vv. 451-510
(fine primo episodio: riassunto)
Quindi Cassandra si congeda dalla madre e rivolgendosi a Taltibio lo apostrofa dicendogli: ὡς μίαν τριῶν Ἐρινὺν τῆσδέ μ’ ἐξάξων χθονός, «poiché stai per portare via me, da questa terra, una delle tre Erinni».
Ecuba affranta esprime il suo dolore e invoca con scetticismo gli dèi vv. 469-471: ὦ θεοί . . . κακοὺς μὲν ἀνακαλῶ τοὺς συμμάχους, / ὅμως δ’ ἔχει τι σχῆμα κικλήσκειν θεούς, / ὅταν τις ἡμῶν δυστυχῆ λάβῃ τύχην, «oh dèi … come cattivi alleati vi invoco, è vero, / tuttavia ha una certa dignità invocare gli dèi, / quando uno di noi colga una sorte avversa».
Poi lamenta la sua misera condizione da grande regina che era, madre di tanti figli, nessuno dei quali è sopravvissuto e prefigura le umiliazioni a cui sarà sottoposta; quindi si conclude il primo episodio con una considerazione:
vv. 509-510: τῶν δ’ εὐδαιμόνων / μηδένα νομίζετ’ εὐτυχεῖν, πρὶν ἂν θάνῃ, «tra coloro che sono felici / non pensate che nessuno sia fortunato, prima che sia morto».
Chi è l’uomo più felice
Il τόπος, come sappiamo, risale, nella sua formulazione più famosa, a Erodoto, Storie, I, 32: Solone, ospite di Creso, viene interrogato su chi sia l’uomo più felice; l’Ateniese prima nomina Tello ateniese, poi Cleobi e Bitone, tutte persone qualsiasi, ma che hanno in comune di averer concluso la vita bene. Creso allora si indispettisce, ma Solone gli spiega che «l’uomo è completamente in balia degli eventi (πᾶν ἐστι ἄνθρωπος συμφορή). Poi Solone fa il conto dei giorni di una vita presupposta di settanta anni, comprendente 26250 giorni, ciascuno dei quali è diverso, e aggiunge:
Ἐμοὶ δὲ σὺ καὶ πλουτέειν μέγα φαίνεαι καὶ βασιλεὺς πολλῶν εἶναι ἀνθρώπων· ἐκεῖνο δὲ τὸ εἴρεό με οὔ κώ σε ἐγὼ λέγω, πρὶν τελευτήσαντα καλῶς τὸν αἰῶνα πύθωμαι.
«Tu mi sembri essere molto ricco e regnare su molti uomini; ma quello che mi chiedevi non te lo dico ancora, prima di aver saputo che hai compiuto bene la vita».
Dopo avere fatto una distinzione tra ricchezza e fortuna e felicità, ribadisce:
πρὶν δ' ἂν τελευτήσῃ, ἐπισχεῖν μηδὲ καλέειν κω ὄλβιον, ἀλλ' εὐτυχέα […] Σκοπέειν δὲ χρὴ παντὸς χρήματος τὴν τελευτὴν κῇ ἀποβήσεται· πολλοῖσι γὰρ δὴ [33] ὑποδέξας ὄλβον ὁ θεὸς προρρίζους ἀνέτρεψε.
«Però prima che sia morto, tratteniamoci e non chiamiamo uno felice, ma fortunato […] Di ogni casa bisogna guardare la conclusione, come andrà a finire: infatti la divinità, dopo aver fatto intravedere a molti la felicità, li ha stroncati capovolgendoli».
Ne abbiamo però una formulazione già in Omero, Odissea, XVIII, 130-37:
οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο, / πάντων ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει. / οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, / ὄφρ᾽ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ᾽ ὀρώρῃ: / ἀλλ᾽ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέσωσι, / καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ: / τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων / οἷον ἐπ᾽ ἦμαρ ἄγησι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε.
«Nulla la terra nutre più meschino dell’uomo, / di tutte le creature quante respirano e strisciano sulla terra. / Infatti non dice mai che in futuro subirà un male, / finché gli dèi gli offrono coraggio e le ginocchia spingano: / ma quando gli dèi beati compiano anche lutti, / anche questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente: / tale infatti è la mente degli uomini sopra la terra / quale la indirizza di giorno in giorno il padre degli uomini e degli dèi». Il contesto è quello della lotta di Odisseo con Iro, che lo aveva umiliato nella reggia di Itaca. Ancora travestito da vecchio mendicante Odisseo gli dà una lezione e all’augurio di Anfinomo, uno dei proci, di essere in futuro felice, risponde con le parole riportate sopra.
Altre espressioni simili sono presenti nella tragedia; per esempio Sofocle, amico di Erodoto, con cui aveva molto in comune anche nel pensiero, si esprime in modo molto affine allo storiografo di Alicarnasso nella conclusione dell’Edipo re, vv. 1528-1530:
ὥστε θνητὸν ὄντ' ἐκείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν' ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών,
«sicché nessuno che sia un mortale, guardando a quell’ultimo giorno / a vedersi bisogna ritenere felice, prima che / abbia varcato il confine della vita senza aver subito nessun dolore».
In Euripide il medesimo concetto è espresso prima nell’Andromaca, 100-102:
χρὴ δ' οὔποτ' εἰπεῖν οὐδέν' ὄλβιον βροτῶν, / πρὶν ἂν θανόντος τὴν τελευταίαν ἴδηις / ὅπως περάσας ἡμέραν ἥξει κάτω,
«non bisogna mai dire felice nessuno dei mortali, / prima di aver visto come / dopo aver varcato l’ultimo giorno sarà giunto sotto terra»;
poi nell’Ecuba, 627-28:
κεῖνος ὀλβιώτατος, / ὅτῳ κατ’ ἦμαρ τυγχάνει μηδὲν κακόν, «felicissimo quello a cui non capiti nessun male giorno per giorno».
Notiamo come il tema sia presente così in quella che possiamo considerare una trilogia sulla guerra (Andromaca, Ecuba, Troiane).
Inoltre ben cinque tragedie di Euripide (Alcesti, Medea21, Andromaca, Elena, Baccanti) si concludono con questi versi:
πολλαὶ μορφαὶ τῶν δαιμονίων, / πολλὰ δ' ἀέλπτως κραίνουσι θεοί· / καὶ τὰ δοκηθέντ' οὐκ ἐτελέσθη, / τῶν δ' ἀδοκήτων πόρον ηὗρε θεός. / τοιόνδ’ ἀπέβη τόδε πρᾶγμα,
«molte sono le forme delle divinità, / molte cose in modo inatteso compiono gli dèi; / e le cose aspettate non si sono compiute, / mentre di quelle inaspettate un dio ha trovato la via. / Così è andata a finire questa azione».
Il concetto si trova espresso anche da Platone nel suo ultimo dialogo, Leggi, VII, 802a:
Τούς γε μὴν ἔτι ζῶντας ἐγκωμίοις τε καὶ ὕμνοις τιμᾶν οὐκ ἀσφαλές, πρὶν ἂν ἅπαντά τις τὸν βίον διαδραμὼν τέλος ἐπιστήσηται καλόν,
«onorare quelli che sono ancora in vita con encomi e inni non è cosa sicura, prima che uno dopo aver percorso tutta quanta la vita vi abbia posto una bella fine».
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