Perché Euripide, infaticabile innovatore e sperimentatore come era sempre stato, lascia come ultima eredità ai suoi compatrioti questo prodigio di dramma, attuale ancorché profondamente tradizionale, “vecchio stampo” sia per stile e struttura, sia negli eventi che rappresentava, ancorché carico di una inquietante tensione emotiva? Aveva egli qualche lezione che desiderava impartire loro? La maggior parte dei suoi sedicenti interpreti hanno pensato così, sebbene non siano riusciti ad accordarsi sulla natura di tale lezione. Siccome il dramma mette in mostra la potenza di Dioniso e il terribile fato di coloro che gli si oppongono, la prima spiegazione che si è presentata agli studiosi fu che il poeta avesse avuto (o ritenuto opportuno simulare) una conversione in punto di morte: le Baccanti erano una “palinodia”, una ritrattazione di quell’ “ateismo”, di cui Aristofane aveva accusato il suo autore (Tesmoforiazuse, 450 sq.)1; erano state scritte per difendere Euripide dall’accusa di empietà che presto avrebbe sopraffatto il suo amico Socrate (Tyrwhitt, Schoene), o “per giustificarlo con il pubblico su questioni nelle quali era stato frainteso” (Sandys), o a partire da una genuina convinzione “che la religione non dovesse essere esposta alle sottigliezze del ragionamento” (K. O. Müller), in quanto “egli non aveva trovato nessuna soddisfazione nel suo non credere” (Paley).
1 [N.d.T.] νῦν δ' οὗτος ἐν ταῖσιν τραγῳδίαις ποιῶν / τοὺς ἄνδρας ἀναπέπεικεν οὐκ εἶναι θεούς, «ora questo scrivendo versi nelle tragedie / ha persuaso gli uomini che non esistono dèi».
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