A questo punto la scena si sposta sull’Olimpo dove Venere protesta con Giove per le sofferenze del figlio al quale invece sono state fatte delle promesse. Giove la tranquillizza rinnovando le promesse.
v. 286
Nascetur pulchra Troianus origine Caesar
«Nascerà troiano, da bella stirpe, Cesare»
Quindi ordina a Ermes di andare dai Cartaginesi per indurli a non essere ostili. Nel frattempo Enea, passata una notte insonne, si muove di primo mattino per esplorare il luogo con Acate. Giunto in un bosco gli appare la madre (sotto le sembianze di una giovane) che lo informa sul luogo in cui è e gli racconta di Didone.
vv. 348-51
Ille Sychaeum
impius ante aras, atque auri caecus amore
clam ferro incautum superat, securus amorum
germanae;
«Quello empio / davanti all’altare, cieco per amore dell’oro / a tradimento col ferro lo abbatte , incurante dell’amore / della sorella».
Siccome Venere vede il figlio piuttosto affranto lo rassicura dicendogli che i suoi compagni di cui non aveva notizie dal naufragio sono sani e salvi, ospitati da Didone.
Quando sta per andarsene Enea la riconosce.
vv. 407-9
Quid natum totiens, crudelis tu quoque, falsis
ludis imaginibus? Cur dextrae iungere dextram
non datur, ac veras audire et reddere voces?
«Perché ti prendi gioco tante volte di tuo figlio, anche tu crudele, / con false apparenze? Perché non è concesso unire la destra / alla destra, e udire e restituire vere voci?»
A questo punto Enea si dirige verso la città, in particolare in un bosco sacro che si trova al centro e dove sorge un tempio con un fregio.
vv. 459-62
Constitit, et lacrimans, “Quis iam locus” inquit “Achate,
quae regio in terris nostri non plena laboris?
En Priamus! Sunt hic etiam sua praemia laudi;
sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt
«Si arrestò, e piangendo, ‘Che luogo ancora’ disse ‘Acate, / che regione sulla terra non è piena della nostra sofferenza? / Ecco Priamo! Ci sono anche qui le sue ricompense per la gloria; / ci sono le lacrime per le imprese e le vicende dei mortali toccano il cuore».
È la poetica delle lacrime, che possiamo far risalire a Euripide, il quale così la esprime, in polemica con Omero:
Euripide, Medea, vv. 190-204.
σκαιοὺς δὲ λέγων κοὐδέν τι σοφοὺς 190
τοὺς πρόσθε βροτοὺς οὐκ ἂν ἁμάρτοις,
οἵτινες ὕμνους ἐπὶ μὲν θαλίαις
ἐπί τ' εἰλαπίναις καὶ παρὰ δείπνοις
ηὕροντο βίῳ τερπνὰς ἀκοάς·
στυγίους δὲ βροτῶν οὐδεὶς λύπας 195
ηὕρετο μούσηι καὶ πολυχόρδοις
ὠιδαῖς παύειν, ἐξ ὧν θάνατοι
δειναί τε τύχαι σφάλλουσι δόμους.
καίτοι τάδε μὲν κέρδος ἀκεῖσθαι
μολπαῖσι βροτούς· ἵνα δ' εὔδειπνοι 200
δαῖτες, τί μάτην τείνουσι βοήν;
τὸ παρὸν γὰρ ἔχει τέρψιν ἀφ' αὑτοῦ
δαιτὸς πλήρωμα βροτοῖσιν.
«Dicendo stolti e per niente sapienti / i mortali di un tempo non sbaglieresti, / essi che trovarono per feste / e banchetti e durante le cene / inni (che sono) un piacevole ascoltare per la vita; / nessuno invece trovò (il modo di) far cessare / con la poesia e con i canti dai molti toni / le odiose sofferenze dei mortali, per le quali morti / e terribili casi abbattono le stirpi. / Eppure questo sì sarebbe un guadagno, sanare / coi canti i mortali; ma dove lauti / sono i banchetti, perché tendono la voce invano? / Infatti la già presente abbondanza della mensa / comprende da sé gioia per i mortali».
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