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Il suo metodo prediletto è assumere un punto di vista unilaterale, una nobile mezza verità, per mostrare la sua nobiltà, e poi mostrare il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci – perché essa è dopo tutto solo una parte della verità1. E’ così che egli ci mostra nell’Ippolito la bellezza e la limitata insufficienza dell’ideale ascetico, nell’Eracle lo splendore della forza fisica e del coraggio e il suo precipitare in megalomania e rovina; è così che nei suoi drammi di vendetta – Medea, Ecuba, Elettra – la simpatia dello spettatore prima è rivolta al vendicatore e poi indotta ad estendersi alle sue vittime. Le Baccanti sono costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito il gioioso scoppio di vitalità che l’esperienza dionisiaca comporta, né attenuato l’orrore ferino del menadismo “nero”; deliberatamente egli guida il suo pubblico attraverso l’intera gamma delle emozioni, dalla simpatia per il dio perseguitato, attraverso l’eccitazione dei prodigi del palazzo e la macabra tragicommedia della scena del la toilette, a condividere, alla fine, la reazione di Cadmo contro quella giustizia inumana. E’ un errore chiedersi che cosa egli stia tentando di “dimostrare”: il suo proposito in questo, come in tutti i suoi più grandi drammi, non è di dimostrare qualcosa, ma di ampliare la nostra sensibilità – che è, come il Dr. Johnson diceva, il proposito proprio di un poeta.
1 Cfr. Murray, Euripides and his age, 187.
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