lunedì 30 settembre 2024

Giovanni Ghiselli: Platone: il mito della caverna.

Giovanni Ghiselli: Platone: il mito della caverna.: Schopenhauer lo riassume in questi termini in Il mondo come volontà e rappresentazione III, 31. Kant sostiene che tempo, spazio e cau...

Euripide, Troiane – primo episodio, vv. 451-510: riassunto – Chi è l’uomo più felice

 

vv. 451-510

(fine primo episodioriassunto)


 Quindi Cassandra si congeda dalla madre e rivolgendosi a Taltibio lo apostrofa dicendogli: ὡς μίαν τριῶν Ἐρινὺν τῆσδέ μ’ ἐξάξων χθονός, «poiché stai per portare via me, da questa terra, una delle tre Erinni».

 Ecuba affranta esprime il suo dolore e invoca con scetticismo gli dèi vv. 469-471: ὦ θεοί . . . κακοὺς μὲν ἀνακαλῶ τοὺς συμμάχους, / ὅμως δ’ ἔχει τι σχῆμα κικλήσκειν θεούς, / ὅταν τις ἡμῶν δυστυχῆ λάβῃ τύχην«oh dèi … come cattivi alleati vi invoco, è vero, / tuttavia ha una certa dignità invocare gli dèi, / quando uno di noi colga una sorte avversa».

 Poi lamenta la sua misera condizione da grande regina che era, madre di tanti figli, nessuno dei quali è sopravvissuto e prefigura le umiliazioni a cui sarà sottoposta; quindi si conclude il primo episodio con una considerazione:

vv. 509-510: τῶν δ’ εὐδαιμόνων / μηδένα νομίζετ’ εὐτυχεῖν, πρὶν ἂν θάνῃ«tra coloro che sono felici / non pensate che nessuno sia fortunato, prima che sia morto».


Chi è l’uomo più felice


 Il  τόπος, come sappiamo, risale, nella sua formulazione più famosa, a Erodoto, Storie, I, 32: Solone, ospite di Creso, viene interrogato su chi sia l’uomo più felice; l’Ateniese prima nomina Tello ateniese, poi Cleobi e Bitone, tutte persone qualsiasi, ma che hanno in comune di averer concluso la vita bene. Creso allora si indispettisce, ma Solone gli spiega che «l’uomo è completamente in balia degli eventi (πᾶν ἐστι ἄνθρωπος συμφορή). Poi Solone fa il conto dei giorni di una vita presupposta di settanta anni, comprendente 26250 giorni, ciascuno dei quali è diverso, e aggiunge:

Ἐμοὶ δὲ σὺ καὶ πλουτέειν μέγα φαίνεαι καὶ βασιλεὺς πολλῶν εἶναι ἀνθρώπων· ἐκεῖνο δὲ τὸ εἴρεό με οὔ κώ σε ἐγὼ λέγω, πρὶν τελευτήσαντα καλῶς τὸν αἰῶνα πύθωμαι. 
«Tu mi sembri essere molto ricco e regnare su molti uomini; ma quello che mi chiedevi non te lo dico ancora, prima di aver saputo che hai compiuto bene la vita».

 Dopo avere fatto una distinzione tra ricchezza e fortuna e felicità, ribadisce:

πρὶν δἂν τελευτήσῃ, ἐπισχεῖν μηδὲ καλέειν κω ὄλβιον, ἀλλεὐτυχέα […] Σκοπέειν δὲ χρὴ παντὸς χρήματος τὴν τελευτὴν κῇ ἀποβήσεται· πολλοῖσι γὰρ δὴ [33] ὑποδέξας ὄλβον ὁ θεὸς προρρίζους ἀνέτρεψε. 
«Però prima che sia morto, tratteniamoci e non chiamiamo uno felice, ma fortunato […] Di ogni casa bisogna guardare la conclusione, come andrà a finire: infatti la divinità, dopo aver fatto intravedere a molti la felicità, li ha stroncati capovolgendoli».

 Ne abbiamo però una formulazione già in Omero, Odissea, XVIII, 130-37:

οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο, / πάντων ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει. / οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, / ὄφρ᾽ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ᾽ ὀρώρῃ: / ἀλλ᾽ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέσωσι, / καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ: / τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων / οἷον ἐπ᾽ ἦμαρ ἄγησι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε. 
«Nulla la terra nutre più meschino dell’uomo, / di tutte le creature quante respirano e strisciano sulla terra. / Infatti non dice mai che in futuro subirà un male, / finché gli dèi gli offrono coraggio e le ginocchia spingano: / ma quando gli dèi beati compiano anche lutti, / anche questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente: / tale infatti è la mente degli uomini sopra la terra / quale la indirizza di giorno in giorno il padre degli uomini e degli dèi». Il contesto è quello della lotta di Odisseo con Iro, che lo aveva umiliato nella reggia di Itaca. Ancora travestito da vecchio mendicante Odisseo gli dà una lezione e all’augurio di Anfinomo, uno dei proci, di essere in futuro felice, risponde con le parole riportate sopra.

 Altre espressioni simili sono presenti nella tragedia; per esempio Sofocle, amico di Erodoto, con cui aveva molto in comune anche nel pensiero, si esprime in modo molto affine allo storiografo di Alicarnasso nella conclusione dell’Edipo re, vv. 1528-1530:

ὥστε θνητὸν ὄντἐκείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδένὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, 
«sicché nessuno che sia un mortale, guardando a quell’ultimo giorno / a vedersi bisogna ritenere felice, prima che / abbia varcato il confine della vita senza aver subito nessun dolore».

 In Euripide il medesimo concetto è espresso prima nell’Andromaca, 100-102:

χρὴ δοὔποτεἰπεῖν οὐδένὄλβιον βροτῶν, / πρὶν ἂν θανόντος τὴν τελευταίαν ἴδηις / ὅπως περάσας ἡμέραν ἥξει κάτω, 
«non bisogna mai dire felice nessuno dei mortali, / prima di aver visto come / dopo aver varcato l’ultimo giorno sarà giunto sotto terra»;

 poi nell’Ecuba627-28:

κεῖνος ὀλβιώτατος, / ὅτῳ κατ’ ἦμαρ τυγχάνει μηδὲν κακόν«felicissimo quello a cui non capiti nessun male giorno per giorno».

 Notiamo come il tema sia presente così in quella che possiamo considerare una trilogia sulla guerra (Andromaca, Ecuba, Troiane).

 Inoltre ben cinque tragedie di Euripide (Alcesti, Medea21, Andromaca, Elena, Baccanti) si concludono con questi versi:

πολλαὶ μορφαὶ τῶν δαιμονίων, / πολλὰ δἀέλπτως κραίνουσι θεοί· / καὶ τὰ δοκηθέντοὐκ ἐτελέσθη, / τῶν δἀδοκήτων πόρον ηὗρε θεός. / τοιόνδ ἀπέβη τόδε πρᾶγμα, 
«molte sono le forme delle divinità, / molte cose in modo inatteso compiono gli dèi; / e le cose aspettate non si sono compiute, / mentre di quelle inaspettate un dio ha trovato la via. / Così è andata a finire questa azione».

 Il concetto si trova espresso anche da Platone nel suo ultimo dialogo, Leggi, VII, 802a:

Τούς γε μὴν ἔτι ζῶντας ἐγκωμίοις τε καὶ ὕμνοις τιμᾶν οὐκ ἀσφαλές, πρὶν ἂν ἅπαντά τις τὸν βίον διαδραμὼν τέλος ἐπιστήσηται καλόν, 
«onorare quelli che sono ancora in vita con encomi e inni non è cosa sicura, prima che uno dopo aver percorso tutta quanta la vita vi abbia posto una bella fine».

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domenica 29 settembre 2024

Religione e superstizione – parte 2° – Polibio, Crizia, Machiavelli

 

Al contrario di Lucrezio, la religione intesa come superstizione è considerata un fattore positivo, che ha contribuito molto alla formazione dell’impero romano, da Polibio (VI, 56, 6-12):

[6] Μεγίστην δέ μοι δοκεῖ διαφορὰν ἔχειν τὸ Ῥωμαίων πολίτευμα πρὸς βέλτιον ἐν τῇ περὶ θεῶν [7] διαλήψει. καί μοι δοκεῖ τὸ παρὰ τοῖς ἄλλοις ἀνθρώποις ὀνειδιζόμενον, τοῦτο συνέχειν τὰ Ῥωμαίων [8] πράγματα, λέγω δὲ τὴν δεισιδαιμονίαν· ἐπὶ τοσοῦτον γὰρ ἐκτετραγῴδηται καὶ παρεισῆκται τοῦτο τὸ μέρος παρ' αὐτοῖς εἴς τε τοὺς κατ' ἰδίαν βίους καὶ τὰ κοινὰ τῆς πόλεως ὥστε μὴ καταλιπεῖν ὑπερβολήν.[9] ὃ καὶ δόξειεν ἂν πολλοῖς εἶναι θαυμάσιον. ἐμοί γε μὴν δοκοῦσι τοῦ πλήθους χάριν τοῦτο πεποιηκέναι. [10] εἰ μὲν γὰρ ἦν σοφῶν ἀνδρῶν πολίτευμα συναγαγεῖν, ἴσως οὐδὲν ἦν ἀναγκαῖος ὁ τοιοῦτος τρόπος· [11] ἐπεὶ δὲ πᾶν πλῆθός ἐστιν ἐλαφρὸν καὶ πλῆρες ἐπιθυμιῶν παρανόμων, ὀργῆς ἀλόγου, θυμοῦ βιαίου, λείπεται τοῖς ἀδήλοις φόβοις καὶ τῇ τοιαύτῃ τραγῳδίᾳ [12] τὰ πλήθη συνέχειν. 
«[6] Mi pare che il sistema politico dei Romani abbia la massima differenza in meglio nell’opinione sugli dèi. [7] Mi pare anche che ciò presso gli altri uomini è biasimato, questo tenga unito lo stato dei Romani, [8] dico la superstizione: questo fattore infatti a tal punto è stato enfatizzato come fanno i tragici ed è stato fattao entrare presso di loro sia nelle vite private sia negli affari pubblici dello stato, da non lasciare possibilità di superamento. [9] E ciò potrebbe anche sembrare stupefacente a molti. Eppure almeno a me pare che lo abbiano fatto pensando alla massa. [10] Se infatti fosse possibile costituire un sistema politico di uomini sapienti, forse una siffatta modalità non sarebbe necessaria; [11] siccome però ogni massa è instabile e piena di brame illegali, di ira irrazionale, inclinazioni violente, rimane solo da trattenere le masse con timori oscuri e una tale montatura da tragedia».

 Possiamo far risalire la teoria della religione come instrumentum regni al sofista divenuto poi capo dei trenta tiranni, Crizia. In un frammento (25 D-K) di 40 versi del dramma satiresco Sisifo; dopo aver descritto l’origine della civiltà che si emancipa dallo stato ferino dandosi delle leggi, così si esprime nei vv. 9-16:

ἔπειτ' ἐπειδὴ τἀμφανῆ μὲν οἱ νόμοι

ἀπεῖργον αὐτοὺς ἔργα μὴ πράσσειν βίᾳ,                     10

λάθρᾳ δ' ἔπρασσον, τηνικαῦτά μοι δοκεῖ

‹πρῶτον› πυκνός τις καὶ σοφὸς γνώμην ἀνήρ

θεῶν δέος θνητοῖσιν ἐξευρεῖν, ὅπως

εἴη τι δεῖμα τοῖς κακοῖσι, κἂν λάθρᾳ

πράσσωσιν ἢ λέγωσιν ἢ φρονῶσί ‹τι›.      15

«Poi, siccome le leggi impedivano / loro di compiere con la violenza le azioni manifestamente, / ma di nascosto le compivani, allora mi pare / che all’inizio un uomo scaltro e sapiente nella mente / inventò per i mortali la paura degli dèi, affinché / ci fosse un qualche timore per i cattivi, quand’anche agissero / di nascosto o parlassero o pensassero».

ἐντεῦθεν οὖν τὸ θεῖον εἰσηγήσατο,

«Da qui dunque fu introdotta la divinità».


 L’idea della religione come instrumentum regni si trova poi in Machiavelli, soprattutto dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, dove tra l’altro distingue anche la maggiore efficacia della religione pagana rispetto a quella cristiana; vediamo alcuni passi:

«Avvenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere, come figliuola, il nascimento e la educazione sua, nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà; e la constituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica […] E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, a animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché, dove è religione, facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch'egli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse.

E veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. […] Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti della religione» (I, 11).

«Pensando dunque donde possa nascere, che, in quegli tempi antichi, i popoli fossero più amatori della libertà che in questi; credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la diversità della educazione nostra dall'antica. Perché, avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l'onore del mondo: onde i Gentili, stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più feroci. Il che si può considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de' sacrifizi loro, alla umiltà de' nostri; dove è qualche pompa più delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui non mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiugneva l'azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocità, ammazzandovisi moltitudine d'animali; il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: quell'altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l'università degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle» (II, 2).

Religione e superstizione – parte 1° – Lucrezio

 

 All’inizio del poema De rerum natura1, nel primo libro, subito dopo l’invocazione a Venere, il poeta Lucrezio descive Epicuro come un eroe che per primo ha osato ribellarsi e liberare gli esseri umani dall’oppressione:

vv. 62-67

Humana ante oculos foede cum vita iaceret                    62

in terris oppressa gravi sub religione,

quae caput a caeli regionibus ostendebat

horribili super aspectu mortalibus instans,                     65

primum Graius homo mortalis tollere contra

est oculos ausus primusque obsistere contra.

«Quando la vita umana giaceva, scena turpe a vedersi, / sulla terra schiacciata dal peso della religione, / la quale mostrava il capo dalle regioni del cielo / incombendo dall’alto sui mortali con aspetto raccapricciante, / per la prima volta un uomo Greco osò / sollevarle contro gli occhi mortali e per primo contrapporsi».

 Epicuro dunque con la ragione smonta a una a una tutte le false credenze:


vv. 78-79

quare religio pedibus subiecta vicissim

obteritur, nos exaequat victoria caelo.

«Perciò la religione a sua volta schiacciata sotto i piedi / è calpestata, e la vittoria ci eguaglia al cielo».

 Segue quindi l’esempio, tratto dal mito, del sacrificio di Ifigenia preteso da Artemide:

vv. 80-101

Illud in his rebus vereor, ne forte rearis                           80

impia te rationis inire elementa viamque

indugredi sceleris. Quod contra saepius illa

religio peperit scelerosa atque impia facta.

«Ciò io temo in queste cose, che per caso tu pensi / di addentrarti agli empi / principi della ragione e di intraprendere / la via del male. Poiché al contrario più spesso la religione / ha partorito quei crimini e quelle empietà».

Aulide quo pacto Triviai virginis aram

Iphianassai turparunt sanguine foede                             85

ductores Danaum delecti, prima virorum.

«In questo modo in Aulide l’ara della vergine Trivia2 / contaminarono turpemente con il sangue di Ifigenia / i condottieri scelti dei Danai, il fio fiore degli eroi».

cui simul infula virgineos circum data comptus

ex utraque pari malarum parte profusast,

et maestum simul ante aras adstare parentem

sensit et hunc propter ferrum celare ministros                90

aspectuque suo lacrimas effundere civis,

muta metu terram genibus summissa petebat.

«E non appena la benda che le avvolgeva le virginee chiome / ugualmente dall’una e dall’altra parte delle gote scivolò giù, / e non appena si accorse che il padre stava in piedi triste davanti all’ara / e che presso di lui i sacerdoti nascondevano la spada / e che alla sua vista i cittadini non trattenevano le lacrime, / muta per la paura accasciatasi cadeva a terra con le ginocchia».

nec miserae prodesse in tali tempore quibat,

quod patrio princeps donarat nomine regem;

«Né all’infelice poteva giovare in tale circostanza, / il fatto di aver donate per prima al re il nome di padre3

nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras       95

deductast, non ut sollemni more sacrorum

perfecto posset claro comitari Hymenaeo,

«Infatti fu sollevata dalle mani degli eroi e tutta tremante fu condotta / alle are, non affinché, una volta compiuto il solenne rito sacro, / potesse essere accompagnata allo splendente Imeneo,»

sed casta inceste nubendi tempore in ipso

hostia concideret mactatu maesta parentis,

exitus ut classi felix faustusque daretur.                    100

«ma affinché impuramente pura proprio nel momento di sposarsi / cadesse vittima triste immolata dal padre, / perché alla flotta fosse concessa una fausta e fortunata partenza».

tantum religio potuit suadere malorum.

«A così grandi mali poté indurre la religione!»

 

  1 Sulla natura delle cose; fu pubblicato da Cicerone dopo la morte del poeta, avvenuta verosimilmente nel 55 a.C.; la nascita sarebbe da collocare nel 98 a.C.

   2  Epiteto di Diana (per i Greci Artemide), dea dei trivii.

 3 Elemento patetico accentuato dal riferimento all’infanzia; anche Virgilio indulge all’elemento patetico associato all’infanzia. Quando Didone cerca di dissuadere Enea dall’abbandonarla conclude il suo disperato tentativo con queste parole (Eneide, IV, vv. 327-330): saltem si qua mihi de te suscepta fuisset / ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula / luderet Aeneas, qui te tamen ore / referret,non equidem omnino capta ac deserta viderer, «Se almeno mi fosse nata da te una qualche prole prima della fuga, se mi giocasse per il cortile un piccolo Enea, che tuttaviati rievocasse nel viso, senza dubbio non mi sentirei del tutto ingannata e abbandonata».
   Nel riferimento alla mancata maternità, Didone raggiunge il massimo del pathos, accentuato oltretutto dall'uso del diminutivo, normalmente rifiutato dallo stile epico.
  Un autore greco che accentua l’elemento patetico e, non casualmente, è il preferito in età ellenistica e da Virgilio, è Euripide; questi versi delle Troiane (749-765), pronunciati da Andromaca dopo aver appreso da Taltibio che il figlio verrà ucciso, sono emblematici: ὦ παῖ, δακρύεις· αἰσθάνῃ κακῶν σέθεν; / τί μου δέδραξαι χερσὶ κἀντέχῃ πέπλων, / νεοσσὸς ὡσεὶ πτέρυγας ἐσπίτνων ἐμάς; / οὐκ εἶσιν Ἕκτωρ κλεινὸν ἁρπάσας δόρυ / γῆς ἐξανελθὼν σοὶ φέρων σωτηρίαν, / οὐ συγγένεια πατρός, οὐκ ἰσχὺς Φρυγῶν· / λυγρὸν δὲ πήδημ’ ἐς τράχηλον ὑψόθεν / πεσὼν ἀνοίκτως, πνεῦμ’ ἀπορρήξεις σέθεν. / ὦ νέον ὑπαγκάλισμα μητρὶ φίλτατον, / ὦ χρωτὸς ἡδὺ πνεῦμα· διὰ κενῆς ἄρα / ἐν σπαργάνοις σε μαστὸς ἐξέθρεψ’ ὅδε, / μάτην δ’ ἐμόχθουν καὶ κατεξάνθην πόνοις. / νῦν—οὔποτ’ αὖθις—μητέρ’ ἀσπάζου σέθεν, / πρόσπιτνε τὴν τεκοῦσαν, ἀμφὶ δ’ ὠλένας / ἕλισσ’ ἐμοῖς νώτοισι καὶ στόμ’ ἅρμοσον. / ὦ βάρβαρ’ ἐξευρόντες Ἕλληνες κακά, / τί τόνδε παῖδα κτείνετ’ οὐδὲν αἴτιον, «Oh figlio, tu piangi; ti rendi conto dei tuoi mali? / Perché mi hai afferrata con le mani e ti attacchi ai pepli, / come un pulcino rifugiandoti sotto le mie ali? / Non verrà Ettore dopo aver afferrato l’inclita lancia / uscito dalla terra a portarti salvezza, / non la nobiltà del padre, non la potenza dei Frigi; / invece caduto a precipizio con funesto balzo / dall’alto spietatamente, strapperai via il respiro. / Oh tenero abbraccio carissimo alla madre, / oh dolce respiro della carne; inutilmente dunque / in fasce ti nutrì quest / o seno,invano mi affannavo e mi consumai nelle pene. / Ora – non ci sarà mai più un’altra volta – abbraccia la tua mamma, / stringiti a chi ti ha partorito, avvolgi le braccia / intorno alle mie spalle e avvicina la bocca. / Oh Greci che avete inventato barbare atrocità, / perché uccidete questo bambino che non ha nessuna colpa?».

Euripide, Troiane – primo episodio, vv. 406-450

Χο.

ὡς ἡδέως κακοῖσιν οἰκείοις γελᾷς,

μέλπεις θ’ ἃ μέλπουσ’ οὐ σαφῆ δείξεις ἴσως.

CO.
Come ridi piacevolmente dei mali domestici,
e canti cose che, cantando, mostrerai forse non chiare.

Ταλτιβίος.

εἰ μή σ’ Ἀπόλλων ἐξεβάκχευεν φρένας,

οὔ τἂν ἀμισθὶ τοὺς ἐμοὺς στρατηλάτας

τοιαῖσδε φήμαις ἐξέπεμπες ἂν χθονός.                                410

TALTIBIO
Se Apollo non ti agitasse di furore bacchico la mente,
tu di certo non accompagneresti fuori da questa terra i miei
condottieri impunemente con tali presagi.

ἀτὰρ τὰ σεμνὰ καὶ δοκήμασιν σοφὰ

οὐδέν τι κρείσσω τῶν τὸ μηδὲν ἦν ἄρα.

Del resto la maestà e l’apparente sapere
non sono superiori in nulla a ciò che non era proprio niente.

ὁ γὰρ μέγιστος τῶν Πανελλήνων ἄναξ,

Ἀτρέως φίλος παῖς, τῆσδ’ ἔρωτ’ ἐξαίρετον

μαινάδος ὑπέστη· καὶ πένης μέν εἰμ’ ἐγώ,                        415

ἀτὰρ λέχος γε τῆσδ’ ἂν οὐκ ἐκτησάμην.

Infatti il più grande signore di tutti gli Elleni,
il caro figlio di Atreo, si sottomise all’amore scelto
di questa invasata; anche io sono povero, è vero,
però almeno il letto di costei non l’avrei acquistato.

καὶ σοὶ μέν—οὐ γὰρ ἀρτίας ἔχεις φρένας—

Ἀργεῖ’ ὀνείδη καὶ Φρυγῶν ἐπαινέσεις

ἀνέμοις φέρεσθαι παραδίδωμ’· ἕπου δέ μοι

πρὸς ναῦς, καλὸν νύμφευμα τῷ στρατηλάτῃ.                    420

Quanto a te – infatti non hai la mente a posto –
le offese agli Argivi e gli elogi dei Frigi
li consegno ai venti affinché se li portino via; seguimi
alle navi, bella sposina per il condottiero.

σὺ δ’, ἡνίκ’ ἄν σε Λαρτίου χρῄζῃ τόκος

ἄγειν, ἕπεσθαι· σώφρονος δ’ ἔσῃ λάτρις

γυναικός, ὥς φασ’ οἱ μολόντες Ἴλιον.

Tu19, invece, quando la prole di Laerte vorrà
condurti via, seguilo; sarai serva di una donna
equilibrata, a quanto dicono quelli che sono venuti a Ilio.

Κα.

ἦ δεινὸς ὁ λάτρις. τί ποτ’ ἔχουσι τοὔνομα

κήρυκες, ἓν ἀπέχθημα πάγκοινον βροτοῖς,                        425

οἱ περὶ τυράννους καὶ πόλεις ὑπηρέται;

CA.
Davvero tremendo il servo! Perché mai hanno il nome
di "araldi", unico odio comune a tutti i mortali, 425
questi servitori al seguito di tiranni e città?20

σὺ τὴν ἐμὴν φῂς μητέρ’ εἰς Ὀδυσσέως

ἥξειν μέλαθρα; ποῦ δ’ Ἀπόλλωνος λόγοι,

οἵ φασιν αὐτὴν εἰς ἔμ’ ἡρμηνευμένοι

αὐτοῦ θανεῖσθαι; . . . τἄλλα δ’ οὐκ ὀνειδιῶ.                        430

Tu dici che mi madre andrà alla dimora
di Ulisse? Dove sono le parole di Apollo,
le quali a me rivelate dicono che ella
sarebbe morta qui? … non rinfaccerò le altre cose.

δύστηνος, οὐκ οἶδ’ οἷά νιν μένει παθεῖν·

ὡς χρυσὸς αὐτῷ τἀμὰ καὶ Φρυγῶν κακὰ

δόξει ποτ’ εἶναι. δέκα γὰρ ἐκπλήσας ἔτη

πρὸς τοῖσιν ἐνθάδ’, ἵξεται μόνος πάτραν

Sciagurato, non sa quali sofferenze gli rimangono da patire;
come oro i mali miei e dei Frigi gli
sembreranno un giorno. Infatti dopo aver navigato per dieci anni
oltre a quelli passati qui, raggiungerà da solo la patria

. . . . . . . . . . .

οὗ δὴ στενὸν δίαυλον ᾤκισται πέτρας                                  435

δεινὴ Χάρυβδις, ὠμοβρώς τ’ ὀρειβάτης

Κύκλωψ, Λιγυστίς θ’ ἡ συῶν μορφώτρια

Κίρκη, θαλάσσης θ’ ἁλμυρᾶς ναυάγια,

λωτοῦ τ’ ἔρωτες, Ἡλίου θ’ ἁγναὶ βόες,

αἳ σάρκα φωνήεσσαν ἥσουσίν ποτε,                                      440

πικρὰν Ὀδυσσεῖ γῆρυν. ὡς δὲ συντέμω,

ζῶν εἶσ’ ἐς Ἅιδου κἀκφυγὼν λίμνης ὕδωρ

κάκ’ ἐν δόμοισι μυρί’ εὑρήσει μολών.

Dove la tremenda Cariddi abita lo stretto dalla doppia corrente
della roccia, e il crudivoro montano
Ciclope, e la Ligure Circe che trasforma
in maiali, e i naufragi del salso mare,
e le passioni del loto, le sacre vacche del Sole,
che manderanno un giorno carne parlante,
voce amara per Ulisse. Per farla breve,
vivente andrà nell’Ade e sfuggito all’acque della palude
anche in patria di ritorno troverà sciagure a migliaia.

ἀλλὰ γὰρ τί τοὺς Ὀδυσσέως ἐξακοντίζω πόνους;

στεῖχ’ ὅπως τάχιστ’· ἐς Ἅιδου νυμφίῳ γημώμεθα.              445

ἦ κακὸς κακῶς ταφήσῃ νυκτός, οὐκ ἐν ἡμέρᾳ.

Ma dunque perché prendo di mira le pene di Ulisse?
Avviati al più presto; maritiamoci con lo sposino nell’Ade.
Davvero turpe turpemente darai sepolto di notte, non di giorno.

ὦ δοκῶν σεμνόν τι πράσσειν, Δαναϊδῶν ἀρχηγέτα.

κἀμέ τοι νεκρὸν φάραγγες γυμνάδ’ ἐκβεβλημένην

ὕδατι χειμάρρῳ ῥέουσαι, νυμφίου πέλας τάφου,

θηρσὶ δώσουσιν δάσασθαι, τὴν Ἀπόλλωνος λάτριν.            450

Oh tu che ti credi di compiere qualcosa di mirabile, principe dei Danai.
E me, gettata via come nudo cadavere, le gole
in cui scorre acqua in piena, presso il sepolcro dello sposo,
daranno da sbranare alle fiere, me la servitrice di Apollo.

  19 Qui si rivolge a Ecuba, mentre prima stava parlando a Cassandra.

 20 Spesso nelle tragedie i messaggeri e gli araldi sono personaggi spregevoli, in quanto amplificano acriticamente la voce dei potenti come in Oreste, 895-897: τὸ γὰρ γένος τοιοῦτον· ἐπὶ τὸν εὐτυχῆ / πηδῶσ’ ἀεὶ κήρυκες· ὅδε δ’ αὐτοῖς φίλος, / ὃς ἂν δύνηται πόλεος ἔν τ’ ἀρχαῖσιν ᾖ, «giacché è una razza fatta così: dalla parte di chi ha successo / saltano sempre gli araldi; caro a loro è questo, / che abbia il potere della città e sia al comando». Anche in questa tragedia il bersaglio è Taltibio.

sabato 28 settembre 2024

Seneca, Epistulae, 48

 Uu po’ di umanesimo, ne abbiamo bisogno


 2. Alteri vivas oportet, si vis tibi vivere.

 «2. Bisogna che tu viva per l’altro, se vuoi vivere per te stesso».

Euripide, Troiane – primo episodio, vv. 384-405

 

σιγᾶν ἄμεινον τᾀσχρά, μηδὲ μοῦσά μοι

γένοιτ’ ἀοιδὸς ἥτις ὑμνήσει κακά.                                385

Meglio tacere le cose turpi, e che la musa non mi  
diventi una cantatrice che celebrerà dei mali.

Τρῶες δὲ πρῶτον μέν, τὸ κάλλιστον κλέος,

ὑπὲρ πάτρας ἔθνῃσκον· οὓς δ’ ἕλοι δόρυ,

νεκροί γ’ ἐς οἴκους φερόμενοι φίλων ὕπο

ἐν γῇ πατρῴᾳ περιβολὰς εἶχον χθονός,

χερσὶν περισταλέντες ὧν ἐχρῆν ὕπο·                              390

I Troiani invece per prima cosa, ed è la gloria più bella,  
morivano per la patria; quelli che prendeva la lancia, 
portati almeno da morti nelle case dai cari 
avevano nel suolo patrio gli abbracci della terra, 
composti dalle mani di chi doveva;

ὅσοι δὲ μὴ θάνοιεν ἐν μάχῃ Φρυγῶν,

ἀεὶ κατ’ ἦμαρ σὺν δάμαρτι καὶ τέκνοις

ᾤκουν, Ἀχαιοῖς ὧν ἀπῆσαν ἡδοναί. 

quanti poi non morivano in battaglia tra i Frigi, 
sempre giorno dopo giornoabitavano con la sposa 
e i figli, il cui piacere era lontano dagli Achei.

τὰ δ’ Ἕκτορός σοι λύπρ’ ἄκουσον ὡς ἔχει·

δόξας ἀνὴρ ἄριστος οἴχεται θανών,                                395

καὶ τοῦτ’ Ἀχαιῶν ἵξις ἐξεργάζεται·

Invece la sorte di Ettore, per te penosa, ascolta com’è:
se ne è andato morto con la reputazione di uomo ottimo,
e questo la venuta degli Achei lo procurato;

εἰ δ’ ἦσαν οἴκοι, χρηστὸς ὢν ἐλάνθανεν.

Πάρις δ’ ἔγημε τὴν Διός· γήμας δὲ μή,

σιγώμενον τὸ κῆδος εἶχεν ἐν δόμοις.

se invece fossero rimasti in paria, sarebbe sfuggito che era uomo di valore.
Paride poi sposò la figlia di Zeus; se non l’avesse sposata,
avrebbe avuto in casa un parentado oscuro.

φεύγειν μὲν οὖν χρὴ πόλεμον ὅστις εὖ φρονεῖ·

εἰ δ’ ἐς τόδ’ ἔλθοι, στέφανος οὐκ αἰσχρὸς πόλει

καλῶς ὀλέσθαι, μὴ καλῶς δὲ δυσκλεές.

Dunque deve fuggire la guerra, chiunque abbia senno;
se però si è arrivati a questo, è una corona non ignobile per una città
perire nella bellezza, senza bellezza invece è infamante18.

ὧν οὕνεκ’ οὐ χρή, μῆτερ, οἰκτίρειν σε γῆν,

οὐ τἀμὰ λέκτρα· τοὺς γὰρ ἐχθίστους ἐμοὶ

καὶ σοὶ γάμοισι τοῖς ἐμοῖς διαφθερῶ.                            405

Per queste ragioni, madre, non devi compiangere questa terra,
non i miei letti; coloro che sono odiosissimi a me
e a te distruggerò con le mie nozze.

  

 18 Analoghe affermazioni si trovano in Sofocle, Aiace479-80ἀλλἢ καλῶς ζῆν , ἢ καλῶς τεθνηκέναι / τὸν εὐγενῆ χρῆ, «ma è necessario che il nobile / o nella bellezza viva o nella bellezza muoia»; poi anche in Euripide, Ecuba, 378: τὸ γὰρ ζῆν μὴ καλῶς μέγας πόνος, «vivere senza bellezza è una grande pena». Vedi anche il concetto di “giustificazione estetica dell’esistenza”.

Gianni Ghiselli – ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg»



Summum ius summa iniuria

 

 Gli ultimi provvedimenti legislativi mi sembrano comunicare l’intenzione di frenare alcuni reati inasprendo le pene. A parte il fatto che io non sono contento quando puniscono uno dopo che mi ha derubato, ma piuttosto quando non vengo derubato, mi sembra che non sia produttivo agire sull’onda delle emozioni.

 A tal proposito mi sembra interessante quanto dice Cicerone (De officiis, 89), che non era certo un sedizioso rivoluzionario:

Cavendum est etiam ne maior poena quam culpa sit et ne isdem de causis alii plectantur, alii ne appellentur quidem. prohibenda autem maxime est ira puniendo; numquam enim iratus qui accedet ad poenam mediocritatem illam tenebit, quae est inter nimium et parum, quae placet Peripateticis et recte placet, modo ne laudarent iracundiam et dicerent utiliter a natura datam. Illa vero omnibus in rebus repudianda est optandumque, ut ii, qui praesunt rei publicae, legum similes sint, quae ad puniendum non iracundia, sed aequitate ducuntur, «Bisogna anche fare attenzione che la pena non sia maggiore della colpa e che per i medesimi motivi alcuni siano colpiti, altri nemmeno chiamati in causa. Soprattutto deve essere tenuta lontana l’ira nel punire; infatti chi si accinge alla pena in preda all’ira non manterrà mai quella misura, che si trova tra il tropo e il poco, che piace ai Peripatetici e giustamente piace, se solo non lodassero l’iracondia e dicessero che utilmente è stata data dalla natura. Essa però deve essere ripudiata in tutte le situazioni e bisogna auspicare che coloro che sono a capo dello stato, siano simili alle leggi, le quali sono condotte a punire non dall’ira ma dall’equità».

 Il concetto di misura è stato codificato molto incisivamente da Orazio, un altro non particolarmente avverso al potere (Satire, I, 1, vv. 106-7):

est modus in rebus, sunt certi denique fines,

quos ultra citraque nequit consistere rectum.

«C’è una misura nelle cose, ci sono in fondo dei confini precici, / al di là e al di qua dei quali non può trovarsi il giusto».
 

Euripide, Troiane – primo episodio, vv. 353-383

 

ΚΑΣΑΝΔΡΑ

μῆτερ, πύκαζε κρᾶτ’ ἐμὸν νικηφόρον, 

καὶ χαῖρε τοῖς ἐμοῖσι βασιλικοῖς γάμοις·

CASSANDRA
Madre, cingi il mio capo vittorioso,
e gioisci delle mie regali nozze;

καὶ πέμπε, κἂν μὴ τἀμά σοι πρόθυμά γ’ ᾖ,                    355

ὤθει βιαίως· εἰ γὰρ ἔστι Λοξίας,

Ἑλένης γαμεῖ με δυσχερέστερον γάμον

ὁ τῶν Ἀχαιῶν κλεινὸς Ἀγαμέμνων ἄναξ.

e accompagnami, e se per te le mie azioni non sono animate
da buona volontà,
spingimi a forza; se infatti il Lossia c’è,
celebrerà in me nozze più spiacevoli di quelle di Elena,
l’inclito sire degli Achei, Agamennone.

κτενῶ γὰρ αὐτόν, κἀντιπορθήσω δόμους

ποινὰς ἀδελφῶν καὶ πατρὸς λαβοῦσ’ ἐμοῦ.                   360

Lo ammazzerò infatti, e a mia volta devasterò la sua casa
prendendo vendette dei fratelli e di mio padre.

ἀλλ’ ἄττ’ ἐάσω· πέλεκυν οὐχ ὑμνήσομεν,

ὃς ἐς τράχηλον τὸν ἐμὸν εἶσι χἁτέρων· 

μητροκτόνους τ’ ἀγῶνας, οὓς οὑμοὶ γάμοι

θήσουσιν, οἴκων τ’ Ἀτρέως ἀνάστασιν.

Ma lascerò stare certi particolari: non inneggeremo alla scure
che giungerà sul collo mio e di altri;
contese matricide, che le mie nozze
determineranno, e la rovina della casa di Atreo.

πόλιν δὲ δείξω τήνδε μακαριωτέραν                            365

ἢ τοὺς Ἀχαιούς, ἔνθεος μέν, ἀλλ’ ὅμως

τοσόνδε γ’ ἔξω στήσομαι βακχευμάτων·

Dimostrerò che questa città è più felice
degli Achei, posseduta dal dio, certo, ma comunque
almeno per il tempo necessario resterò fuori dai deliri;

οἳ διὰ μίαν γυναῖκα καὶ μίαν Κύπριν,

θηρῶντες Ἑλένην, μυρίους ἀπώλεσαν.

ed essi per una sola donna e una sola Cipride,
dando la caccia a Elena uccisero uomini a migliaia.

ὁ δὲ στρατηγὸς ὁ σοφὸς ἐχθίστων ὕπερ                        370

τὰ φίλτατ’ ὤλεσ’, ἡδονὰς τὰς οἴκοθεν

τέκνων ἀδελφῷ δοὺς γυναικὸς οὕνεκα,

καὶ ταῦθ’ ἑκούσης κοὐ βίᾳ λελῃσμένης.

E il generale, il sapiente, per le ragioni più odiose
distrusse gli affetti più cari, dando via per il fratello
le gioie, quelle di casa, dei figli, per una donna,
e questo per una che voleva e non rapita con la violenza1.

ἐπεὶ δ’ ἐπ’ ἀκτὰς ἤλυθον Σκαμανδρίους,

ἔθνῃσκον, οὐ γῆς ὅρι’ ἀποστερούμενοι                            375

οὐδ’ ὑψίπυργον πατρίδ’· οὓς δ’ Ἄρης ἕλοι,

οὐ παῖδας εἶδον, οὐ δάμαρτος ἐν χεροῖν

πέπλοις συνεστάλησαν, ἐν ξένῃ δὲ γῇ

κεῖνται. τὰ δ’ οἴκοι τοῖσδ’ ὅμοι’ ἐγίγνετο·

ma dopo che giunsero alle rive dello Scamandro,
morivano, non perché privati della terra nei confini
né della patria dalle alte torri; ma quelli che Ares prendeva,
non i figli videro, non nelle mani della sposa
furono avvolti in pepli, ma in terra straniera
giacciono. La situazione a casa era simile a questa:

χῆραί τ’ ἔθνῃσκον, οἳ δ’ ἄπαιδες ἐν δόμοις                    380

ἄλλοις τέκν’ ἐκθρέψαντες· οὐδὲ πρὸς τάφοις

ἔσθ’ ὅστις αὐτῶν αἷμα γῇ δωρήσεται.

ἦ τοῦδ’ ἐπαίνου τὸ στράτευμ’ ἐπάξιον. 

vedove morivano le donne, e senza figli gli uomini nelle case
per altri avendo cresciuto i bambini; e non c’è chi
sui loro sepolcri donerà il sangue alla terra.
Davvero un spedizione proprio degna di questo elogio!2


  1 Questo è un attacco illuministico all’idea che le azioni umane siano determinate da fattori esterni, quali gli interventi delle divinità.

  2 Tutto il passo sembra alludere alle possibili conseguenze della spedizione in Sicilia.
  Tra l’altro, a quanto ci riferisce Plutarco (Vita di Nicia, 29, 2-5), alcuni Ateniesi dovettero la propria salvezza alla conoscenza delle tragedie di Euripide: ἐβοήθει δὲ τούτοις ἥ τ' αἰδὼς καὶ τὸ κόσμιον· ἢ γὰρ ἠλευθεροῦντο ταχέως, ἢ τιμώμενοι παρέμενον τοῖς κεκτημένοις. ἔνιοι δὲ καὶ δι' [3] Εὐριπίδην ἐσώθησαν. […] τότε γοῦν φασι τῶν σωθέντων οἴκαδε συχνοὺς ἀσπάζεσθαί τε τὸν Εὐριπίδην φιλοφρόνως, καὶ διηγεῖσθαι τοὺς μὲν ὅτι δουλεύοντες ἀφείθησαν, ἐκδιδάξαντες ὅσα τῶν ἐκείνου ποιημάτων ἐμέμνηντο, τοὺς δ' ὅτι πλανώμενοι μετὰ τὴν μάχην τροφῆς καὶ ὕδατος μετελάμβανον [5] τῶν μελῶν ᾄσαντες. «Li soccorreva il pudore e l’educazione: infatti o furono liberati presto, o rimasero presso i padroni, tenuti in grande onore. Alcuni poi si salvarono anche grazie a Euripide. […] In quella circostanza dinque, dicono che parecchi tra coloro che si salvarono tornando a casa abbracciassero Euripide affettuosamente, e raccontassero alcuni che da schiavi che erano furono lasciati andare, dopo aver insegnato quanto ricordarono dei suoi componimenti, altri che vagando dopo la battaglia otenevano in cambio cibo e acqua dopo aver cantato i suoi versi». Siamo nel 413 a.C.; tutti gli altri sopravvissuti furono rinchiusi nelle Latomie di Siracusa, cave di pietra adiacenti al teatro, ancora oggi visitabili.

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