venerdì 13 settembre 2024

Platone, mito della caverna – Introduzione

Illustrazione del mito in un'incisione del 1604
di 
Jan Saenredam.
Introduco il mito della caverna di Platone, che si trova all’inizio del libro VII della Repubblica ( 514a-517e) con il riassunto che ne fa Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione, Libro terzo, § 31); in questo passo il filosofo greco viene accostato a colui che (a detta di Schopenhauer) ha messo un punto fermo nella storia della filosofia, ossia Kant; nei prossimi post vedremo il testo platonico parola per parola constatando quanto sia più semplice delle semplificazioni che se ne possono fare. Leggiamo dunque Schopenhauer, che pure è uno dei filosofi più dotati di chiarezza d’espressione1:

«Quello che dice Kant, in sostanza, è questo: «Tempo, spazio e causalità non sono determinazioni della cosa in sé, bensí appartengono solamente al suo fenomeno, in quanto non sono altro che forme della nostra conoscenza. Ora, dato però che ogni molteplicità e ogni generarsi e perire sono possibili solo grazie a tempo, spazio e causalità, ne segue che anch'essi possono essere attribuiti solo al fenomeno, e in nessun modo alla cosa in sé. Ma poiché la nostra conoscenza è condizionata da tali forme, ne segue che tutta la nostra esperienza è solamente conoscenza del fenomeno, non della cosa in sé, e che quindi le sue leggi non possono essere fatte valere per la cosa in sé. Quanto detto lo possiamo estendere anche al nostro io personale: noi lo conosciamo solo come fenomeno, non per ciò che esso può essere in sé». È questo, dal punto di vista che qui ci interessa maggiormente, il senso e il contenuto della dottrina di Kant. – Platone invece dice: «Le cose di questo mondo, che sono percepite dai nostri sensi, non hanno un vero essere: esse divengono sempre, ma non sono mai: hanno solo un essere relativo, esistono tutte solo nella e per la loro relazione reciproca, sí che tutta quanta la loro esistenza può essere definita altrettanto legittimamente un non-essere. Esse, di conseguenza, non sono neppure oggetti di un'autentica conoscenza (ἑπιστήμη), in quanto si può avere conoscenza solo di ciò che esiste in sé e per sé e sempre nello stesso modo; esse, al contrario, sono solo l'oggetto di una opinione occasionata dalla sensazione (δόξα μετ᾽αἰσθήσεως ἀλόγου). Sino a quando rimaniamo prigionieri della percezione, siamo come degli uomini che siedano in una profonda caverna, legati cosí strettamente da non poter nemmeno volgere il capo, e che non vedano nulla se non, alla luce di un fuoco che arde alle loro spalle, le ombre, proiettate sulla parete che sta loro dinanzi, delle cose reali che vengono fatte passare tra loro stessi e il fuoco; persino di se stesso e dei suoi compagni ciascuno vede solo l'ombra riflessa su quella parete. La sapienza di costoro si ridurrebbe alla pura e semplice previsione dell'ordine, appreso dall'esperienza, in cui quelle ombre si succedono l'una all'altra. Ciò che, al contrario, può essere chiamato un vero essente (ὄντος ὄν), poiché sempre è, ma non diviene mai, né svanisce, sono le cause reali delle figure di quelle ombre: sono le idee eterne, la forma originaria di tutte le cose. Ad esse non compete alcuna molteplicità: ciascuna di esse, infatti, è unica secondo la propria essenza, in quanto ciascuna è il modello originario di cui tutte le cose omonime, singolari, periture della stessa specie sono copie, ombre. Alle idee non compete neppure alcun generarsi e alcun trapassare: esse, infatti, sono veramente, e non sono sottoposte al divenire né periscono, come accade alle loro copie transitorie (in entrambe queste determinazioni negative è comunque necessariamente posta la premessa che tempo, spazio e causalità non abbiano per le idee alcun senso e alcun valore, e che queste ultime non esistano in tali forme). Solo delle idee, perciò, si dà una conoscenza autentica, dato che essa può avere per oggetto solamente ciò che è sempre e sotto ogni rispetto (ossia ciò che è in sé); non ciò che è e che non è, a seconda del punto di vista dal quale lo si considera». – Questa la dottrina di Platone. È evidente, e non c'è bisogno di provarlo ulteriormente, che il senso profondo delle due dottrine è esattamente lo stesso: entrambe ritengono che il mondo visibile sia un'apparenza fenomenica che, in se stessa, è nulla e che ha solo un significato e una realtà presi a prestito da ciò che in essa si esprime (la cosa in sé per Kant, per Platone l’idea)».


 1 Sulla chiarezza come pregio fondamentale si racc:omanda Aristotele (Poetica, 1458a): Λέξεως δὲ ἀρετὴ σαφῆ καὶ μὴ ταπεινὴν εἶναι«Virtù del linguaggio è essere chiaro e non sciatto». Anche Orazio la pensa così: Ars poetica, 448-450: parum claris lucem dare coget, / arguet ambigue dictum, mutanda notabit, / fiet Aristarchus, «Costringerà a dare luce alle espressioni poco chiare, / spiegherà ciò che è stato detto ambiguamente, segnalerà le cose da cambiare, / diventerà un Aristarco» (Il soggetto è colui che ha il compito di criticare con sincerità un lavoro per rilevarne i difetti). Aristotele poi aggiunge (1459a): πολὺ δὲ μέγιστον τὸ μεταφορικὸν εἶναι. μόνον γὰρ τοῦτο οὔτε παρἄλλου ἔστι λαβεῖν εὐφυΐας τε σημεῖόν ἐστι· τὸ γὰρ εὖ μεταφέρειν τὸ τὸ ὅμοιον θεωρεῖν ἐστιν«ma la cosa di gran lunga più importante è essere metaforici. Infatti solo questo non è possibile prenderlo da unaltra parte ed è segno di una natura ben fatta: il fare delle belle metafore infatti è osservare ciò che è simile». E in Reth., ΙΙΙ, 11, 5καὶ ἐν φιλοσοφίᾳ τὸ ὅμοιον καὶ ἐν πολὺ διέχουσι θεωρεῖν εὐστόχου«anche in filosofia osservare ciò che è simile anche nelle cose molto distanti è proprio di una persona perspicace». Il medesimo concetto si trova in Schopenhauer, Parerga e paralipomena II (capitolo ventitreesimo, sul mestiere dello scrittore e sullo stile, 289): «Le similitudini hanno un grande valore, in quanto riconducono un rapporto sconosciuto a uno noto… Inoltre ogni vero intendere consiste in ultima analisi in un afferrare rapporti… non appena ho colto anche soltanto in due casi diversi lo stesso rapporto, io ho un concetto di tutta la sua specie il saperne fare di sorprendenti ma pertinenti è prova di profonda intelligenza».

 

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