Capitolo 57
Con questo capitolo si conclude il trattato sulle costituzioni.
Dunque alla fine Polibio fa una pessimistica constatazione, in linea con la tendenza degli antichi a concepire la storia come decadenza: Ὅτι μὲν οὖν πᾶσι τοῖς οὖσιν ὑπόκειται φθορὰ καὶ μεταβολὴ σχεδὸν οὐ προσδεῖ λόγων· ἱκανὴ γὰρ ἡ τῆς φύσεως ἀνάγκη παραστῆσαι τὴν τοιαύτην πίστιν (1), «Che dunque alla base di tutti gli esseri ci sia corruzione e mutamento non ha quasi bisogno di parole: è sufficiente infatti la necessità della natura a confermare tale convinzione».
Viene ribadito poi che uno stato può incontrare delle difficoltà dall’esterno (fattori naturali, nemici…) o dall’interno (cfr. VI, 10, 3-5); infine ritorna sul concetto che il motore del cambiamento in peggio è da rintracciare nell’opulenza che segue il successo, la quale a sua volta spinge alla brama di potere e all’ambizione1; a questo punto si incarica del cambiamento il popolo, ὁ δῆμος, manipolato da altri bramosi di potere: τότε γὰρ ἐξοργισθεὶς καὶ θυμῷ πάντα βουλευόμενος οὐκέτι θελήσει πειθαρχεῖν οὐδ' ἴσον ἔχειν τοῖς προεστῶσιν, ἀλλὰ πᾶν [9] καὶ τὸ πλεῖστον αὐτός. οὗ γενομένου τῶν μὲν ὀνομάτων τὸ κάλλιστον ἡ πολιτεία μεταλήψεται, τὴν ἐλευθερίαν καὶ δημοκρατίαν, τῶν δὲ πραγμάτων τὸ χείριστον, τὴν ὀχλοκρατίαν (8-9), «a quel punto adiratosi e guidato dalla passione in tutto non vuole più ubbidire né essere pari ai capi, ma padrone lui completamente di tutto. Avvenuto ciò, la costituzione assumerà in cambio il più bello dei nomi, libertà e democrazia, ma il peggiore dei governi, l’oclocrazia».
Qui finisce la trattazione e riprende la narrazione da dove si era interrotto, cioè dal 216 a.C., subito dopo la battaglia di Canne.
1 Analoga concezione si trova in Sallustio che, in entrambe le sue monografie, insiste sulla fuzione positiva del metus hostilis, «la paura del nemico». Vediamo prima il De Catilinae coniuratione: Igitur domi militiaeque boni mores colebantur; concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat, «Dunque sia in pace sia in guerra venivano praticati i buoni costumi; massima era la concordia, minima l’avidità; il diritto e l’onestà erano in auge non più per le leggi che per disposizione naturale» (9, 1); sta parlando delle origini, poi aggiunge: Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago, aemula imperi Romani, ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. 2 Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque optanda alias, oneri miseriaeque fuere, «Ma quando lo stato grazie alla fatica e alla giustizia crebbe, grandi re fu domati in guerra, genti feroci e popoli grandi furono sottomessi con la violenza, Cartagine, rivale dell’impero, fu totalmente estirpata, tutti i mari e le terre si aprivano, la sorte cominciò a incrudelire e a rimescolare tutto. Coloro che avevano sopportato fatiche, pericoli situazioni incerte e aspre con facilità, per questi l’ozio e la ricchezza, cose desiderabili in altre circostanza, furono un grave motivo di sventura» (10, 1-2).
Il medesimo argomento si trova anche in Bellum Iugurthinum, 41: Ceterum mos partium et factionum ac deinde omnium malarum artium paucis ante annis Romae ortus est otio atque abundantia earum rerum, quae prima mortales ducunt. Nam ante Carthaginem deletam populus et senatus Romanus placide modesteque inter se rem publicam tractabant, neque gloriae neque dominationis certamen inter civis erat: metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea, quae res secundae amant, lascivia atque superbia incessere. Ita quod in adversis rebus optaverant otium, postquam adepti sunt, asperius acerbiusque fuit, «Del resto il costume dei partiti e delle fazioni e poi di tutte le cattive pratiche nacque a Roma pochi anni prima a causa dell’ozio e dell’abbondanza di quelle cose che i mortali considerano di primaria importanza. Infatti prima della distruzione di Cartagine il popolo e il senato romano affrontavano tra loro la politica con pacatezza e misura, né tra i cittadini c’era competizione per la gloria e il dominio: la paura del nemico tratteneva i cittadini nei buoni costumi. Ma quando quel timore si allontanò dalle menti, evidentemente quei vizi che la prosperità ama, dissolutezza e suberbia, si fecero avanti. Così quell’ozio che nelle avversitàavevano desiderato, dopo averlo ottenuto, fu particolarmente aspro e penetrante».
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