516b-e
Ulisse incontra Achille |
καὶ μετὰ ταῦτ᾽ ἂν ἤδη συλλογίζοιτο περὶ αὐτοῦ ὅτι οὗτος ὁ τάς τε ὥρας παρέχων καὶ ἐνιαυτοὺς καὶ πάντα ἐπιτροπεύων [c] τὰ ἐν τῷ ὁρωμένῳ τόπῳ, καὶ ἐκείνων ὧν σφεῖς ἑώρων τρόπον τινὰ πάντων αἴτιος. «E dopo queste cose potrebbe ragionare su di esso, cioè che questo e quello che procura le stagioni e gli anni, e che governa tutte le cose nel luogo che viene visto, ed è causa in qualche modo di tutte quelle cose che (attratto nel caso dell’antecedente, dovrebbe essere acc.) essi vedevano».
δῆλον, ἔφη, ὅτι ἐπὶ ταῦτα ἂν μετ᾽ ἐκεῖνα ἔλθοι. «È chiaro, disse, che dopo quelle (esperienze) giungerebbe a queste (considerazioni)».
τί οὖν; ἀναμιμνῃσκόμενον αὐτὸν τῆς πρώτης οἰκήσεως καὶ τῆς ἐκεῖ σοφίας καὶ τῶν τότε συνδεσμωτῶν οὐκ ἂν οἴει αὑτὸν μὲν εὐδαιμονίζειν τῆς μεταβολῆς, τοὺς δὲ ἐλεεῖν; «E che, dunque? Ricordandosi egli della prima dimora e della sapienza di laggiù e dei compagni di catene di allora non credi che riterrebbe se stesso felice del cambiamento, mentre avrebbe compassione di quelli?»
καὶ μάλα. «Hai voglia!».
τιμαὶ δὲ καὶ ἔπαινοι εἴ τινες αὐτοῖς ἦσαν τότε παρ᾽ ἀλλήλων καὶ γέρα τῷ ὀξύτατα καθορῶντι τὰ παριόντα, καὶ μνημονεύοντι μάλιστα ὅσα τε πρότερα αὐτῶν καὶ ὕστερα [d] εἰώθει καὶ ἅμα πορεύεσθαι, καὶ ἐκ τούτων δὴ δυνατώτατα ἀπομαντευομένῳ τὸ μέλλον ἥξειν, «E se c’erano allora tra loro certi onori e lodi e premi per chi distinguesse con più acutezza gli oggetti che passavano, e ricordasse soprattutto quanti tra quelli erano soliti passare per primi e per ultimi e insieme, e quindi prevedesse il più possibile quello che stava per giungere»,
δοκεῖς ἂν αὐτὸν ἐπιθυμητικῶς αὐτῶν ἔχειν καὶ ζηλοῦν τοὺς παρ᾽ ἐκείνοις τιμωμένους τε καὶ ἐνδυναστεύοντας, ἢ τὸ τοῦ Ὁμήρου ἂν πεπονθέναι καὶ σφόδρα βούλεσθαι «ἐπάρουρον ἐόντα θητευέμεν ἄλλῳ ἀνδρὶ παρ᾽ ἀκλήρῳ» καὶ ὁτιοῦν ἂν πεπονθέναι μᾶλλον ἢ 'κεῖνά τε δοξάζειν καὶ ἐκείνως ζῆν; «credi tu che quello (cioè quello che era uscito dalla caverna) sarebbe desideroso di quelle cose e invidierebbe coloro che sono onorati e che dominano tra quelli, oppure gli capiterebbe il detto di Omero e vorrebbe intensamente “essendo un bifolco servire presso un altro uomo senza beni” e subirebbe qualsiasi sorte piuttosto che congetturare quelle cose e vivere in quel modo?»
[e] Οὕτως, ἔφη, ἔγωγε οἶμαι, πᾶν μᾶλλον πεπονθέναι ἂν δέξασθαι ἢ ζῆν ἐκείνως. «Io almeno penso così, disse, cioè che accetterebbe di subire tutto piuttosto che vivere in quel modo».
Il verso citato si trova in Odissea, XI, la cosiddetta νέκυια, l’evocazione dei morti. Ulisse incontrando Achille gli dice (vv. 482-485):
σεῖο δ᾽, Ἀχιλλεῦ,οὔ τις ἀνὴρ προπάροιθε μακάρτατος οὔτ᾽ ἄρ᾽ ὀπίσσω.πρὶν μὲν γάρ σε ζωὸν ἐτίομεν ἶσα θεοῖσινἈργεῖοι, νῦν αὖτε μέγα κρατέεις νεκύεσσινἐνθάδ᾽ ἐών: τῷ μή τι θανὼν ἀκαχίζευ, Ἀχιλλεῦ.
«Oh Achille, nessun uomo più beato di te né prima né dopo. Prima infatti ti veneravano come gli dèi gli Argivi, ora a tua volta regni grandemente sui morti stando qui; perciò non crucciarti di essere morto, Achille».
A queste parole Achille risponde così (vv. 487-91:
μὴ δή μοι θάνατόν γε παραύδα, φαίδιμ᾽ Ὀδυσσεῦ.βουλοίμην κ᾽ ἐπάρουρος ἐὼν θητευέμεν ἄλλῳ,ἀνδρὶ παρ᾽ ἀκλήρῳ, ᾧ μὴ βίοτος πολὺς εἴη,ἢ πᾶσιν νεκύεσσι καταφθιμένοισιν ἀνάσσειν.
«Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Preferirei, essendo un bifolco, stare al servizio di un altro, presso un uomo diseredato, che avesse non molto di che vivere, piuttosto che signoreggiare su tutti i morti che si consumano».
È la giustificazione estetica dell’esistenza di cui parla Nietzsche (La nascita della tragedia, cap. 3):
«Quale fu l’immenso bisogno da cui scaturì una così splendente società di esseri olimpici? […] Niente ricorda qui ascesi, spiritualità e dovere: qui parla a noi soltanto un’esistenza rigogliosa, anzi trionfante, in cui tutto ciò che esiste è divinizzato, non importa se sia buono o malvagio… di fronte a questa fantastica dovizia di vita […] con quale filtro magico in corpo questi uomini tracotanti potessero aver goduto la vita, al punto che , dovunque guardassero, rideva loro incontro Elena… «fluttuante in dolce sensualità». […] L'antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: 'Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto’[…] Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura […] insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi – fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi. […] quel popolo […] che aveva un talento così unico per il soffrire, come avrebbe potuto sopportare l’esistenza? […] Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente! L’esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe poi dire, invertendo la saggezza silenica, «la cosa peggiore di tutte è per essi di morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno». Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l’avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie… Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come lavoratore a giornata. […] Nei Greci la «volontà» volle intuire se stessa nella trasfigurazione del genio e del mondo dell'arte; per glorificarsi le sue creature dovettero sentire se stesse come degne di glorificazione, dovettero rivedere se stesse in una sfera superiore, senza che questo mondo perfetto dell'intuizione agisse come imperativo o come rimprovero. Questa è la sfera della bellezza, dove essi videro le loro immagini in uno specchio, gli dèi olimpici. Con questo rispecchiamento di bellezza la «volontà» ellenica lottò contro il talento, correlativo a quello artistico, del dolore e della saggezza del dolore: e come monumento della sua vittoria ci sta innanzi Omero, l'artista ingenuo».
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