giovedì 31 ottobre 2024

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Euripide, Baccanti – terzo episodio: vv. 734-747 – testo e traduzione – Maturità 2025

 

ἡμεῖς μὲν οὖν φεύγοντες ἐξηλύξαμεν

βακχῶν σπαραγμόν, αἱ δὲ νεμομέναις χλόην         735

μόσχοις ἐπῆλθον χειρὸς ἀσιδήρου μέτα.

Noi dunque fuggendo scampammo
al dilaniamento delle baccanti, mentre quelle assalirono
delle vacche, che pascolavano l’erba, con mano senza ferro.

καὶ τὴν μὲν ἂν προσεῖδες εὔθηλον πόριν

μυκωμένην ἕλκουσαν ἐν χεροῖν δίχα,

ἄλλαι δὲ δαμάλας διεφόρουν σπαράγμασιν.

E avresti visto una che tirava tra le mani di qua e di là
una giovenca dalle floride mammelle che muggiva,
e le altre favecano a pezzi le vitelle dilaniandole.

εἶδες δ' ἂν ἢ πλεύρ' ἢ δίχηλον ἔμβασιν         740

ῥιπτόμεν' ἄνω τε καὶ κάτω· κρεμαστὰ δὲ

ἔσταζ' ὑπ' ἐλάταις ἀναπεφυρμέν' αἵματι.

Avresti visto fianchi o uno zoccolo dall’unghia fessa
scagliati su e giù; e pezzi pendenti
gocciolavano dagli abeti impastati di sangue.

ταῦροι δ' ὑβρισταὶ κἀς κέρας θυμούμενοι

τὸ πρόσθεν ἐσφάλλοντο πρὸς γαῖαν δέμας,

μυριάσι χειρῶν ἀγόμενοι νεανίδων·         745

Tori sfrenati e che sfogavano la furia in cornate fino a
quel momento, venivano rovesciati col corpoa terra,
trascinati da miriadi di mani di fanciulle;
 

θᾶσσον δὲ διεφοροῦντο σαρκὸς ἐνδυτὰ

ἢ σὲ ξυνάψαι βλέφαρα βασιλείοις κόραις.

e venivano fatte a pezzi le vesti di carne più velocemente
di quanto tu potresti stringere le palpebre sulle regali pupille.

 

Euripide, Baccanti – terzo episodio: vv. 714-733 – testo e traduzione – Maturità 2025

 

ξυνήλθομεν δὲ βουκόλοι καὶ ποιμένες

κοινῶν λόγων δώσοντες ἀλλήλοις ἔριν                 715

[ὡς δεινὰ δρῶσι θαυμάτων τ' ἐπάξια].

Ci riunimmo dunque bovari e pastori
per dare gli uni algli altri una contesa di comuni parole
[come se facessero cose terribili e degni di meraviglia].

καί τις πλάνης κατ' ἄστυ καὶ τρίβων λόγων

ἔλεξεν εἰς ἅπαντας· Ὦ σεμνὰς πλάκας

ναίοντες ὀρέων, θέλετε θηρασώμεθα

Πενθέως Ἀγαυὴν μητέρ' ἐκ βακχευμάτων                720

χάριν τ' ἄνακτι θώμεθ'; εὖ δ' ἡμῖν λέγειν

ἔδοξε, θάμνων δ' ἐλλοχίζομεν φόβαις

κρύψαντες αὑτούς. αἱ δὲ τὴν τεταγμένην

ὥραν ἐκίνουν θύρσον ἐς βακχεύματα,

Ἴακχον ἀθρόῳ στόματι τὸν Διὸς γόνον                725

Βρόμιον καλοῦσαι· πᾶν δὲ συνεβάκχευ' ὄρος

καὶ θῆρες, οὐδὲν δ' ἦν ἀκίνητον δρόμῳ.

E uno, vagabondo di città e consumato nei discorsi,
disse a tutti: “O voi che abitate le sacre contrade
dei monti, volete che cacciamo fuori
dai baccanali Agave, madre di Penteo
e facciamo un favore al signore?” Ci sembrò
parlare bene, ma stiamo in agguato nascondendoci
tra il fogliame dei cespugli. Quelle però all’ora
stabilita agitavano il tirso ai baccanali,
invocando Iacco il figlio di Zeus, Bromio, con una sola
voce; il monte baccheggiava tutto
e anche le fiere, e non c’era nulla che non fosse mosso dalla corsa.

κυρεῖ δ' Ἀγαυὴ πλησίον θρῴσκουσ' ἐμοῦ,

κἀγὼ 'ξεπήδησ' ὡς συναρπάσαι θέλων,

λόχμην κενώσας ἔνθ' ἐκρύπτομεν δέμας.                730

Ma ecco che Agave si trova a balzare vicino a me,
ed io saltai fuori come volendo agguantarla,
dopo aver abbandonato il cespuglio dove nascondevamo il corpo.

ἡ δ' ἀνεβόησεν· Ὦ δρομάδες ἐμαὶ κύνες,

θηρώμεθ' ἀνδρῶν τῶνδ' ὕπ'· ἀλλ' ἕπεσθέ μοι,

ἕπεσθε θύρσοις διὰ χερῶν ὡπλισμέναι.

Ma quella levò un grido: “O mie cagne veloci,
siamo insidiate da questi uomini; su, seguitemi,
seguitemi armate le mani di tirsi”.


Educazione e disciplina – fine

Percorso completo con pdf nella sezione «Pagine»


 Torniamo alla disciplina, la quale è uno dei valori celebrati da Tito Livio. L’episodio si trova nel libro VIII, 7. Tito Manlio Torquato (omonimo del figlio), console durante la guerra contro i Latini (340-338 a.C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:

‘quandoque’ inquit, ‘tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res, solvisti meque in eam necessitatem adduxisti, ut aut rei publicae mihi aut mei [meorum] obliviscendum sit, nos potius nostro delicto plectemur quam res publica tanto suo damno nostra peccata luat; triste exemplum sed in posterum salubre iuventuti erimus. Me quidem cum ingenita caritas liberum tum specimen istud virtutis deceptum vana imagine decoris in te movet; sed cum aut morte tua sancienda sint consulum imperia aut impunitate in perpetuum abroganda, nec te quidem, si quid in te nostri sanguinis est, recusare censeam, quin disciplinam militarem culpa tua prolapsam poena restituas – i, lictor, deliga ad palum’. 
«Dal momento che tu, disse, Tito Manlio, non rispettando né il comando del console né l’autorità del padre, combattesti contro il nemico contravvenendo a un nostro ordine fuori dallo schieramento e, per quanto fu in te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale si basò fino ad ora la potenza romana, e hai posto me nella necessità di dovermi dimenticare o della Repubblica o di me stesso, espiamo noi il nostro delitto piuttosto che sia la Repubblica a pagare con così grave danno le nostre colpe; saremo un esempio triste ma salutare per i giovani in futuro. Certo mi dispone a tuo favore non soltanto l’innato affetto per i figli, ma anche questa prova di valore, mascherata dietro un falso miraggio di gloria; ma siccome i comandi del console devono o essere resi inviolabili con la tua morte o aboliti per sempre con l’impunità, penso che non vorrai rifiutarti, se c’è in te un po’ del nostro sangue, di ristabilire con la tua punizione la disciplina militare rilassata per colpa tua – va’, littore, legalo al palo!».

 Se da un lato viene messa in rilievo l’importanza della disciplina, dall’altro viene segnalata anche la necessità del riposo e del gioco.

Cosi Seneca (Epistole, II, 15, 6):

Neque ego te iubeo semper imminere libro aut pugillaribus: dandum est aliquod intervallum animo, ita tamen ut non resolvatur, sed remittatur. 
«6. Né io ti ordino di stare sempre sopra a un libro o a delle tavolette: si deve concedere un qualche intervallo all’animo, tuttavia non così che si snervi, ma che si rimetta in forze».

 Un cencetto identico si trova in Seneca, De tranquillitate animi, XVII, 5:

Danda est animis remissio: meliores acrioresque requieti surgent. Vt fertilibus agris non est imperandum (cito enim illos exhauriet numquam intermissa fecunditas), ita animorum impetus assiduus labor franget; uires recipient paulum resoluti et remissi. Nascitur ex assiduitate laborum animorum hebetatio quaedam et languor, 
«Si deve concedere agli animi distensione; rinasceranno migliori e più acuti una volta riposati. Come non bisogna dare ordini ai campi fertili (presto infatti li esaurirà una fecondità mai interrotta), così la fatica continua spezzerà gli slanci degli animi; recupereranno le forze un poco rilassati e distesi. Nasce dall’assiduità delle fatiche un certo stordimento e stanchezza degli animi».

 

 Similmente anche Quintiliano, Institutio, I, 8-12:

Danda est tamen omnibus aliqua remissio, non solum quia nulla res est quae perferre possit continuum laborem, atque ea quoque quae sensu et animā carent ut servare vim suam possint velut quiete alternā retenduntur, sed quod studium discendi voluntate, quae cogi non potest, constat. Itaque et virium plus adferunt ad discendum renovati ac recentes et acriorem animum, qui fere necessitatibus repugnat. Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illum tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. Mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt, 
«Bisogna dare comunque a tutti un po’ di distensione, non solo perché non c’è nessuna cosa che possa sostenere una fatica continua, e anche quelle cose che sono prive di sensibilità e anima, per conservare la propria forza si rilassano con una quiete per così dire alternata, ma poiché lo studio è fatto di volontà di imparare, che non può essere costretta (N.d.R.: cfr. Seneca, Epistulae, X, 81, 13: velle non discitur, «il volere non si impara»). E così apportano sia  più forze all’apprendimento rinnovati e freschi sia un animo più acuto, che in genere si oppone alle costrizioni. Né mi può offendere il gioco nei bambini (anche questo è un segno di vivacità), né potrei sperare che quello triste e sempre depresso sarà di mente intenta allo studio, dato che si intorpidisce anche in questo slancio massimamente naturale in quelle età. Ci sia tuttavia un misura per le distensioni, affinché non producano o odio per gli studi se negate o abitudine all’zio se troppe. Ci sono anche alcuni non inutili giochi per acuire le intelligenze dei bambini, quando gareggiano ponendosi a vicenda domandine di qualsiasi genere. I caratteri anche si scoprono più schiettamente in mezzo al gioco».

 

 Sul valore assoluto dell’educazione cfr. Platone, Gorgia, 470e:

οὐ γὰρ οἶδα παιδείας ὅπως ἔχει καὶ δικαιοσύνης,

«non so infatti come sta quanto a educazione e a giustizia».

È quanto risponde Socrate a Polo, suo interlocutore, il quale osserva che molti pur commettendo ingiustizia sono felici e a dimostrazione di ciò cita prima il re di Macedonia Archelao poi il Gran Re, dei quali però Socrate non si sente di affermare se sono felici perché non li conosce.

Euripide, Baccanti – terzo episodio: vv. 699-713 – testo e traduzione – Maturità 2025

αἱ δ' ἀγκάλαισι δορκάδ' ἢ σκύμνους λύκων

ἀγρίους ἔχουσαι λευκὸν ἐδίδοσαν γάλα,         700

ὅσαις νεοτόκοις μαστὸς ἦν σπαργῶν ἔτι

βρέφη λιπούσαις· ἐπὶ δ' ἔθεντο κισσίνους

στεφάνους δρυός τε μίλακός τ' ἀνθεσφόρου.

 Altre, tenendo tra le braccia un capriolo o cuccioli
selvatici di lupi, davano bianco latte,
quante, fresche di parto, ancora avevano la mammella turgida
dopo aver lasciato i neonati; poi si misero corone
di edera e di quercia e di florido smilace.

θύρσον δέ τις λαβοῦσ' ἔπαισεν ἐς πέτραν,

ὅθεν δροσώδης ὕδατος ἐκπηδᾷ νοτίς·         705 

Una quindi preso il tirso lo battè su una roccia,
da cui zampilla umore di acqua rugiadosa;

ἄλλη δὲ νάρθηκ' ἐς πέδον καθῆκε γῆς

καὶ τῇδε κρήνην ἐξανῆκ' οἴνου θεός·

un’altra conficcò nel suolo, nella terra una verga
e lì il dio fece sgorgare una sorgente di vino;

ὅσαις δὲ λευκοῦ πώματος πόθος παρῆν,

ἄκροισι δακτύλοισι διαμῶσαι χθόνα

γάλακτος ἑσμοὺς εἶχον· ἐκ δὲ κισσίνων         710

θύρσων γλυκεῖαι μέλιτος ἔσταζον ῥοαί.

quante poi avevano desiderio di bianca pozione,
scalfendo la terra con la punta delle dita
ottenevano fiotti di latte; invece dai tirsi ricoperti
di edera stillavano dolci flussi di miele.

ὥστ', εἰ παρῆσθα, τὸν θεὸν τὸν νῦν ψέγεις

εὐχαῖσιν ἂν μετῆλθες εἰσιδὼν τάδε 

Sicché, se tu fossi stato presente, il dio che ora biasimi
con preghiere lo avresti supplicato vedendo questi prodigi.

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mercoledì 30 ottobre 2024

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Educazione e disciplina – 1° parte


 Il re spartano Archidamo, parlando, alla vigilia della guerra del Peloponneso, all’assemblea dei Peloponnesiaci, invita a confidare nella propria disciplina (Tucidide, I, 84, 4): πολύ τε διαφέρειν οὐ δεῖ νομίζειν ἄνθρωπον ἀνθρώπου, κράτιστον δὲ εἶναι ὅστις ἐν τοῖς ἀναγκαιοτάτοις παιδεύεται, «non si deve ritenere che un uomo sia molto diverso da un altro uomo, ma che il più forte sia colui che è educato nelle più grandi costrizioni».

Petronio, all’inizio del Satyricon, attraverso le parole del maestro Agamennone, attribuisce la responsabilità della decadenza dell’eloquenza alla mancanza di disciplina (4):

Parentes obiurgatione digni sunt, qui nolunt liberos suos severa lege proficere. Primum enim sic ut omnia, spes quoque suas ambitioni donant. Deinde cum ad vota properant, cruda adhuc studia in forum impellunt, et eloquentiam, qua nihil esse maius confitentur, pueris induunt adhuc nascentibus. Quod si paterentur laborum gradus fieri, ut studiosi iuvenes lectione severa irrigarentur, ut sapientiae praeceptis animos componerent, ut verba atroci stilo effoderent, ut quod vellent imitari diu audirent, <ut persuaderent> sibi nihil esse magnificum quod pueris placeret: iam illa grandis oratio haberet maiestatis suae pondus
«Sono meritevoli di rimprovero i genitori, che non vogliono che i propri figli progrediscano con dura disciplina. Innanzitutto infatti così come tutte le cose, donano all’ambizione anche le proprie speranze. Poi, quando si affrettano ai desideri, spingono nel foro talenti ancora acerbi, e fanno indossare a fanciulli che stanno ancora nascendo, l’eloquenza, di cui dichiarano che nulla è più grande. E se lasciassero che l’impegno fosse graduale, così che i giovani studiosi fossero irrigati da serie letture, che ordinassero gli animi con i precetti della sapienza, che scavassero le parole con penna implacabile, che ascoltassero a lungo ciò che vogliono imitare, che si persuadessero che niente che piaccia ai fanciulli è magnifico: allora quella grande orazione avrebbe il peso della sua maestà».

 Quintiliano (Institutio oratoria, II, 6-8) lamenta più che l’ambizione dei genitori l’eccessiva indulgenza:

Vtinam liberorum nostrorum mores non ipsi perderemus! Infantiam statim deliciis solvimus. Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit. Quid non adultus concupiscet qui in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit, iam coccum intellegit, iam conchylium poscit. VII. Ante palatum eorum quam os instituimus. In lecticis crescunt: si terram attigerunt, e manibus utrimque sustinentium pendent. Gaudemus si quid licentius dixerint: verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo excipimus. Nec mirum: nos docuimus, ex nobis audierunt; VIII. nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur. Fit ex his consuetudo, inde natura. Discunt haec miseri antequam sciant vitia esse: inde soluti ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas adferunt
«Magari non fossimo noi a rovinare i costumi dei nostri figli! Dissolviamo l’infanzia fin da subito nei piaceri. Quella molle educazione che chiamiamo indulgenza, spezza tutte le energie della mente e del corpo. Che cosa non desidererà da adulto chi striscia nella porpora? Non pronuncia ancora le prime parole, già capisce coccum, già chiede l’ostrica. 7. Istruiamo prima il loro palato che la bocca. Crescono nelle lettighe: se hanno toccato la terra, pendono dalle meni di chi li sostiene da entrambi i lati. Godiamo se dicono qualcosa di particolarmente licenzioso: accogliamo con un sorriso e un bacio parole che non devono essere permesse nemmeno ad amori alessandrini. E non c’è da meravigliarsi: non gliele abbiamo insegnate, da noi le hanno ascoltate; 8. vedono le nostre amanti, i nostri concubini; ogni banchetto strepita di canti osceni, si guardano cose di cui vergognarsi anche solo a parlare. Da questi comportamenti si forma l’abitudine, quindi l’indole. Imparano queste cose, infelici, prima di sapere che sono vizi: quindi, sfrenati e snervati, non ricevono dalle scuole questi mali, ma li portano nelle scuole».

 Già Seneca commentava ironicamente la corruzione di Roma nel De beneficiis (III, 16): Numquid iam ullus adulterii pudor est, postquam eo uentum est, ut nulla uirum habeat, nisi ut adulterum inritet? Argumentum est deformitatis pudicitia, «forse c’è ancora qualche pudore per l’adulterio, da quando si è giunti al punto che nessuna ha un marito, se non per ingelosire l’amante? la pudicizia è un indizio di bruttezza».

martedì 29 ottobre 2024

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Euripide, Baccanti – terzo episodio: vv. 672-698 – testo e traduzione – Maturità 2025

 

Πε.

λέγ', ὡς ἀθῷος ἐξ ἐμοῦ πάντως ἔσῃ·

[τοῖς γὰρ δικαίοις οὐχὶ θυμοῦσθαι χρεών.]

ὅσῳ δ' ἂν εἴπῃς δεινότερα βακχῶν πέρι,

τοσῷδε μᾶλλον τὸν ὑποθέντα τὰς τέχνας         675

γυναιξὶ τόνδε τῇ δίκῃ προσθήσομεν.

Pe.
Parla, in quanto da parte mia sarai incolume comunque:
[infatti non bisogna andare in collera coi giusti.]
Quanto più terribili saranno le cose che dirai sulle baccanti,
tanto più assicureremo alla giustizia costui
che ha ispirato le sue arti alle donne.

Αγ.

ἀγελαῖα μὲν βοσκήματ' ἄρτι πρὸς λέπας

μόσχων ὑπεξήκριζον, ἡνίχ' ἥλιος

ἀκτῖνας ἐξίησι θερμαίνων χθόνα.

Me.
Poco fa scalavo la montagna portando al pascolo
le mandrie dei bovini, quando il sole
emette i raggi riscaldando la terra.

ὁρῶ δὲ θιάσους τρεῖς γυναικείων χορῶν,         680

ὧν ἦρχ' ἑνὸς μὲν Αὐτονόη, τοῦ δευτέρου

μήτηρ Ἀγαυὴ σή, τρίτου δ' Ἰνὼ χοροῦ.

E vedo tre tiasi di cori femminili,
dei quali uno lo guidava Autonoe, il secondo
tua madre Agave, il terzo coro Ino.

ηὗδον δὲ πᾶσαι σώμασιν παρειμέναι,

αἱ μὲν πρὸς ἐλάτης νῶτ' ἐρείσασαι φόβην,

αἱ δ' ἐν δρυὸς φύλλοισι πρὸς πέδῳ κάρα         685

εἰκῇ βαλοῦσαι σωφρόνως, οὐχ ὡς σὺ φῂς

ὠινωμένας κρατῆρι καὶ λωτοῦ ψόφῳ

θηρᾶν καθ' ὕλην Κύπριν ἠρημωμένας.

Dormivano tutte con i corpi rilassati,
alcune avendo appoggiato la schiena alla chioma di un abete,
altre avendo gettato alla buona il capo a terra
sulle foglie di una quercia, castamente, non come dici tu,
cioè che in preda al vino con una coppa e a suon di flauto
andassero a caccia di Cipride per il bosco, appartate.

ἡ σὴ δὲ μήτηρ ὠλόλυξεν ἐν μέσαις

σταθεῖσα βάκχαις ἐξ ὕπνου κινεῖν δέμας,         690

μυκήμαθ' ὡς ἤκουσε κεροφόρων βοῶν.

Tua madre gridò alzatasi in mezzo
alle baccanti di scuotere il corpo dal sonno ,
non appena udì i muggiti dei buoi corniferi.

αἱ δ' ἀποβαλοῦσαι θαλερὸν ὀμμάτων ὕπνον

ἀνῇξαν ὀρθαί, θαῦμ' ἰδεῖν εὐκοσμίας,

νέαι παλαιαὶ παρθένοι τ' ἔτ' ἄζυγες.

E le altre scrollandosi dagli occhi il florido sonno
si drizzarono in piedi, meraviglia di coordinazione a vedersi,
giovani e vecchie e vergini non ancora aggiogate dal matrimonio.

καὶ πρῶτα μὲν καθεῖσαν εἰς ὤμους κόμας                    695

νεβρίδας τ' ἀνεστείλανθ' ὅσαισιν ἁμμάτων

σύνδεσμ' ἐλέλυτο, καὶ καταστίκτους δορὰς

ὄφεσι κατεζώσαντο λιχμῶσιν γένυν.

E dapprima sciolsero le chiome sulle spalle
e piegarono in su le nebridi a quante il nodo
dei lacci si era sciolto, e le pelli maculate
cinsero con serpenti che leccavano la guancia. 

Euripide, Baccanti – terzo episodio: vv. 660-671 – testo e traduzione – Maturità 2025


ΑΓΓΕΛΟΣ

Πενθεῦ κρατύνων τῆσδε Θηβαίας χθονός,         660

ἥκω Κιθαιρῶν' ἐκλιπών, ἵν' οὔποτε

λευκῆς χιόνος ἀνεῖσαν εὐαγεῖς βολαί.

MESSAGGERO
O Penteo che domini su questa terra,
sono venuto dopo aver lasciato il Citerone, dove mai
le luccicanti cascate della candida neve cessano.

Πε.

ἥκεις δὲ ποίαν προστιθεὶς σπουδὴν λόγου;

Pe.

Ma sei venuto ad aggiungere quale gravità di parole?

Αγ.

βάκχας ποτνιάδας εἰσιδών, αἳ τῆσδε γῆς

οἴστροισι λευκὸν κῶλον ἐξηκόντισαν,         665

ἥκω φράσαι σοι καὶ πόλει χρῄζων, ἄναξ,

ὡς δεινὰ δρῶσι θαυμάτων τε κρείσσονα.

Me.
Siccome vidi le venerande baccanti, che fuori da
questa terra nel furore lanciarono il bianco piede,
sono venuto perché voglio annunciare a te e alla città, signore,
che compiono azioni terribili e più che prodigiose.

θέλω δ' ἀκοῦσαι πότερά σοι παρρησίᾳ

φράσω τὰ κεῖθεν ἢ λόγον στειλώμεθα·

τὸ γὰρ τάχος σου τῶν φρενῶν δέδοικ', ἄναξ,         670

καὶ τοὐξύθυμον καὶ τὸ βασιλικὸν λίαν.   

Ma voglio sapere se posso riferire con franchezza
le cose di là oppure dobbiamo frenare la parola:
io temo infatti l’irruenza del tuo animo, signore,
e l’asprezza e l’eccesso di regalità.

 

I messaggeri sono spesso personaggi meschini nella tragedia, perché servi del potere. Cfr. Eschilo, Agamennone, 36-37: βοῦς ἐπὶ γλώσσῃ μέγας / βέβηκεν, «c’è un grosso bue sulla lingua» (si tratta della guardia che nel prologo esprime con queste parole l’intenzione di non riferire ad Agamennone quanto successo in patria in sua assenza, cioè che è stato tradito e spodestato); Euripide, Troiane, 424-426: ἦ δεινὸς ὁ λάτρις. τί ποτ’ ἔχουσι τοὔνομα / κήρυκες, ἓν ἀπέχθημα πάγκοινον βροτοῖς, / οἱ περὶ τυράννους καὶ πόλεις ὑπηρέται, «Davvero tremendo il servo! Perché mai hanno il nome / di "araldi", unico odio comune a tutti i mortali, / questi servitori al seguito di tiranni e città?» (cosi si rivolge Cassandra a Taltibio); Oreste, 895-897: τὸ γὰρ γένος τοιοῦτον· ἐπὶ τὸν εὐτυχῆ / πηδῶσ’ ἀεὶ κήρυκες· ὅδε δ’ αὐτοῖς φίλος, / ὃς ἂν δύνηται πόλεος ἔν τ’ ἀρχαῖσιν ᾖ, «giacché è una razza fatta così: dalla parte di chi ha successo / saltano sempre gli araldi; caro a loro è questo, / che abbia il potere della città e sia al comando». Anche in questa tragedia il bersaglio è Taltibio.

«L’eccesso di regalità», in greco τὸ βασιλικὸν λίαν, è un cauto eufemismo per «la tua tempra irascibile». 

Platone, Ippia minore – sulla volontarietà del male – 3° parte

 Ippia ha spostato la discussione sul piano morale, quello del bene e del male, ma Socrate rimane del suo parere (372d):

ἐμοὶ γὰρ φαίνεται, ὦ Ἱππία, πᾶν τοὐναντίον ἢ ὃ σὺ λέγεις· οἱ βλάπτοντες τοὺς ἀνθρώπους καὶ ἀδικοῦντες καὶ ψευδόμενοι καὶ ἐξαπατῶντες καὶ ἁμαρτάνοντες ἑκόντες ἀλλὰ μὴ ἄκοντες, βελτίους εἶναι ἢ οἱ ἄκοντες.

«A me infatti sembra, o Ippia, tutto il contrario di quello che dici tu: coloro che danneggiano gli uomini e commettono ingiustizia e mentono e ingannano e sbagliano volontariamente, non invece involontariamente, sono migliori di coloro che lo fanno involontariamente».


La parte finale del dialogo presenta una serie di esempi in cui il filo conduttore è che per voler fare qualcosa male bisogna saperla fare bene, dunque la volontà di fare il male presuppone la capacità di fare il bene; il più convincente è questo (374c):


Πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας κεκτῆσθαι ἑκουσίως χωλαίνοντας ἢ ἀκουσίως;

«Preferiresti possedere dei piedi che zoppicano volontariamente o involontariamente?».


Questa è la conclusione paradossale (376a):


ἡ δυνατωτέρα καὶ ἀμείνων ψυχή, ὅτανπερ ἀδικῇ, ἑκοῦσα ἀδικήσει, ἡ δὲ πονηρὰ ἄκουσα.

«L’anima più capace e migliore, qualora appunto commetta ingiustizia, la commetterà volontariamente, mentre quella malvagia involontariamente».

Platone, Ippia minore – sulla volontarietà del male – 2° parte

 

Ippia argomenta sulla falsità di Odisseo giocando sui termini τρόπος («carattere, ingegno») e πολύτροπος («dal multiforme ingegno»), in quanto dalle parole di Omero emerge il carattere (τρόπος) ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, «veritiero e schietto» di Achille, πολύτροπος τε καὶ ψευδής, «dall’ingegno multiforme e falso» di Odisseo.

A questo punto Socrate lo confuta sostenendo che il più scaltro in realtà è Achille il quale, nei versi successivi, prima dice a Odisseo che non tornerà ma l’indomani partirà con la nave (vv. 356-61) e poco dopo dice ad Aiace che aspetterà Ettore presso la sua nave (vv. 654-655). Siccome infatti Odisseo οὐδὲν γοῦν φαίνεται εἰπὼν πρὸς αὐτὸν ὡς αἰσθανόμενος αὐτοῦ ψευδομένου, «è evidente che non dice niente a lui come se si fosse accorto che sta mentendo» (371a),  allora significa che Omero ha fatto Achille tanto scaltro da superare Odisseo nella sua stessa arte, concedendosi addirittura il lusso di contraddirsi davanti a lui. Come minimo Achille e Odisseo sono dunque sullo stesso piano.

Queste argomentazioni socratiche hanno lo scopo di indurre Ippia a dire quello che Socrate vuole, cioè che in verità  Achille è comunque migliore in quanto (371e):


ταῦτα ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς πρὸς τὸν Αἴαντα ἄλλα εἶπεν ἢ πρὸς τὸν Ὀδυσσέα· ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς ἅ τε ἀληθῆ λέγει, ἐπιβουλεύσας ἀεὶ λέγει, καὶ ὅσα ψεύδεται, ὡσαύτως,

«indotto dalla semplicità ha detto queste cose ad Aiace diversamente che a Odisseo; Odisseo invece le cose vere che dice, le dice sempre avendole premeditate, e quelle false allo stesso modo».


Poco prima però (367a: in quel momento si parlava di calcolo, ma il concetto viene assunto anche come norma generale) si era convenuto sul fatto che:


ὁ μὲν ἀμαθὴς πολλάκις ἂν βουλόμενος ψευδῆ λέγειν τἀληθῆ ἂν εἴποι ἄκων, εἰ τύχοι, διὰ τὸ μὴ εἰδέναι, σὺ δὲ ὁ σοφός, εἴπερ βούλοιο ψεύδεσθαι, ἀεὶ ἂν κατὰ τὰ αὐτὰ ψεύδοιο,

«l’ignorante spesso, pur volendo dire il falso, potrebbe dire il vero involontariamente, caso mai, per il fatto di non sapere, mentre il sapiente, come te, se volesse dire il falso, direbbe il falso sempre nello stesso modo».


La logica conclusione è che Odisseo è migliore di Achille, ma Ippia non la accetta (371e-372a):


Καὶ πῶς ἄν, ὦ Σώκρατες, οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες καὶ [372] [a] ἑκόντες ἐπιβουλεύσαντες καὶ κακὰ ἐργασάμενοι βελτίους ἂν εἶεν τῶν ἀκόντων, οἷς πολλὴ δοκεῖ συγγνώμη εἶναι, ἐὰν μὴ εἰδώς τις ἀδικήσῃ ἢ ψεύσηται ἢ ἄλλο τι κακὸν ποιήσῃ; καὶ οἱ νόμοι δήπου πολὺ χαλεπώτεροί εἰσι τοῖς ἑκοῦσι κακὰ ἐργαζομένοις καὶ ψευδομένοις ἢ τοῖς ἄκουσιν.

«E come, o Socrate, coloro che commettono ingiustizia volontariamente e che volontariamente premeditano e attuano dei mali sarebbero migliori di coloro che agiscono così involontariamente, per i quali pare esserci molta indulgenza, qualora uno senza saperlo commetta ingiustizia o menta o compia un qualche altro male? Anche le leggi in fin dei conti sono molto più dure con coloro che compiono volontariamente dei mali e mentono piuttosto che con chi lo fa involontariamente».

Platone, Ippia minore – sulla volontarietà del male – 1° parte

 

Il dialogo, breve, verte sul problema se l’involontarietà nel compiere il male sia o meno un’attenuante.

Si parte da una una questione posta da Socrate al sofista Ippia di Elide (364b):


ἀτὰρ τί δὴ λέγεις ἡμῖν περὶ τοῦ Ἀχιλλέως τε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως; πότερον ἀμείνω καὶ κατὰ τί φῂς εἶναι;

«Ma cosa ci dici a proposito di Achille e di Odisseo? chi dei due dici che è migliore e secondo cosa?»


Ippia risponde così (364c):


φημὶ γὰρ Ὅμηρον πεποιηκέναι ἄριστον μὲν ἄνδρα Ἀχιλλέα τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, σοφώτατον δὲ Νέστορα, πολυτροπώτατον δὲ Ὀδυσσέα.

«Dico infatti che Omero ha fatto Achille come l’uomo migliore tra quelli giunti a Troia, Nestore il più sapiente, Odisseo il più multiforme nell’ingegno».


L’aggettivo πολύτροπος, usato qui al superlativo e nel senso di «scaltro», «tessitore d’inganni», è invece l’epiteto che caratterizza positivamente l’eroe nel primo verso dell’Odissea, di cui riporto il proemio (vv. 1-3):


Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ

πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσε·

πολλῶν δ' ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,

«L’uomo a me narra, o Musa, versatile, che davvero molto / vagò, dopo che distrusse la sacra rocca di Troia; / di molti uomini vide le città e conobbe la mente».


Ippia specifica, poco dopo il suo pensiero, aggiungendo che Achille è ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος (364d), «schietto e veritiero al massimo», come emerge dai versi citati (Iliade, X, 308-314) che non casualmente Omero fa pronunciare da Achille nei confronti di Odisseo:


Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν' Ὀδυσσεῦ,

χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν,

ὥσπερ δὴ κρανέω τε καὶ ὡς τελέεσθαι ὀίω·

ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν,

ὅς χ' ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ.

αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω, ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται.

«Laerziade di stirpe divina, Odisseo dalle molte risorse, / è necessario certo manifestare francamente il pensiero, come lo realizzerò e come penso che si compirà; / infatti quello mi è odioso come le porte dell’Ade, / che una cosa occulti nel cuore, un’altra dica. / Ma io dirò come anche sarà compiuto».


Il testo originale è leggermente diverso:

διογενὲς Λαερτιάδη πολυμήχαν' Ὀδυσσεῦ

χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν,

ᾗ περ δὴ φρονέω τε καὶ ὡς τετελεσμένον ἔσται,

ὡς μή μοι τρύζητε παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλος.

ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν

ὅς χ' ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ.

αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα·


In questi versi Achille, dopo aver accolto amichevolmente i tre ambasciatori (Fenice, Aiace e Odisseo), rifiuta sdegnato la proposta di Odisseo che su mandato di Agamennone gli promette, in cambio del ritorno ai posti di combattimento, una ricca ricompensa: sette tripodi, dieci talenti d’oro, venti lebeti, dodici cavalli campioni e in più sette donne lesbie, oltre a Briseide (con la quale, assicura, Agamennone non si è ancora accoppiato), subito, e dopo la conquista di Troia altre venti tra le prigioniere (le più belle dopo Elena); infine bottino a non finire. Al ritorno in patria Agamennone gli avrebbe poi dato in sposa una delle tre figlie (Crisotemi, Laodice, Ifianassa) con sette castelli in dote.

domenica 27 ottobre 2024

Giovanni Ghiselli: Solitudine, pubblicità e rifiuto della pubblicità.

Giovanni Ghiselli: Solitudine, pubblicità e rifiuto della pubblicità.:   La solitudine   scelta (Seneca, Nietzsche, il Tonio Kröger di T. Mann) o coatta (il Filottete di Sofocle).   Di fatto, soprattut...

Euripide, Baccanti – terzo episodio: vv. 642-659 – testo e traduzione – Maturità 2025

 

Πε.

πέπονθα δεινά· διαπέφευγέ μ' ὁ ξένος,

ὃς ἄρτι δεσμοῖς ἦν κατηναγκασμένος.

ἔα ἔα·

ὅδ' ἐστὶν ἁνήρ· τί τάδε; πῶς προνώπιος         645

φαίνῃ πρὸς οἴκοις τοῖς ἐμοῖς, ἔξω βεβώς;

Pe.

Mi sono successe cose terribile: mi è sfuggito lo straniero

che poco fa era costretto in catene.

Ea ea:

È qui l’uomo; cos’è questo? Come mai ti mostri

qui all’entrata, proprio davanti al mio palazzo, appena uscito?

Δι.

στῆσον πόδ', ὀργῇ δ' ὑπόθες ἥσυχον πόδα.

Πε.

πόθεν σὺ δεσμὰ διαφυγὼν ἔξω περᾷς;

Di.

Arresta il piede, poni sotto all’ira un piede tranquillo.

Pe.

Come è successo che tu vieni fuori dopo essere sfuggito alle catene?

Δι.

οὐκ εἶπον, ἢ οὐκ ἤκουσας, ὅτι λύσει μέ τις;

Πε.

τίς; τοὺς λόγους γὰρ ἐσφέρεις καινοὺς ἀεί.         650

Di.

Non te lo dissi, o non mi ascoltasti, che qualcuno mi avrebbe liberato?

Pe.

Chi? tu infatti introduci sempre nuovi discorsi.

Di.

Colui che fa crescere per i mortali la vite dai molti grappoli.

Δι.

ὃς τὴν πολύβοτρυν ἄμπελον φύει βροτοῖς.

Πε

. . . . . . .

Pe.

. . . . . . .   

Δι.

ὠνείδισας δὴ τοῦτο Διονύσῳ καλόν.

Πε.

κλήιειν κελεύω πάντα πύργον ἐν κύκλῳ.

Di.

Hai fatto proprio un bel rimprovero a Dioniso.

Pe.

Ordino di chiudere ogni torre intorno. 

Δι.

τί δ'; οὐχ ὑπερβαίνουσι καὶ τείχη θεοί;

Πε.

σοφὸς σοφὸς σύ, πλὴν ἃ δεῖ σ' εἶναι σοφόν.         655 

Di.

E perché? non oltrepassano anche le mura gli dèi?

Pe.

Sapiente sei tu, sapiente, tranne in ciò in cui devi essere sapiente.  

Δι.

ἃ δεῖ μάλιστα, ταῦτ' ἔγωγ' ἔφυν σοφός.

κείνου δ' ἀκούσας πρῶτα τοὺς λόγους μάθε,

ὃς ἐξ ὄρους πάρεστιν ἀγγελῶν τί σοι.

ἡμεῖς δέ σοι μενοῦμεν, οὐ φευξούμεθα.

Di.
Soprattutto in ciò in cui bisogna, in questo io sono sapiente per natura.
Ma impara innanzitutto ascoltando le parole di quello
che è giunto dal monte a riferirti un messaggio.
Noi rimarremo con te, non fuggiremo. 

Post in evidenza

DIONISO E AFRODITE: Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2025 – 1° episodio: vv. 298-301 (aggiornamento)

  μάντις δ '  ὁ δαίμων ὅδε· τὸ γὰρ βακχεύσιμον καὶ τὸ μανιῶδες μαντικὴν πολλὴν ἔχει· ὅταν γὰρ ὁ θεὸς ἐς τὸ σῶμ '  ἔλθῃ πολύς,       ...