anche il divino Platone parla per lo più solo ironicamente della facoltà creativa del poeta, quando essa non sia una conoscenza consapevole, e la parifica alla dote dellindovino e dellinterprete di sogni [] Euripide si accinse a mostrar al mondo [] lopposto del poeta “irragionevole”; il suo principio estetico “tutto deve essere cosciente per essere bello” è la proposizione parallela al precetto socratico «tutto deve essere cosciente per essere buono”. Per conseguenza Euripide può essere considerato come il poeta del socratismo estetico. Ma Socrate era quel secondo spettatore che non capiva la tragedia antica e perciò non l'apprezzava; in lega con lui Euripide osò essere laraldo di una nuova creazione artistica. Se a causa di essa la tragedia antica perì, il principio micidiale fu dunque il socratismo estetico [] Riconosciamo in Socrate lavversario di Dioniso [] e, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio.

L’essenza del socratismo di cui parla Nietzsche si può rintracciare nel Protagora: καὶ γὰρ ὑμεῖς ὡμολογήκατε ἐπιστήμης ἐνδείᾳ ἐξαμαρτάνειν περὶ τὴν τῶν ἡδονῶν αἵρεσιν καὶ λυπῶν τοὺς ἐξαμαρτάνονταςταῦτα δέ ἐστιν ἀγαθά τε καὶ κακά –, «anche voi infatti siete d'accordo che per mancanza di scienza sbagliano coloro che sbagliano riguardo alla scelta dei piaceri e dei dolori – questi sono i beni e i mali –» (357d); ἐπί γε τὰ κακὰ οὐδεὶς ἑκὼν ἔρχεται οὐδὲ ἐπὶ ἃ οἴεται κακὰ εἶναι, «nessuno va volontariamente verso i mali, nemmeno verso quelli che crede siano mali» (358d).

Sia nel tono sia nella sostanza questo prologo richiama quello di Afrodite nell’Ippolito (del 429 a.C.): entrambe aprono con un’energica affermazione della divinità di chi parla (qui: Ἥκω Διὸς παῖς, «Sono giunto, figlio di Zeus», v. 1; nell’Ippolito: Πολλὴ μὲν ἐν βροτοῖσι κοὐκ ἀνώνυμος / θεὰ κέκλημαι Κύπρις, «Una dea potente tra i mortali e non priva di gloria, / sono chiamata Cipride», vv. 1-2), mostrano come questa divinità sia disprezzata e annunciano un disegno per ottenere vendetta. Tuttavia Dioniso differisce da Afrodite e dagli altri θεοὶ προλογίζοντες, «gli dèi che recitano il prologo» familiari al pubblico di Euripide, nel fatto che egli non scomparirà dall’azione una volta consegnato il suo sinistro messaggio, ma vi si unirà senza essere riconosciuto, in forma umana, insieme agli attori nel dramma umano. Questo punto doveva essere ben chiaro a ciascun membro del pubblico: per questo viene detto non una sola volta, ma tre (vv. 4, 53, 54).

ΔΙΟΝΥΣΟΣ

Ἥκω Διὸς παῖς τήνδε Θηβαίαν χθόνα

Διόνυσος, ὃν τίκτει ποθ' ἡ Κάδμου κόρη

Σεμέλη λοχευθεῖσ' ἀστραπηφόρῳ πυρί·4

μορφὴν δ' ἀμείψας ἐκ θεοῦ βροτησίαν

πάρειμι Δίρκης νάμαθ' Ἱσμηνοῦ θ' ὕδωρ5.        5

ὁρῶ δὲ μητρὸς μνῆμα τῆς κεραυνίας6

τόδ' ἐγγὺς οἴκων καὶ δόμων ἐρείπια

τυφόμενα Δίου πυρὸς ἔτι ζῶσαν φλόγα,

ἀθάνατον Ἥρας μητέρ' εἰς ἐμὴν ὕβριν.

αἰνῶ δὲ Κάδμον, ἄβατον ὃς πέδον τόδε        10

τίθησι, θυγατρὸς σηκόν· ἀμπέλου δέ νιν

πέριξ ἐγὼ 'κάλυψα βοτρυώδει χλόῃ.

λιπὼν δὲ Λυδῶν τοὺς πολυχρύσους γύας7

Φρυγῶν τε, Περσῶν ἡλιοβλήτους πλάκας

Βάκτριά τε τείχη τήν τε δύσχιμον χθόνα        15

Μήδων ἐπελθὼν Ἀραβίαν τ' εὐδαίμονα

Ἀσίαν τε πᾶσαν ἣ παρ' ἁλμυρὰν ἅλα

κεῖται μιγάσιν Ἕλλησι βαρβάροις θ' ὁμοῦ

πλήρεις ἔχουσα καλλιπυργώτους πόλεις,

ἐς τήνδε πρώτην ἦλθον Ἑλλήνων πόλιν,        20

κἀκεῖ χορεύσας καὶ καταστήσας ἐμὰς

τελετάς, ἵν' εἴην ἐμφανὴς δαίμων βροτοῖς.


1 Alcesti (Apollo), Medea (la nutrice), Ippolito (Afrodite), Eraclidi Iolao), Supplici (Etra), Andromaca (Andromaca), Ecuba (fantasma di Polidoro), Elettra (il contadino), Eracle, (Anfitrione), Ione (Hermes), Troiane (Poseidone), Ifigenia in Tauride (Ifigenia), Elena (Elena), Fenicie (Giocasta), Oreste (Elettra) e Baccanti. Fa eccezione l’Ifigenia in Aulide.

2 Così Aiace, Antigone, Elettra, Edipo re, Edipo a Colono.

3 Aristofane nelle Rane (del 405 a.C.) al v. 946 dimostra che come tale era percepita ormai: ἀλλ᾽ οὑξιὼν πρώτιστα μέν μοι τὸ γένος εἶπ᾽ ἂν εὐθὺς / τοῦ δράματος, «ma quello che entrava all'inizio per me soleva dire subito l’origine / del dramma». Sono parole del personaggio Euripide.

4 1-3: «Sono giunto, figlio di Zeus, a questa terra tebana, / Dioniso, che un giorno la figlia di Cadmo genera, / Semele fatta partorire dal fuoco della folgore;».

1 – Ἥκω: «sono giunto», una parola prediletta per unapparizione soprannaturale. Cfr. Ecuba (vv. 1.2, il fantasma): Ἥκω νεκρῶν κευθμῶνα καὶ σκότου πύλας / λιπών, «Sono giunto, avendo lasciato i recessi dei morti / e le porte delle tenebre»; Troiane (vv. 1-2, Poseidone): Ἥκω λιπὼν Αἴγαιον ἁλμυρὸν βάθος / πόντου Ποσειδῶν, «Sono giunto, io Poseidone, avendo lasciato la salsa / profondità Egea del mare»; Ione (v. 5, Hermes): ἥκω δὲ Δελφῶν τήνδε γῆν, «sono giunto a questa terra di Delfi»; ma anche Prometeo incatenato (vv. 284-85, Oceano): ἥκω δολιχῆς τέρμα κελεύθου / διαμειψάμενος πρὸς σέ, Προμηθεῦ, «Sono giunto, dopo aver varcato il termine di un lungo / percorso, da te, Prometeo». Διὸς παῖς Διόνυσος: «figlio di Zeus … Dioniso», l’imperiosa affermazione della sua personalità divina risuona come una sfida e una minaccia. Cfr. vv. 27 Διόνυσον Διός, 550 ὦ Διὸς παῖ, 859-860 τὸν Διὸς Διόνυσον. Euripide sembra connettere i due nomi etimologicamente prendendo Διόνυσος come «figlio di Zeus».

3 – La storia del parto di Semele viene raccontata nella parodo ai versi 89 sqq.

5 4-5: « dopo aver preso in cambio, da dio, forma mortale / eccomi alle sorgenti di Dirce e all’acqua dell’Ismeno».

5 – πάρειμι = adsum, «eccomi». Dirce e Ismeno sono fiumi di Tebe, la διπόταμος πολις, «la città dai due fiumi» (Euripide, Supplici, 621).

6 6-12: « Ma vedo il sepolcro della madre colpita dal fulmine/ qui vicino alla reggia e le rovine del palazzo / fumanti della fiamma viva ancora del fuoco di Zeus, / immortale oltraggio di Era a mia madre. / Approvo Cadmo, che rende questo suolo / inaccessibile, sacro recinto della figlia; io l’ho coperto / tutto intorno con fronde di vite rigogliose di grappoli».

Ogni luogo (o persona) colpito da un fulmine era sentito nell’antichità come speciale, un punto in cui il mondo naturale è stato toccato da quello soprannaturale. Proprio come Capaneo divenne ἱερὸς νεκρός, «sacro cadavere» quando il fulmine lo uccise, e dovette essere sepolto in un luogo separato (cfr. Euripide, Supplici, vv. 934-936 dove parlano Teseo e Adrasto: Θη. τὸν μὲν Διὸς πληγέντα Καπανέα πυρὶ / Αδ. ἦ χωρὶς ἱερὸν ὡς νεκρὸν θάψαι θέλεις; / Θη. ναί· τοὺς δέ γ' ἄλλους πάντας ἐν μιᾳ πυρᾳ, «Te. Capaneo colpito dal fuoco di Zeus… / Ad. Vuoi seppellirlo a parte, in quanto sacro cadavere? / Te. Sì: e tutti gli altri in una sola pira»), così il punto della terra che il fulmine a marchiato come suo proprio diventa in Grecia un ἐνηλύσιον, «luogo proibito», in Italia un bidental, cioè un monumento, inaugurato col sacrificio di una pecora bidens, in un luogo colpito dal fulmine, ed è considerato tabù, ἄβατον (v. 10). Questi luoghi erano dedicati a Ζεὺς καταιβάτης, «Zeus che scende» e ad essi erano offerti sacrifici. Un ἄβατον di questo genere esisteva a Tebe ai tempi di Euripide e anche dopo per molto tempo (come ci dice Pausania, 9, 12, 3), ed era mostrato ai turisti come tale ancora nel II secolo d.C.. Euripide evidentemente aveva una certa conoscenza del culto tebano e dei luoghi di culto.

Semele figura come la moglie tebana di Zeus e madre di Dioniso nello strato più tardo della tradizione epica (Iliade, XIV, vv. 323 sqq., Esiodo, Teogonia, vv. 940 sqq.). Esiodo ci dice che partorì Dioniso ἀθάνατον θνητή· νῦν δ' ἀμφότεροι θεοί εἰσιν, «lui mortale ella mortale; ora entrambi sono dèi». Ciò inverte lo svolgimento storico dei fatti. È probabile che fosse una divinità anatolica della terra e quando le leggende di Dioniso si innestarono nella tradizione tebana ella diventò una principessa mortale; ma è come dea della terra che diventò Sposa della Folgore: nell’Europa meridionale il temporale e benefico così come terribile – il fulmine distrugge, ma la pioggia anima il seme nella terra, sicché Semele muore e Dioniso nasce. Però Semele non può restare morta. Nelle Baccanti, sebbene sia mortale, ha un posto nel culto di suo figlio: vedi v. 998, dove il coro biasima Penteo che vuole contrastare <σά> βάκχι’ ὄργια ματρός τε σᾶς, «i riti bacchici tuoi e di tua madre».

11 – θυγατρὸς σηκόν: «sacro recinto della figlia». Il senso della famiglia è caratteristico di Cadmo (cfr. v. 181: δεῖ γάρ νιν ὄντα παῖδα θυγατρὸς ἐξ ἐμῆς, «bisogna infatti che lui essendo figlio di mia figlia»; 334 n.). La vite segnala il punto come un posto sacro a Dioniso.

7 13-22: « Dopo aver lasciato le terre ricche d’oro dei Lidi / e dei Frigi, e aver percorso le alte pianure dei Persiani / battute dal sole e le mura Battriane e la terra dal duro / inverno dei Medi e l’Arabia felice / e tutta l’Asia che lungo il salso mare / giace con le città dalle belle torri piene / di Greci e barbari mescolati insi eme, / a questa città di Greci per prima giunsi, / avendo incitato anche là alla danza sacra e istituito i miei / misteri, per essere ai mortali un dio evidente».

13 – λιπὼν: introduce regolarmente il punto di partenza di un viaggio (cfr. v. 661), e il punto di partenza di Dioniso erano Frigia e Lidia (vv. 55, 86, 234, 462sqq., cfr, Introduzione, I, ii). πολυχρύσους: fa riferimento alla proverbiale prosperità della Lidia, in particolare alla polvere d’oro trovata nelle sabbie del Pactolo. Cfr. Archiloco, fr. 19 W οὔ μοι τὰ Γ´γεω τοῦ πολιχρύσου μέλει, «non mi interessa la condizione di Gige dal molto oro».

14 – πλάκας: la Persia è un paese alto, come dovevano sapere i Greci del V secolo.

16 – Ἀραβίαν τ' εὐδαίμονα: l’epiteto è esornativo, come gli altri. Erodoto vide il greco Dioniso nell’arabo Orotalt (III, 8: Ὀνομάζουσι δὲ τὸν μὲν Διόνυσον Ὀροτάλτ, «chiamano Dioniso Orotalt»).

17 – Ἀσίαν: nel senso ristretto dell’Asia Minore occidentale. Euripide la rappresenta come già colonizzata dai Greci ai tempi di Cadmo; la tragedia è generalmente indifferente a quasta sorta di anacronismi.

20-22 – Dioniso spiega perché è giunto così tardi a Tebe, sua città natale: la sua missione è rivolta a tutta l’umanità e ha cominciato tra i βάρβαροι passando poi alla popolazione mista della costa asiatica e infine a tutta la Grecia.

Post in evidenza

DIONISO E AFRODITE: Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2025 – 1° episodio: vv. 298-301 (aggiornamento)

  μάντις δ '  ὁ δαίμων ὅδε· τὸ γὰρ βακχεύσιμον καὶ τὸ μανιῶδες μαντικὴν πολλὴν ἔχει· ὅταν γὰρ ὁ θεὸς ἐς τὸ σῶμ '  ἔλθῃ πολύς,       ...