giovedì 3 ottobre 2024

De rerum natura, IV, vv. 1058-1145 – La ferita d’amore – 2° parte


 Dunque l’amante insano si lascia dominare dalla frenesia erotica,

quia non est pura voluptas

et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum

quodcumque est, rabies unde illaec germina surgunt.    vv. 1081-1083

«poiché il piacere non è puro / e alla base ci ssono dei pungoli che stimolano a ferire proprio ciò, / qualunque cosa sia, da cui sorgono quei germi di furia».

 Venere però, cioè il sesso, lenisce blandamente la ferita d’amore poiché admixta voluptas, «il piacere è mescolato» (all’amore s’intende, cioè appunto non è puro). Il punto è che non si può curare l’amore «omeopaticamente»:

Namque in eo spes est, unde est ardoris origo,

restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.

Quod fieri contra totum natura repugnat;

unaque res haec est, cuius quam plurima habemus,

tam magis ardescit dira cuppedine pectus.        vv. 1087-1091

«E infatti in ciò consiste la speranza, che da dove ha origine l’ardore / da medesimo corpo possa anche essere spenta la fiamma. / Ma la natura si ribella mostrando che avviene tutto il contrario; / e questa è l’unica cosa della quale quanto più ne possediamo / tanto di più arde il petto di brama tremenda».

 

vv. 1091-1104

Nel caso del cibo e delle bevande il corpo a un certo punto si sazia mentre nel caso del leggiadro incarnato di un essere umano non possiamo godere che dei simulacri, quae vento spes raptast saepe misella «una speranza che spesso, meschina, è rapita dal vento» (v. 1096)1. Succede come nei sogni quando non si riesce a sfamarsi o dissetarsi: sic in amore Venus simulacris ludit amantis / nec satiare queunt, «così in amore Venere illude coi simulacri gli amanti / e non riescono a saziarsi» (vv. 1101-1102).

Denique cum membris collatis flore fruuntur

aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus

atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,

adfigunt avide corpus iunguntque salivas

oris et inspirant pressantes dentibus ora,

nequiquam, quoniam nil inde abradere possunt

nec penetrare et abire in corpus corpore toto;     vv. 1105-1111

«Infine quando nell’unione delle membra godono del frutto della / giovinezza e quando ormai il corpo presagisce il piacere / e Venere è sul punto di seminare i campi della donna, / conficcano avidamente il corpo e congiungono le salive / della bocca e ansimano schiacciando coi denti le labbra, / invano, poiché niente da lì possono raschiare, / né penetrare e andarsene nel corpo con tutto il corpo».

 1 Come le parole di Lesbia nel carme 70 di Catullo: Nulli se dicit mulier mea nubere malle / quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat. / Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti, / in vento et rapida scribere oportet aqua, «La mia donna dice che non preferirebbe unirsi a nessuno / piuttosto che a me, nemmeno se la corteggiasse Giove in persona. / Lo dice: ma ciò che una donna dice all’amante bramoso, / bisogna scriverlo nel vento e nell’acqua che tutto trascina». Per par condicio citiamo anche il carme 64 dove Arianna così commenta le mancate promesse di teseo (vv. 142-144): quae cuncta aereii discerpunt irrita venti. / nunc iam nulla viro iuranti femina credat, / nulla viri speret sermones esse fideles, «tutte parole che, vane, i venti disperdono nell’aria. / D’ora in poi nessuna donna creda a un uomo che giura, / nessuna speri che i discorsi di un uomo siano leali». Cfr. Eneide, IX, 313: Sed aurae / omnia discerpunt et nubibus inrita donant, «Ma i venti / le disperdono tutte e vane le donano alle nubi». Sono le ultime parole che Ascanio rivolge a Eurialo e Niso, messaggi per Enea lontano che non arriveranno mai.

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