sabato 14 dicembre 2024

Tucidide – I discorsi di Pericle – 2, 2

 

II, 38, 1

Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῇ γνώμῃ ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις [2] τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει.

«Inoltre ci siamo procurati per lo spirito moltissimi sollievi dalle fatiche, facendo uso di gare1 e feste sacre, e di eleganti edifici privati, il cui godimento quotidiano scaccia la pena2».

II, 39, 1

πιστεύοντες οὐ ταῖς παρασκευαῖς τὸ πλέον καὶ ἀπάταις ἢ τῷ ἀφ' ἡμῶν αὐτῶν ἐς τὰ ἔργα εὐψύχῳ·

«siccome confidiamo nei preparativi e nei tranelli non più che nel nostro ardimento verso le azioni».

II, 39, 4

καίτοι εἰ ῥᾳθυμίᾳ μᾶλλον ἢ πόνων μελέτῃ καὶ μὴ μετὰ νόμων τὸ πλέον ἢ τρόπων ἀνδρείας ἐθέλομεν κινδυνεύειν, περιγίγνεται ἡμῖν τοῖς τε μέλλουσιν ἀλγεινοῖς μὴ προκάμνειν.

«Per altro se preferiamo rischiare con noncuranza più che con esercizio alle fatiche e non con le leggi più che con il vigore dei caratteri, ce ne deriva di non abbatterci in anticipo per i dolori futuri3».

II, 40, 1-2

[1] Φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ' εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας· πλούτῳ τε ἔργου μᾶλλον καιρῷ ἢ λόγου κόμπῳ χρώμεθα, καὶ τὸ πένεσθαι οὐχ ὁμολογεῖν τινὶ αἰσχρόν, [2] ἀλλὰ μὴ διαφεύγειν ἔργῳ αἴσχιον. ἔνι τε τοῖς αὐτοῖς οἰκείων ἅμα καὶ πολιτικῶν ἐπιμέλεια, καὶ ἑτέροις πρὸς ἔργα τετραμμένοις τὰ πολιτικὰ μὴ ἐνδεῶς γνῶναι· μόνοι γὰρ τόν τε μηδὲν τῶνδε μετέχοντα οὐκ ἀπράγμονα, ἀλλ' ἀχρεῖον νομίζομεν, καὶ οἱ αὐτοὶ ἤτοι κρίνομέν γε ἢ ἐνθυμούμεθα ὀρθῶς τὰ πράγματα, οὐ τοὺς λόγους τοῖς ἔργοις βλάβην ἡγούμενοι, ἀλλὰ μὴ προδιδαχθῆναι μᾶλλον λόγῳ πρότερον ἢ ἐπὶ ἃ δεῖ ἔργῳ ἐλθεῖν.

«Amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza; usiamo la ricchezza4 più come occasione di agire che come vanteria5 di parole, e essere povero non è una vergogna ammetterlo, ma piuttosto è una vergogna non evitarlo con l’operosità. Nelle medesime persone c’è la cura degli affari privati e insieme di quelli pubblici, e per gli altri che sono rivolti a delle attività è possibile conocere le questioni politiche adeguatamente; noi soli consideriamo chi non partecipa in nulla a questi problemi non pacifico, ma inutile6, e proprio noi giudichiamo o esaminiamo correttamente i fatti, considerando un danno per le azioni non i discorsi, ma se mai non essere istruiti in anticipo con la parola prima cioè di giungere a ciò che si deve compiere con lazione».


1 Sullo spirito agonistico dei Greci riflette così Nietzsche (Umano, troppo umano, II, Parte seconda, Il viandante e la sua ombra): «226. Saggezza dei Greci. Poiché il voler vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni stima e gioia di uguaglianza, lo Stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioè delimitato un'arena dove quell'impulso doveva scaricarsi senza mettere in pericolo l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo Stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna.

2 A questo passo fa riferimento Nietzsche (La nascita della tragedia, Tentativo di autocritica, 4: «Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il suo grado di sensibilità,… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che proprio questo fosse vero e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre – da che cosa discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà di pessimismo nel Greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il terribile, il malvagio, l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all’esistenza, – da che cosa discenderebbe allora la tragedia?».
Sulla festa come tratto distintivo del mondo pagano: Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, trad. it. Mondadori, Milano, 1975, pag. 347: «Bisogna essere molto grossolani per non sentire la presenza di cristiani e di valori cristiani come un’oppressione, sotto la quale ogni vera atmosfera di festa se ne va al diavolo. Nella festa è compreso: orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione animale – tutti stati d’animo a cui il cristiano non può onestamente dire di sì. La festa è paganesimo per eccellenza».
Ancora Nietzsche in Umano, troppo umano, II, Opinioni e sentenze diverse: «187. Il mondo antico e la gioia. Gli uomini del mondo antico sapevano gioire meglio; noi sappiamo rattristarci meno; quelli riuscivano a trovare sempre nuovi motivi di sentirsi bene e di celebrare feste, impegnando tutta la loro ricchezza di acume e di riflessione, mentre noi rivolgiamo il nostro spirito alladempimento di compiti che mirano piuttosto alla liberazione dal dolore, alleliminazione delle cause di dispiacere. Quanto alle sofferenze dellesistenza, gli antichi cercavano di dimenticare, o di piegare in qualche modo il sentimento verso il piacevole; sicché a ciò essi cercavano di ovviare con palliativi, mentre noi affrontiamo le cause del soffrire e nel complesso preferiamo agire in senso profilattico. Forse noi stiamo costruendo solo le fondamenta, su cui uomini futuri costruiranno di nuovo anche il tempio della gioia».

3 Anche Seneca concorda sul fatto di non darsi troppo pensiero dei possibili mali futuri (Epistulae, 13): 5. Quaedam ergo nos magis torquent quam debent, quaedam ante torquent quam debent, quaedam torquent cum omnino non debeant; aut augemus dolorem aut praecipimus aut fingimus7. 'Quomodo' inquis 'intellegam, vana sint an vera quibus angor?' Accipe huius rei regulam: aut praesentibus torquemur aut futuris aut utrisque… 8. plerumque enim suspicionibus laboramus, et illudit nobis illa quae conficere bellum solet fama, multo autem magis singulos conficit, «5. Certe cose dunque ci tormentano più di quanto devono, certe ci tormentano prima di quanto devono, certe altre ci tormentano non dovendo affatto; o accresciamo il dolore o lo anticipiamo o lo inventiamo»… 7. “Come” tu dici “posso capire, se sono vani o veri i motivi per cui sono in ansia?” Ascolta una norma di questa cosa: o siamo tormentati da sofferenze presenti o da quelle future o da entrambe»… 8. Per lo più infatti soffriamo a causa di sospetti, e si prendono gioco di noi quelle fole che sono solite definire una guerra, ma molto di più definiscono gli individui». Infine conclude: 16. 'Inter cetera mala hoc quoque habet stultitia: semper incipit vivere., «16. Tra gli altri mali anche questo ha la stupidità: sempre incomincia a vivere».

4 Cfr. Senofonte, Economico, 1, 10-11; il problema posto è se le ricchezze siano un bene e Socrate risponde a Critobulo facendo la distinzione tra κεκτῆσθαι (possedere) e χρῆσθαι (usare): non basta possedere le ricchezze, bisogna saperle usare, cosa per cui ci vuole ἐπιστήμη (scienza, appunto): Ταὐτὰ ἄρα ὄντα τῷ μὲν ἐπισταμένῳ χρῆσθαι αὐτῶν ἑκάστοις χρήματά ἐστι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐ χρήματα· ὥσπερ γε αὐλοὶ τῷ μὲν ἐπισταμένῳ ἀξίως λόγου αὐλεῖν χρήματά εἰσι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐδὲν μᾶλλον ἢ ἄχρηστοι λίθοι, εἰ μὴ ἀποδιδοῖτό γε αὐτούς. τοῦτ' ἄρα φαίνεται ἡμῖν, ἀποδιδομένοις μὲν οἱ αὐλοὶ χρήματα, μὴ ἀποδιδομένοις δὲ ἀλλὰ κεκτημένοις οὔ, τοῖς μὴ ἐπισταμένοις αὐτοῖς χρῆσθαι. «le medesime cose che sono beni utili per chi sa fare uso di ciascuno di essi, per chi non ne sa fare uso sono beni inutili; come i flauti per chi sa suonarli in modo degno di considerazione sono beni utili, per chi non lo saa fare invece sono niente più che sassi inutili, a meno che non li venda. Questo dunque ci è chiaro: per coloro che non sanno usarli, i flauti sono beni utili se li vendono, ma se li possiedono senza venderli no».

Le ricchezze dunque sono utili solo in relazione all’uso che si è in grado di farne.

Anche Seneca rifletta su tale distinzione (Epistulae, 9, 14): Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est. «Voglio indicarti anche la distinzione di Crisippo. Dice che il sapiente non manca di nessuna cosa, e tuttavia ha bisogno di molte cose: “al contrario lo stolto non ha bisogno di nessuna cosa – infatti non sa usare nessuna cosa – però manca di tutte”. Il sapiente ha bisogno sia di mani sia di occhi sia di molte cose necessarie all’uso quotidiano, non manca di nessuna cosa; mancare di qualcosa infatti è proprio della necessità, niente è necessario per il sapiente».”

5 Cfr. Sofocle, Antigone, 127-128: Ζεὺς γὰρ μεγάλης γλώσσης κόμπους / ὑπερεχθαίρει, «Zeus detesta i vanti di una lingua superba». È la parodo in cui il coro mette in guardia dagli eccessi, aanche verbali.

6 Pochi anni dopo Platone, nella Repubblica (X, 620b), attribuisce una connotazione positiva al disimpegno politico, πόρρω δ᾽ ἐν ὑστάτοις ἰδεῖν τὴν τοῦ γελωτοποιοῦ Θερσίτου πίθηκον ἐνδυομένην. κατὰ τύχην δὲ τὴν Ὀδυσσέως λαχοῦσαν πασῶν ὑστάτην αἱρησομένην ἰέναι, μνήμῃ δὲ τῶν προτέρων πόνων φιλοτιμίας λελωφηκυῖαν ζητεῖν περιιοῦσαν χρόνον πολὺν βίον ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος, καὶ μόγις εὑρεῖν κείμενόν που καὶ παρημελημένον ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ εἰπεῖν ἰδοῦσαν ὅτι τὰ αὐτὰ ἂν ἔπραξεν καὶ πρώτη λαχοῦσα, καὶ ἁσμένην ἑλέσθαι, «L’anima di Ulisse andava a scegliere sorteggiata per case ultima tra tutte, ma per ricordo delle precedenti sofferenze, guarita dallambizione, cercava andando in giro per molto tempo una vita di un uomo privato sfaccendato, e a stento latrovò che giaceva da qualche parte e trascurata dagli altri, e disse vedendola che avrebbe fatto la stessa scelta anche sorteggiata per prima, e la prese contenta». Siamo nell’oltretomba dove le anime devono scegliere la vita in cui si reincarneranno, e lo fanno per lo più influenzate dalla pita precedente.
Qui, forse, nel rovesciare il rapporto tra sfera pubblica e privata, è anticipato quel sentimento di stanchezza post-filosofica di cui parla (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale. Il giocoso in Callimaco, pagg. 371-372): «Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici, mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici. La poesia piú antica tende a scoprire sempre nuovi lati dello spirito, e trova perciò una naturale continuazione nella conquista razionale dei campi che aveva da poco scoperto, cioè nella filosofia e nella scienza. Cosí l'epica ha, coi suoi miti eroici, posto le basi della storiografia jonica e formulando il problema dell'ἀρχή (arché) nei poemi teogonici e cosmologici, ha creato le premesse della filosofia jonica della natura. La lirica porta ad Eraclito, il dramma a Socrate e a Platone. Nel momento in cui sorgeva la poesia ellenistica, declinava la grande epoca d'incessante evoluzione dei sistemi filosofici. Il secolo IV aveva visto nascere le opere di Platone, di Aristotele e di Teofrasto, e alla fine del secolo erano state fondate le due scuole filosofiche piú importanti per i tempi futuri: il Giardino di Epicuro e la Stoa di Zenone. La filosofia aveva dunque raggiunto in Grecia i suoi risultati più alti, quando in un nuovo centro spirituale, in Alessandria d'Egitto, residenza dei Tolomei, si formò una cerchia di poeti, fra cui Teocrito e il piú notevole di tutti, Callimaco, i quali portarono la poesia a una nuova fioritura. Post-filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono piú nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall’universale (cfr. sopra, p. I41) e si rivolgono con amore al particolare».

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