venerdì 27 settembre 2024

Leggi scritte/leggi non scritte


 Sul tema leggi scritte/leggi non scritte si esprime Sofocle nell’Antigone: Antigone, sorella di Polinice, contesta la legittimità di tale provvedimento, contrapponendo alle leggi scritte (νόμους … τοὺς προκειμένους, v. 481) rappresentate dalleditto, le leggi scritte e incrollabili degli dei (ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν / νόμιμα, vv. 454-5) che tutelano il legame di sangue e alle quali attribuisce il primato. Il contesto è la spedizione dei sette conto Tebe (raccontata nellomonima tragedia da Eschilo) guidata da Polinice, che vi trova la morte assieme al fratello Eteocle; per Creonte solo questultimo, che era re di Tebe in quel momento, ha diritto agli onori funebri. Siccome Antigone esegue i riti in onore di Polinice, viene condannata a morte, come previsto dalleditto; da questo atto derivano il suicidio di Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone, e quello di Euridice, moglie del re. Solo alla fine, ma comunque troppo tardi, Creonte riconosce che è meglio compiere la vita rispettando le leggi stabilite. Di seguito le parole di Antigone per esteso (vv. 450-457) con cui risponde a Creonte che le chiedeva se sapeva che l’editto vietava di compiere i riti di sepoltura (v. 449 Καὶ δῆτ’ ἐτόλμας τούσδ’ ὑπερβαίνειν νόμους; «Eppure osavi trasgredire queste leggi?»):


Οὐ γάρ τί μοι Ζεὺς ἦν ὁ κηρύξας τάδε,

οὐδ’ ἡ ξύνοικος τῶν κάτω θεῶν Δίκη·

οὐ τούσδ’ ἐν ἀνθρώποισιν ὥρισαν νόμους·

οὐδὲ σθένειν τοσοῦτον ᾠόμην τὰ σὰ

κηρύγμαθ’ ὥστ’ ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν

νόμιμα δύνασθαι θνητὸν ὄνθ’ ὑπερδραμεῖν.

Οὐ γάρ τι νῦν γε κἀχθές, ἀλλ’ ἀεί ποτε

ζῇ ταῦτα, κοὐδεὶς οἶδεν ἐξ ὅτου ’φάνη.

«Infatti non era certo Zeus colui che ha proclamato questo editto, / né Giustizia, quella che convive con gli dèi di sotterra; / non hanno definito queste leggi tra gli uomini; / né pensavo che avessero una forza tanto grande i tuoi / editti da poter trasgredire essendo tu mortale / le leggi non scritte e incrollabili degli dèi. / Non infatti ora né ieri, ma da sempre / vivono queste, e nessuno sa da quando si manifestarono».

 Sofocle dà la preminenza alle leggi non scritte come testimonia anor più chiaramente nell’Edipo re, vv. 863-871:

Εἴ μοι ξυνείη φέροντι μοῖρα τὰν

εὔσεπτον ἁγνείαν λόγων

ἔργων τε πάντων, ὧν νόμοι πρόκεινται

ὑψίποδες, οὐρανίαν

δι αἰθέρα τεκνωθέντες, ὧν Ὄλυμπος

πατὴρ μόνος, οὐδέ νιν

θνατὰ φύσις ἀνέρων

ἔτικτεν, οὐδὲ μήποτε λά-

θα κατακοιμάσῃ·

μέγας ἐν τούτοις θεός, οὐδὲ γηράσκει.

«Che sia con me la sorte di portare / la sacra purezza di parole / e di opere tutte, davanti alle quali sono stabilite leggi / sublimi, generate / attraverso l'etere celeste, delle quali Olimpo è l'unico padre, né le / partorì natura mortale di uomini, / né mai oblio / le addormenterà: / grande in queste il dio, e non invecchia».

 Il tema era di particolare rilevanza nella secona metà del V secolo a.C., l’età dei sofisti, il cosiddetto «illuminismo greco»; lo vediamo riflesso nei dialoghi di Platone1, in particolare Gorgia e Repubblica.

 Callicle è uno dei personaggi del Gorgia e sta discutendo con Socrate se sia meglio infliggere o subire ingiustizia; secondo lui in natura che ciò che è brutto è anche malvagio, come subire ingiustizia, mentre secondo la legge è il contrario. Prosegue dicendo che è meglio morire se, maltrattati e offesi, non si è capaci di aiutare se stessi e gli altri. Quindi formula il concetto secondo cui:

Φύσις αὐτὴ ἀποφαίνει αὐτό, ὅτι δίκαιόν ἐστιν τὸν ἀμείνω τοῦ χείρονος πλέον ἔχειν καὶ τὸν δυνατώτερον τοῦ ἀδυνατωτέρου. δηλοῖ δὲ ταῦτα πολλαχοῦ ὅτι οὕτως ἔχει, καὶ ἐν τοῖς ἄλλοις ζῴοις καὶ τῶν ἀνθρώπων ἐν ὅλαις ταῖς πόλεσι καὶ τοῖς γένεσιν, ὅτι οὕτω τὸ δίκαιον κέκριται, τὸν κρείττω τοῦ ἥττονος ἄρχειν καὶ πλέον ἔχειν. 
«La natura stessa mostra ciò, vale a dire che è giusto che il migliore abbia più del peggiore e il più capace del meno capace. Mastra che queste cose stanno così ovunque, sia tra gli altri animali sia tra gli uomini nelle città intere e nelle famiglie» (483d).

 Le leggi allora sono un prodotto della maggioranza fatta di deboli invidiosi che non icapaci di realizzare le proprie ambizioni, caratteristica invece dei forti (491b) ἀνδρεῖοι, ἱκανοὶ ὄντες ἃ ἂν νοήσωσιν ἐπιτελεῖν, καὶ μὴ ἀποκάμνωσι διὰ μαλακίαν τῆς ψυχῆς, «valorosi, capaci di compiere ciò che pensano, e non si scoraggiano per debolezza d’animo».

(492a) ἀλλὰ τοῦτ᾽ οἶμαι τοῖς πολλοῖς οὐ δυνατόν: ὅθεν ψέγουσιν τοὺς τοιούτους δι᾽ αἰσχύνην, ἀποκρυπτόμενοι τὴν αὑτῶν ἀδυναμίαν. 
«ma ai più credo, questo non è possibile: perciò biasimano siffatti individui, per vergogna, nascondendo la proria incapacità».

 Callicle aggiunge poi che pessima è la filosofia, perché anche chi per natura è ben dotato, se continua a filosofare anche da adulto, non fa esperienza del mondo reale rimanendo inesperto delle passioni degli uomini, τῶν ἠθῶν παντάπασιν ἄπειροι γίγνονται, «diventano assolutamente inesperti dei tipi».

 Socrate ribatte naturalmente che bisogna seguire la temperanza e la morale, ma riconosce a Callicle di aver parlato con franchezza οὐκ ἀγεννῶς, in quanto ha detto quello che gli altri pensano senza avere in coraggio di dirlo.

 Sempre Platone, nel I libro della Repubblica (338c), riferisce l'opinione diel sofista Trasimaco, uno dei personaggi del dialogo: φημὶ γὰρ ἐγὼ εἶναι τὸ δίκαιον οὐκ ἄλλο τι ἢ τὸ τοῦ κρείττονος συμφέρον, «io dico che il giusto non è altro che l'utile del più forte». Socrate chiede spiegazioni ulteriori, allora Trasimaco aggiunge (338e-339a):

 Τίθεται δέ γε τοὺς νόμους ἑκάστη ἡ ἀρχὴ πρὸς τὸ αὑτῇ συμφέρον, δημοκρατία μὲν δημοκρατικούς, τυραννὶς δὲ τυραννικούς, καὶ αἱ ἄλλαι οὕτως. 

«Ogni potere stabilisce le leggi in relazione al proprio utile (συμφέρον), le democrazie facendo leggi democratiche, le oligarchie oligarchiche, le tirannidi tiranniche e così via». 

θέμεναι δὲ ἀπέφηναν τοῦτο δίκαιον τοῖς ἀρχομένοις εἶναι, τὸ σφίσι συμφέρον, καὶ τὸν τούτου ἐκβαίνοντα κολάζουσιν ὡς παρανομοῦντά τε καὶ ἀδικοῦντα. 

«Quindi dopo averle stabilite hanno spiegato che questo è giusto per i sudditi, cioè ciò che è loro utile, e puniscono chi trasgredisce a questo in quanto viola la legge e commette ingiustizia». Quindi conclude: 

Τοῦτ᾽ οὖν ἐστιν, ὦ βέλτιστε, ὃ λέγω ἐν ἐν ἁπάσαις ταῖς πόλεσιν ταὐτὸν εἶναι δίκαιον, τὸ τῆς καθεστηκυίας ἀρχῆς συμφέρον· αὕτη δέ που κρατεῖ, ὥστε συμβαίνει τῷ ὀρθῶς λογιζομένῳ πανταχοῦ εἶναι τὸ αὐτὸ δίκαιον, τὸ τοῦ κρείττονος συμφέρον. 

«Questo dunque è, carissimo, ciò che dico essere il medesimo giusto in tutte le città, l’utile del potere costituito; questo per così dire ha la forza, sicché siccede per chi ragiona correttamente che il giusto è il medesimo in ogni circostanza, cioè l’utile del più forte».

 Naturalmente Socrate ribatte secondo il solito procedimento dialettico e conclude dicendo che chi legifera deve tenere presente non il proprio utile ma quello dei sudditi.

 Voltaire fonde, pessimisticamente, le due visioni di Callicle e Trasimaco (Dizionario filosofico, Padrone):

«È ancora una questione insolubile [] se le repubbliche siano state stabilite prima o dopo le monarchie, se la confusione sia sembrata agli uomini piú orribile del dispotismo. Ignoro quel che è avvenuto nell'ordine dei tempi, ma in quello della natura bisogna convenire che, nascendo tutti gli uomini eguali, la violenza e l'abilità hanno prodotto i primi padroni; le leggi, gli ultimi».

Tra gli scrittori latini si esprime a favore delle leggi non scritte Sallustio scritte Sallustio, Cat. 9, 1:

Igitur domi militiaeque boni mores colebantur; concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat 
«Dunque sia in pace sia in guerra venivano praticati i buoni costumi; massima era la concordia, minima l’avidità; il diritto e l’onestà erano in auge non più per le leggi che per disposizione naturale».

 Un rimpianto simile si trova anche in Tacito nella Germania (19), quando conclude la descrizione della moralità delle donne germaniche: plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges, «valgono di più là i buoni costumi che altrove le buone leggi»; il riferimento polemico è naturalmente a Roma dove corrumpere et corrumpi saeculum vocatur (Germania, 19), «corrompere ed essere corrotti è chiamata moda», perché corruptissima re publica, plurimae leges (Annales, III, 27), «più lo stato è corrotto più sono le leggi».

 Arguto anche l’aneddoto riportato da Plutarco nella Vita di Solone (5, 4-6) in cui lo scita Anacarsi prende in giro il legislatore ateniese alle prese con le sue riforme:

[4] τὸν οὖν Ἀνάχαρσιν πυθόμενον, καταγελᾶν τῆς πραγματείας τοῦ Σόλωνος, οἰομένου γράμμασιν ἐφέξειν τὰς ἀδικίας καὶ πλεονεξίας τῶν πολιτῶν, ἃ μηδὲν τῶν ἀραχνίων διαφέρειν, ἀλλ' ὡς ἐκεῖνα τοὺς μὲν ἀσθενεῖς καὶ λεπτοὺς τῶν ἁλισκομένων καθέξειν, ὑπὸ δὲ τῶν δυνατῶν καὶ πλουσίων [5] διαρραγήσεσθαι. τὸν δὲ Σόλωνα φασὶ πρὸς ταῦτεἰπεῖν, ὅτι καὶ συνθήκας ἄνθρωποι φυλάττουσιν ἃς οὐδετέρῳ λυσιτελές ἐστι παραβαίνειν τῶν θεμένων, καὶ τοὺς νόμους αὐτὸς οὕτως ἁρμόζεται τοῖς πολίταις, ὥστε πᾶσι τοῦ παρανομεῖν βέλτιον ἐπιδεῖξαι τὸ δικαιοπραγεῖν[6] ἀλλὰ ταῦτα μὲν ὡς Ἀνάχαρσις εἴκαζεν ἀπέβη μᾶλλον ἢ κατ' ἐλπίδα τοῦ Σόλωνος. ἔφη δὲ κἀκεῖνο θαυμάζειν ὁ Ἀνάχαρσις ἐκκλησίᾳ παραγενόμενος, ὅτι λέγουσι μὲν οἱ σοφοὶ παρ' Ἕλλησι, κρίνουσι δ' οἱ ἀμαθεῖς. 
«[4] Dicono che Anacarsi, venuto a saperlo, derise l’operato di Solone, che pensava di frenare le ingiustizie e le avidità dei cittadini con le leggi scritte, le quali non differiscono per niente dalle ragnatele, ma come quelle avrebbero trattenuto le prede deboli e minute, mentre sarebbero state squarciate dai potenti e ricchi. [5] Dicono che Solone a queste critiche rispose che gli uomini mantengono i patti che non è conveniente violare per nessuna delle due parti che li hanno stabiliti, e che egli adattava le leggi ai cittadini in modo da mostrare che per tutti è meglio agire secondo giustizia piuttosto che violare la legge. [6] Ma queste cose andarono a finire come immaginava Anacarsi piuttosto che secondo la speranza di Solone. Disse inoltre Anacarsi di stupirsi anche di quello, dopo aver assistito a un’assemblea, cioè del fatto che presso i Greci parlano i sapienti, ma giudicano gli ignoranti».

  Euripide, difensore della classe media, tende a difendere le leggi scritte, come in Supplici, vv. 433-444:

γεγραμμένων δὲ τῶν νόμων ὅ τ' ἀσθενὴς

ὁ πλούσιός τε τὴν δίκην ἴσην ἔχει. 

«quando le leggi sono scritte il debole / e il ricco hanno una giustizia pari».

 Anche Seneca rivaluta positivamente le leggi scritte (Epistulae, 94):

37. leges quoque proficiunt ad bonos mores, utique si non tantum imperant sed docent. 
«37. Le leggi pure giovano ai buoni costumi, specialmente se non solo comandano ma insegnano». 
38. Proficiunt vero; itaque malis moribus uti videbis civitates usas malis legibus. 
«38. Giovano in verità; e così vedrai che si avvalgono di cattivi costumi le città che si avvalgono di cattive leggi».

 Euripide tuttavia, nelle Baccanti (vv. 200-203) manifesta scetticismo nei confronti della ragione rivalutando la tradizione:

οὐδὲν σοφιζόμεσθα τοῖσι δαίμοσιν.

πατρίους παραδοχάς, ἅς θ’ ὁμήλικας χρόνῳ

κεκτήμεθ’, οὐδεὶς αὐτὰ καταβαλεῖ λόγος,

οὐδ’ εἰ δι’ ἄκρων τὸ σοφὸν ηὕρηται φρενῶν.

«noi non abbiamo nessuna capacità intellettuale in confronto agli dèi. / Le tradizioni patrie, quelle che possediamo della stessa età del tempo, / nessun ragionamento le abbatterà, / neanche se il sapere viene trovato attraverso menti acute».


 1 Platone stesso dà una sua definizione nelle Leggi, 793a-b: τὰ καλούμενα ὑπὸ τῶν πολλῶν ἄγραφα νόμιμα· καὶ οὓς πατρίους [b] νόμους ἐπονομάζουσιν, οὐκ ἄλλα ἐστὶν ἢ τὰ τοιαῦτα σύμπαντα… δεσμοὶ γὰρ οὗτοι πάσης εἰσὶν πολιτείας, «le cosiddette dai più leggi non scritte; e quelle che denominiamo leggi patrie, non sono altro che tutte le norme siffatte… infatti queste sono i legami di ogni costituzione».

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