Se questo, o qualcosa di simile, è il pensiero che sta alla base della tragedia, segue che il goffo interrogativo posto dai critici del diciannovesimo secolo – Euripide era ‘per’ Dioniso o ‘contro’ di lui? – non ammette nessuna risposta in questi termini. Di per sé, Dioniso è al di là del bene e del male; per noi, come dice Tiresia (vv. 314-318)1, egli è ciò che noi facciamo di lui. L’interrogativo del diciannovesimo secolo poggiava di fatto sulla supposizione, comune alla scuola razionalista e ai suoi oppositori, e ancora troppo spesso posta, che Euripide fosse, come alcuni dei suoi critici, più interessato alla propaganda che ai compiti propri del drammaturgo. Questa supposizione la ritengo falsa. Ciò che è vero è che in molti dei suoi drammi egli cercò di infondere nuova vita nei miti tradizionali, riempiendoli di un contenuto nuovo e contemporaneo – riconoscendo negli eroi di antiche storie i corrispondenti di tipi del quinto secolo e riformulando situazioni del mito nei termini dei conflitti del quinto secolo. Come abbiamo visto, qualcosa del genere può essere stato il proposito nelle Baccanti. Ma nelle sue migliori tragedie Euripide usò questi conflitti non per fare propaganda, bensì come un drammaturgo dovrebbe fare, per ricavare la tragedia dalla loro tensione. Non ci fu mai uno scrittore che più palesemente mancò della fede di un propagandista per soluzioni facili e totali.
1 [N.d.T.] οὐχ ὁ Διόνυσος σωφρονεῖν ἀναγκάσει / γυναῖκας ἐς τὴν Κύπριν, ἀλλ' ἐν τῇ φύσει / [τὸ σωφρονεῖν ἔνεστιν εἰς τὰ πάντ' ἀεί] / τοῦτο σκοπεῖν χρή· καὶ γὰρ ἐν βακχεύμασιν / οὖσ’ ἥ γε σώφρων οὐ διαφθαρήσεται, «Non sarà Dioniso a costringere le donne / a essere caste nei confronti di Cipride, ma nell’indole / [risiede l’essere casti sempre in tutte le circostanze] / questo bisogna considerare; infatti anche se è / nei baccanali quella casta non si corromperà».
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