venerdì 4 ottobre 2024

L’amore è uguale per tutti – Virgilio, Georgiche, III, vv. 209-283 – traduzione e commento – 1° parte


 Vediamo dunque i versi in questione.

Sed non ulla magis uiris industria firmat

quam Venerem et caeci1 stimulos auertere amoris,

siue boum siue est cui gratior usus equorum.         209-211

«Ma nessun mezzo corrobora di più le forze, / sia dei buoi sia, per chi li preferisce, dei cavalli, / che stornare Venere e gli stimoli di un cieco amore».

atque ideo tauros procul atque in sola relegant

pascua2 post montem oppositum et trans flumina lata,

aut intus clausos satura ad praesepia seruant.      212-214

«E perciò confinano3 i tori lontano e in pascoli / solitari oltre un monte contrapposto e al di là di larghe fiumane, / o li tengono chiusi dentro presso greppie ricolme».

carpit enim uiris paulatim uritque uidendo

femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbae

dulcibus illa quidem inlecebris, et saepe superbos

cornibus inter se subigit decernere amantis.          215-218

«Infatti ne consuma4 a poco a poco le forze e li brucia con l’essere vista5 / la femmina, e lei con dolci seduzioni non lascia che si ricordino / dei pascoli e dell’erba, e spesso forza / a lottare tra loro a cornate gli orgogliosi amanti».

 

 1 Si può pensare a Eneide, IV, 2, dove Didone è caeco caritur igni, «è consumata da un fuoco nascosto»; però qui non significa nascosto, ma piuttosto «che non sa dove anadare», e serve a indicare ciò che è istintuale, maleindirizzato; indica un eccesso di Eros. In ogni caso usando due termini per un solo concetto viene istituita subito l’identità tra Venus e Amor.

 2 L’enjambement sottolinea la lontananza.

 3 Relego è termine giuridico per indicare il confino, cioè la dimora coatta in un luogo lontano. È un verbo “umano” applicato ai tori: il secondo segno di equiparazione tra uomini e animali, dopo quello dei primi versi in cui si parla di amore anche per gli animali.

 4 Il verbo è lo stesso della callida iunctura oraziana carpe diem, «spicca la giornata»; denota lacerazione progressiva che va dal tutto alle parti, come fa la morte nella visione di Seneca: carpit nos illa, non corripit, «ci prende un po’ alla volta quella, non ci afferra all’improvviso» (Epistulae, 120, 18). Naturalmente è lo stesso verbo dell’incipit del IV canto dell’Eneide (vv. 1-2): At regina gravi iamdudum saucia cura / vulnus alit venis et caeco carpitur igni, «Ma la regina già da tempo ferita da pesante affanno / nutre la ferita nelle vene ed è consumata da un fuoco nascosto».

 5 Queste forme non finite potevano avere in origine entrambe le diatesi.

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