Χο. τῆς δυσσεβείας. ὦ ξέν', οὐκ αἰδῇ θεοὺς
Κάδμον τε τὸν σπείραντα γηγενῆ στάχυν,
Ἐχίονος δ' ὢν παῖς καταισχυνεῖς γένος; 265
Τε. ὅταν λάβῃ τις τῶν λόγων ἀνὴρ σοφὸς
καλὰς ἀφορμάς, οὐ μέγ' ἔργον εὖ λέγειν·
σὺ δ' εὔτροχον μὲν γλῶσσαν ὡς φρονῶν ἔχεις,
ἐν τοῖς λόγοισι δ' οὐκ ἔνεισί σοι φρένες.
θράσει δὲ δυνατὸς καὶ λέγειν οἷός τ' ἀνὴρ 270
κακὸς πολίτης γίγνεται νοῦν οὐκ ἔχων.1
1 263-271: «Co. Che empietà! O straniero, tu non hai rispetto degli dèi / né di Cadmo, colui che seminò la spiga nata dalla terra, / ma essendo figlio di Echione infami la stirpe. / Ti. Quando un uomo sapiente nei discorsi coglie / buoni inizi, non è una grande impresa parlare bene; / tu hai una lingua svelta, come se fossi assennato, / però nelle tue parole non c’è senno. / E un uomo forte per audacia e capace di parlare / risulta un cittadino cattivo se non ha intelletto».
263 – τῆς δυσσεβείας: genitivo esclamativo.
264 – γηγενῆ στάχυν: si riferisce agli sparti. – τὸν σπείραντα: participio aoristo 1° asigmatico, sostantivato, di σπείρω, «semino»– γηγενῆ: aggettivo composto da γῆ «terra» e γίγνομαι «nasco».
266-271 – Il discorso di Tiresia ha una struttura più formale rispetto a quello di Penteo, il quale era trascinato dall’ira. Conformemente alla prassi oratoria dei Greci si sviluppa a partire da un προοίμιον o proemio (vv. 266-271), prosegue con una serie di πίστεις o argomentazioni e si conclude con un ἐπίλογος o peroratio (vv. 319-27). Il προοίμιον è del tipo di quelli prediletti dagli oratori – una denuncia dell’abuso delle abilità tecniche da parte dell’oratore avversario. Dodds ritiene che questo discorso non abbia un carattere puramente convenzionale: Euripide riflette ripetutamente sul male prodotto dall’arte della persuasione (πειθώ) quando viene esercitata da uomini senza scrupoli e qui sembra voler impartire una lezione che vorrebbe che il suo pubblico facesse propria.
Sui ripetuti attacchi ai demagoghi cfr. Medea, 580-583: ἐμοὶ γὰρ ὅστις ἄδικος ὢν σοφὸς λέγειν / πέφυκε, πλείστην ζημίαν ὀφλισκάνει· / γλώσσῃ γὰρ αὐχῶν τἄδικ' εὖ περιστελεῖν / τολμᾷ πανουργεῖν· ἔστι δ' οὐκ ἄγαν σοφός, «per me infatti chi essendo ingiusto è abile a parlare / per natura, si merita una grandissima punizione; / vantandosi infatti di coprire per bene con la lingua azioni ingiuste / osa compiere nefandezze; ma non è troppo sapiente» (Medea risponde a Giasone il quale ha concluso il suo discorso dicendo che χρῆν γὰρ ἄλλοθέν ποθεν βροτοὺς / παῖδας τεκνοῦσθαι, θῆλυ δ' οὐκ εἶναι γένος· / χοὔτως ἂν οὐκ ἦν οὐδὲν ἀνθρώποις κακόν, «bisognerebbe che da qualche altra parte / nascessero i figli, e che non esistesse la razza delle femmine: / e così non ci sarebbe nessun male per gli esseri umani», vv. ); Ippolito, 486-489: τοῦτ' ἔσθ' ὃ θνητῶν εὖ πόλεις οἰκουμένας / δόμους τ' ἀπόλλυσ', οἱ καλοὶ λίαν λόγοι· / οὐ γάρ τὰ τοῖσιν ὠσὶ τερπνὰ χρὴ λέγειν / ἀλλ’ ἐξ ὅτου τις εὐκλεὴς γενήσεται, «è questo ciò che rovina le città ben governate dei mortali / e le case, i discorsi troppo belli; / infatti non bisogna dire le cose piacevoli alle orecchie / ma ciò da cui uno si procurerà buona fama» (cfr. Tucidide, I, 22, 4: καὶ ἐς μὲν ἀκρόασιν ἴσως τὸ μὴ μυθῶδες αὐτῶν ἀτερπέστερον φανεῖται· ὅσοι δὲ βουλήσονται τῶν τε γενομένων τὸ σαφὲς σκοπεῖν καὶ τῶν μελλόντων ποτὲ αὖθις κατὰ τὸ ἀνθρώπινον τοιούτων καὶ παραπλησίων ἔσεσθαι, ὠφέλιμα κρίνειν αὐτὰ ἀρκούντως ἕξει. κτῆμά τε ἐς αἰεὶ μᾶλλον ἢ ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα ἀκούειν ξύγκειται, «E forse l’elemento non mitico di esse [le sue storie N.d.T.] apparirà all’ascolto meno piacevole; quanti però vorranno considerare la chiarezza stessa dei fatti accaduti e che sono destinati ad accadere ancora una volta siffatti o simili secondo la natura umana, sarà sufficiente che le giudichino utili. Sono composte come un possesso per sempre piuttosto che come un pezzo da competizione da ascoltare sul momento»); Ecuba, 1187-1194: Ἀγάμεμνον, ἀνθρώποισιν οὐκ ἐχρῆν ποτε / τῶν πραγμάτων τὴν γλῶσσαν ἰσχύειν πλέον· / ἀλλ’ εἴτε χρήστ' ἔδρασε χρήστ' ἔδει λέγειν, / εἴτ’ αὖ πονηρὰ τοὺς λόγους εἶναι σαθρούς, / καὶ μὴ δύνασθαι τἄδικ' εὖ λέγειν ποτέ. / σοφοὶ μὲν οὖν εἰσ' οἱ τάδ' ἠκριβωκότες, / ἀλλ’ οὐ δύνανται διὰ τέλους εἶναι σοφοί, / κακῶς δ' ἀπώλοντ'· οὔτις ἐξήλυξέ πω, «Agamennone, bisognerebbe che per gli uomini mai / la lingua avesse più forza delle azioni compiute; / ma bisognerebbe che uno parlasse bene se ha compiuto azioni buone, / e se ne ha compiute di malvagie che le parole fossero guaste, / e non potesse mistificare le ingiustizie con bei discorsi. / Dunque sono sapienti quelli che hanno elaborato tali sottigliezze, / però non possono essere sapienti completamente, / e finiscono male: nessuno la fa franca, mai»; Fenicie, 526-5227: οὐκ εὖ λέγειν χρὴ μὴ 'πὶ τοῖς ἔργοις καλοῖς, / οὐ γὰρ καλὸν τοῦτ' ἀλλὰ τῇ δίκῃ πικρόν, «non bisogna dire belle parole su azioni non belle, / non è una bella cosa questa ma che ferisce la giustizia» (è la replica del corifeo alle famose parole di Eteocle εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι / κάλλιστον ἀδικεῖν, τἄλλα δ' εὐσεβεῖν χρεών, «infatti se proprio è necessario commettere ingiustizia, per la tirannide / è bellissimo commetterla, per il resto si deve essere pii», vv. 524-525; Cicerone, in De officiis, III, 82, ricorda che questi versi erano molto amati da Cesare: Ipse autem socer in ore semper Graecos versus de Phoenissis habebat, quos dicam ut potero; incondite fortasse sed tamen, ut res possit intellegi: “Nam si violandum est ius, regnandi gratia, / Violandum est; aliis rebus pietatem colas.” Capitalis Eteocles vel potius Euripides, qui id unum quod omnium sceleratissimum fuerit, exceperit, «Lo stesso suocero aveva sempre sulle labbra quei versi greci tratti dalle Fenicie, che dirò come potrò; poco elegantemente forse, ma tuttavia, in modo che si possa comprendere il concetto: “Infatti se bisogna violare il diritto, per regnare / bisogna violarlo; per il resto coltiva la pietà”. Avrebbe meritato la pena capitale Eteocle o piuttosto Euripide, che per quell’unica cosa, la più scellerata di tutte, ha fatto un’eccezione»); Oreste, vv. 907-908: 2, «qualora uno piacevole nelle parole ma male intenzionato / persuada la massa, per la città è un grande male» (poco prima un tale individuo era stato definito θορύβῳ τε πίσυνος κἀμαθεῖ παρρησίᾳ, «uno che confida nella confusione e nella sua ignorante libertà di parola»). Questi esempi li ho letti nel commento di Dodds; quest’ultimo l’ho notato io: nelle Troiane, quando Ecuba viene a sapere di essere stata assegnata a Ulisse, prorompe con questa invettiva (vv. 283-287): μυσαρῷ δολίῳ λέλογχα φωτὶ δουλεύειν, / πολεμίῳ δίκας, παρανόμῳ δάκει, / ὃς πάντα τἀκεῖθεν ἐνθάδε στρέφει, τὰ δ’ / ἀντίπαλ’ αὖθις ἐκεῖσε διπτύχῳ γλώσσᾳ / φίλα τὰ πρότερ’ ἄφιλα τιθέμενος πάντων, «Ho avuto in sorte di essere schiava di un uomo nefando e fraudolento, / nemico di giustizia, una belva senza legge, / che tutto ciò che viene da là lo stravolge qua, / e al contrario di nuovo là con lingua biforcuta / rendendo senza amore le cose di prima amate da tutti»; in effetti Ulisse è nella tragedia l’archetipo mitologico del sofista truffaldino e anche del demagogo, nonché in generale il personaggio prediletto dαi sofisti.
In effetti questo era il pericolo più grande dell’antica come della moderna democrazia. Ciò che Euripide ha in mente qui è suggerito dalla sentenza sul κακὸς πολίτης (v. 271), che è poco appropriata in bocca a chi si sta rivolgendo a un re, e in effetti sembra rivolta a orecchie ateniesi piuttosto che macedoni. Ricordiamo che in Macedonia Euripide era stato ospitato in un regno.
266-267 – τῶν λόγων … καλὰς ἀφορμάς: ἀφορμή/-αί ha come significato di base «ciò da cui si parte» e ha sviluppato una serie di significati tecnici in campi diversi: nel linguaggio militare è la base delle operazioni, in quello commerciale il capitale, nel linguaggio giuridico è l’argomentare dell’avvocato. Euripide ama usare la parola nell’ultima accezione: Ecuba, 1238-1239, τὰ χρηστὰ πράγματα / χρηστῶν ἀφορμὰς ἐνδίδωσ' ἀεὶ λόγων, «le buone azioni / infondono sempre gli spunti di buone parole»; Fenicie, 198-200, φιλόψογον δὲ χρῆμα θηλειῶν ἔφυ, / σμικράς τ' ἀφορμὰς ἢν λάβωσι τῶν λόγων / πλείους ἐπεσφέρουσιν, «maligna è la natura delle femmine, / se colgono piccoli pretesti di chiacchiere / ne aggiungono in più». In tutti questi passi ἀφορμαί si riferisce al fondamento concreto dei fatti, λόγοι alla rappresentazione verbale. È una di quelle parole della prosa per mezzo delle quali Euripide provò ad attualizzare la dizione tragica. – μέγ' ἔργον: un’altra espressione colloquiale; cfr. Platone, Simposio, 187e, μέγα ἔργον ταῖς … ἐπιθυμίαις καλῶς χρῆσθαι, «è un compito importante … usare bene i desideri».
269 – Tiresia sta dicendo che è facile fare un buon discorso se si hanno abilità (σοφία) e solidi argomenti. Penteo ha la lingua svelta del σοφός ma il contenuto dei suoi discorsi è dissennato.
271 – νοῦν οὐκ ἔχων: qui è come se dicesse tu quoque a Penteo dopo che Penteo aveva così schernito i due vecchi al v. 252: ecco perché Tiresia lo dice così categoricamente.
Ottimo commento
RispondiEliminaGrazie, devo molto a Dodds
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